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Full text of "Confessioni e battaglie"

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WARWICK  &  SONS. 
Law  Book  Binders  ano  Publisher* 

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OPERE 


DI 


GIOSUÈ  CARDUCCI 


IT. 


U  EDITORE  ADEMPIUTI  I  DOVERI 
ESERCITERÀ  I  DIRITTI  SANCITI  DALLE  LEGGI 


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CONFESSIONI 

E 

BATTAGLIE 

DI 

GIOSUÈ  CARDUCCI 


BOLOGNA 

DITTA  NICOLA  ZANICHELLI 

(  Cesare  e  Giacomo  Zanichelli  ) 
MDCCCXC 


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RICORDO  D'INFANZIA 


Carducci.  4. 


In    Ritorniamo   piccini! 

libro  di  premio  del  Giornale  per  i  bainhiui, 

Roma,  1885, 


Mia  signora, 


LLE  dimande  delle  figliuole  d' Eva 
io  credo  che  il  più  savio  e  sano 
partito  sia  sempre  rispondere  no. 
Questa  volta,  trattandosi  di  rim- 
bambire per  chiassO;   non   voglio  parere   villano. 

10  della  mia  infanzia  non  ho  memorie  né  belle 
né  buone  né  curiose. 

11  mio  più  antico  ricordo  mi  pone  sùbito, 
ahimè,  in  relazione  con  un  essere  dell'  altro  sesso, 
come  si  direbbe  con  la  lingua  d' un  certo  uso, 
che,  secondo  i  manzoniani,  dovrebbe  anche  essere 
la  lingua  del  buon  gusto. 

Mi  ritrovo  in  un  luogo  né  bello  né  brutto  — 
forse  un  giardinetto  presso  la  casa  ove  nacqui  — , 
a  una  giornata,  né  di  primavera  né  d' inverno,  né 
d'  estate  né  d'  autunno.  Mi  pare  che  tutto,  cielo 
e  terra,  sopra,  sotto  e  d' intorno,  fosse  umido, 
grigio,  basso,  ristretto,  indeterminato,  penoso. 


4  RICORDO    D    INFANZIA. 

Io  con  una  bambina  dell'  età  mìa,  della  quale 
non  so  chi  sia  o  chi  sia  stata,  dondolavamo,  te- 
nendola per  i  due  capì,  una  fune;  e  mi  pare  che 
cosi  dicevamo  o  credevamo   di    fare   il   serpente. 

Quando  a  un  tratto  ci  si  scoperse  tra  i  piedi 
una  bella  bòdda:  è  il  nome,  nel  dialetto  della 
Versilia,  d'  un  che  di  simile  al  rospo.  Grandi  am- 
mirazioni ed  esclamazioni  di  noi  due  creature 
nuove  su  queir  antica  creatura. 

Le  esclamazioni  pare  fossero  un  po'  rumo- 
rose. Perché  un  grave  signore,  con  gran  barba 
nera  e  con  un  libro  in  mano,  si  fece  in  su  1'  uscio 
a  sgridarci,  o,  meglio,  a  sgridarmi.  Non  era  mio 
padre:  era,  seppi  molto  tempo  dopo,  un  marito 
putativo  d'  una  moglie  altrui  alloggiata  per  certo 
caso  ivi  presso. 

Io,  brandendo  la  fune,  come  fosse  un  fla- 
gello, me  gli  feci  incontro  gridandogli:  Via,  via, 
brutto,  te!  - 

D' allora  in  poi,  ho  risposto  sempre  cosi  ad 
ogni  autorità  che  sia  venuta  ad  ammonirmi,  con 
un  libro  in  mano  e  un  sottinteso  in  corpo,  a  nome 
della  morale. 

Ma  veramente  morale,  per  bambini,  questa 
storia  non  è. 

Che  vuole  ci  faccia  io,  signora?  È  storia.  E  ho 
ubbidito. 


PRIMO  PASSO 


Nel  Primo   Passo,  Note  autobiografiche  di  diversi, 

Firenze,  Carnesecchi,  1882; 

e  in   Confessioni   e   Battaglie  di  G.  ,C.,  Serie  1»S 

Roma,  Sommaruga,  18S2. 


^^  L    primo    passo    verso    il    numero 


^^  dei  più,  cioè  degli  nomini  stam- 
'és  pati,  lo  feci  presto,  e,  da  buon  ita- 
liano, con  un  sonetto,  un  sonetto 
d'occasione;  e  quale  occasione!  per  i  coristi  del 
teatro  di  Borgo  Ognissanti,  o,  salvo  il  vero,  della 
Piazza  Vecchia.  Era  del  1852;  e  io  studiavo,  o,  a 
dir  meglio,  non  studiavo  affatto,  filosofia  dagli 
Scolopii.  Stavo  vicino  di  casa  in  Via  Romana  con 
Emilio  Torelli  stampatore,  e  già  dei  fedeli,  dei  ve- 
ramente e  onestamente  fedeli,  di  F.  D.  Guerrazzi. 
Egli  mi  chiese  il  sonetto.  Come  dir  di  no  a  un  de- 
mocratico del  '48,  che  aveva  tale  una  franca  im- 
postatura tra  di  soldato  e  di  ciompo  (egli  fu 
capitano  dei  municipali,  e  sua  madre  era  piemon- 
tese), e  portava  sempre  uno  smisurato  cappello  o 
di  felpa  o  di  paglia,  all'  ombra  delle  cui  grandi 
ale  poteva  riparare  una  cospirazione?  Diedi  il  so- 


8  PRIMO   PASSO. 

netto;  e  fu  stampato;  anonimo.  Non  me  ne  ricordo; 
ma  ci  doveva  essere  qualche  frase  d' Armonide 
ElideO;  o,  meno  arcadicamente,  d'  Angelo  Mazza. 
Il  vero  primo  passo  per  altro,  e  questo  con  la 
ferma  intenzione  di  peccare,  solamente  non  seguita 
dall'  effetto,  lo  avevo  mosso  qualche  mese  innanzi. 
In  quegli  anni  io  scrivevo  sempre:  ammiravo  il 
bello  da  per  tutto,  cioè  non  capivo  nulla.  Ebbi  in 
una  giornata  di  luglio  il  coraggio  di  mettere  as- 
sieme in  tutti  i  metri  che  mi  corsero  per  la  testa 
(nessun  barbaro:  allora,  al  più,  rifacevo  alcaiche 
su'l  modello  del  Fantoni)  una  novella  roman- 
tica. L' intitolai  Amore  e  Morte.  C  era  dentro  un 
po'  di  tutto  —  un  torneo  in  Provenza  —  e  il  ra- 
pimento della  regina  del  torneo  fatto  da  un  cava- 
liere italiano  vincitore  —  e  una  fuga  con  dialoghi 
al  lume  di  luna  tra  gli  abeti  —  e  il  fratello  della 
vergine  non  più  vergine  che  raggiungeva  gli 
amanti  in  Napoli  —  e  un  duello  —  e  la  morte  del 
vago  —  e  la  monacazione  della  vaga  — •  e  un  suc- 
cessivo impazzamento  —  e  T  annessa  morte,  dopo 
la  confessione  in 

Endecasillabi 
Catulliani 
Dolci  per  facili 
Modi  toscani. 

(Rossetti,  Veggente  in  solitudine). 

Non  téma,  signor  lettore  ;  non  le  infliggerò  la  pena 
di  fargliela  leggere  ;  se  bene  la  curiosità  sua  poco 
discreta  a  voler  conoscere   i   peccati  di  gioventù 


PRIMO    PASSO.  9 

meriterebbe  cotesto  e  peggio.  Ricordo  per  altro 
due  strofe,  quando  la  regina  del  torneo  posava 
una  ghirlanda  su  *1  capo  del  vincitore  che  s'  era 
tratto  r  elmo  : 

Qui  la  bella  di  Tolosa 

Del  baron  gli  occhi  fiso. 

Poi  tremante  e  vergognosa 

Chinò  gli  occhi  e  sospirò. 
Ma  una  fiamma  al  roseo  volto, 

Una  fiamma  le  sali, 

Quando  il  nero  crin  disciolto 

Fra  le  dita  errar  sentf. 

Finita  che  ebbi  la  novella  verso  le  quattro  d 
sera,  e  il  caldo   era   grande    (come   scrivevano 
vecchi  cronisti),  pensai  a  farla  stampare.    Perché 
no?    Leggevo    stampati    tutti   i  giorni  tanti  versi 
che  mi  parevano  peggiori  de'  miei.   U  abate  Ste 
fano  Fioretti  pistoiese  compilava   allora   certo  fo 
glio  tra  teatrale  e  letterario,  intitolato  non  ricordo 
pili    se    r  Arpa   o   il    Liuto    o   il    Trovatore    o    il 
Menestrello,    o  quale   altro    de'  nomi   d'  oggetti  di 
spogliatoio   melodrammatico  che  usavano  ancora 
su  quegli  sgoccioli  del  romanticismo.  Mi  manca  il 
tempo    e   la    serenità    dell'  animo  a   raccogliere  e 
rendere  i  tratti  di  ciò  che   era   allora   1'  abate  to- 
scano: non  prete  del  tutto,  ma  né  men  secolare: 
molto  arcadicamente  o  romanticamente   letterato: 
il  cappello   lungo;    cravattina   simulante  il  collare 
sotto  al  solino  imbiancato  co'l  turchinetto;   abito 
moderatamente  talare   tenuto   aperto   per    lasciar 


IO  PRIMO    PASSO. 

vedere  una  catenella  d'  argento  a  mezzo  la  sotto- 
veste abbottonata  fin  molto  in  su;  tutto  in  nero, 
s' intende;  nero  ed  argento;  in  argento  legate  pos- 
sibilmente le  lenti,  pomo  d'  argento  o  d'  altro  me- 
tallo biancheggiante  su  la  canna  d' India;  in  fine 
andatura  un  pò*  solenne,  ma  con  passi  di  mi- 
nuetto e  naso  air  aria.  Il  Fioretti  del  resto  era 
persona  piacente,  e  galantuomo  e  buon  com- 
pagno :  aveva  V  ufficio  del  giornale  in  un  de'  vi- 
coli che  rameggiano  da  via  Calzaioli.  Salgo  le 
scale  con  grande  trepidazione:  il  direttore  non 
e'  era,  e'  era  la  governante  o  la  cameriera  o 
la  nipote;  non  so  in  somma  che  cosa  fosse  pre- 
cisamente. Il  che  mi  piacque:  non  mica  per  la 
cameriera  o  governante  o  nipote  —  che  era  del 
resto  un  bel  pezzo  di  ragazza,  tipo  fiorentino  del 
Ghirlandaio  un  po'  volgarizzato  —  ma  io,  figu- 
ratevi, ero  troppo  fresco  d^W  Amore  e  Morte  e 
della  mia  creazione  di  Gilda.  Mi  piacque,  perché 
cosi  potei  scrivere  una  lettera  al  direttore  (a  par- 
lare mi  sarei  imbrogliato),  con  la  quale  gli  lasciavo 
e  raccomandavo  la  mia  novella:  sarei  tornato  il 
giorno  dopo  per  la  risposta.  Tornai;  e  il  piacente 
abate  con  squisita  cortesia  mi  fece  capire  che  la 
mia  novella  era  troppo  lunga  e  troppo  letteraria 
per  un  foglio  come  il  suo. 

Rividi  poi,  circa  il  '59,  e  più  volte,  V  abate 
Fioretti;  e  finimmo  buoni  amici.  Mi  dava  o  mi 
mandava  certe  sue  cantate  storiche.  Una,  mi  ri- 
cordo,   Gli   Orti   Oricellari   a   tempo    dell'  ultima 


PRIMO    PASSO.  II 

cacciata  dei  Medici  da  Firenze,  fu  musicata  dal 
Mabellini  per  i  parentali  a  Niccolò  Machiavelli  ce- 
lebrati in  Pistoia  la  sera  del  26  luglio  1863.  E  me 
ne  ricordo  un'  aria  a  più  voci  tra  Palla  Rucellai, 
il  Machiavelli  figliolo  e  Zanobi  Buondelmonti. 

Palla 
Ah  .  .  .  del  ribelle  moto 
Còrremo  ì  frutti  amari. 

Machiavelli 
Ai  Medici  devoto 
Vedrem  rOricellari? 

Palla 
Tutti  i  tiranni  abomino, 
Detesto  al  par  di  te; 
Ma  nella  plebe  instabile 
Non  so  ripor  la  fé'. 

BUOXDELMOXTI 

Torna  a  regnare  il  popolo. 
Che  plebe  vii  non  è. 

lo  gli  lodai  quella  cantata.  Sicuro!  Gli  ero  debi- 
tore dell'  avermi  risparmiato  la  stampa  della  no- 
vella. Imaginatevi  se  i  critici  italiani  avessero 
poi  scoperto  che  a  sedici  anni  feci  una  poesia 
romantica  ! 


LE  RISORSE 
DI  SAN  MINIATO  AL  TEDESCO 

E    LA 

PRIMA  EDIZIONE  DELLE  MIE  RIME 


In    Confessioni   e   battaglie   di  G,  C,  2»  serie, 
Roma,  Sommaruga,  1883. 


OME  strillavano  le  cicale  giù  per 
la  china  meridiana  del  colle  di 
^  San  Miniato  al  Tedesco  nel  luglio 
)^  del  1857! 
Veramente  per  significare  lo  strepito  delle  ci- 
cale il  Gherardini  e  il  Fanfani  scavarono  dalla 
Fabbrica  del  mondo  di  Francesco  Alunno  il 
verbo  frinire.  E  per  una  cicala  sola^  che  canti, 
amatrice  solinga^  sta.  Ma,  quando  le  son  tante  a 
cantar  tutte  insieme,  altro  oh^  frinire,  filologi  cari  ! 
Come,  dunque,  strillavano  le  cicale,  etc.  etc.  ! 
Intorno  intorno,  i  verzieri  fortemente  distinti  dal 
verde  cupo  delle  ficaie;  al  piano,  i  campi  nei  quali 
il  verde  cedeva  più  sempre  al  giallo  biondo,  al  giallo 
cenerino,  al  polveroso  della  grande  estate  ;  di  fac- 
cia, r  ondoleggiante  leggiadria  dei  colli  di  Val- 
darno  somiglianti  a  una  fila  di  ragazze  che  prèsesi 
per  mano  corrano   cantando  rispetti   e   volgendo 


l6  LE   RISORSE 

le  facce  ridenti  a  destra  e  a  sinistra,  —  tutto  co 
testo  viveva  ardeva  fremeva  sotto  il  regno  del 
sole  nel  cielo  incandescente.  Spiccava  tra  il  piano 
e  i  colli  non  interrotta  una  fuga  di  pioppi,  e  tra 
il  frondente  colonnato  degli  agili  tronchi  scopri- 
vano e  con  la  folta  canizie  delle  mobili  cime 
ombreggiavano  il  greto  del  fiume,  luccicante,  sotto 
lo  stellone  del  mezzogiorno,  di  ciottoli  bianchi. 
Come  strillavano  le  cicale  in  quella  estate  della 
dolce  Toscana! 

Io  non  ho  mai  capito  perché  i  poeti  di  razza 
latina  odiino  e  oltraggino  tanto  le  cicale.  Le  han 
dette  roche,  ed  aspro  e  discorde  il  loro  canto. 
Fin  Virgilio  con  loro  non  è  più  gentile. 

Et  caiìtii  quernlae  ruinpuìit  arbtista  cicadae: 

e  r  Ariosto  perde,  per  un  momento,  della  sua 
grandezza. 

Sol  la  cicala  col  noioso  metro 

Le  valli  e  i  monti  assorda  e  il  mare  e  il  cielo. 

I  greci  le  salutavano  figlie  della  Terra,  e  le  ono- 
ravano emblema  della  nobiltà  autòctona.  Demos, 
il  popolo,  comparisce,  se  mal  non  ricordo,  nelle 
commedie  di  Aristofane,  coronato  il  capo  di  cicale 
d'oro.  Gli  ateniesi  anche  ne  mangiavano:  io  mi 
contento  di  ammirarle. 

Oh  tra  il  grigio  polveroso  dei  rami,  e  nei  cre- 
pacci gialH  delle  colline  cretacee,  e  nelle  fendi- 
ture ferrugigne  de'  riarsi  maggesi,  oh  care  bestio- 
line  brune  co'  due  grossi  occhi  fissi  e  co'  tre  occhi 


DI    SAN    MINIATO    AL    TEDESCO.  I7 

piccolini  vivi  SU  '1  dosso  cartilaginoso  !  Esse  can- 
tano quanto  dura  la  perfezione  del  loro  essere, 
cioè  fin  che  amano:  cantano  i  maschi,  le  femmine 
no:  le  donne  sono  sempre  senza  poesia.  Comin- 
ciano agli  ultimi  di  giugno,  nelle  splendide  mat- 
tinate, quando  la  clemenza  del  sole  nel  suo 
primo  salire  sorride  ancora  agli  odoranti  vezzi 
della  giovine  estate,  cominciano  ad  accordare  in 
lirica  monotonia  le  voci  argute  e  squillanti.  Prima 
una,  due,  tre,  quattro,  da  altrettanti  alberi;  poi 
dieci,  venti,  cento,  mille,  non  si  sa  di  dove,  pazze 
di  sole,  come  le  senti  il  greco  poeta;  poi  tutto 
un  gran  coro  che  aumenta  d' intonazione  e  d' inten- 
sità co  '1  calore  e  co  '1  luglio,  e  canta,  canta,  canta, 
su'  capi,  d'  attorno,  a*  piedi  de*  mietitori.  Finisce 
la  mietitura,  ma  non  il  coro.  Nelle  fiere  solitu- 
dini del  solleone,  pare  che  tutta  la  pianura  canti, 
e  tutti  i  monti  cantino,  e  tutti  i  boschi  cantino: 
pare  che  essa  la  terra  dalla  perenne  gioventù  del 
suo  seno  espanda  in  un  inno  immenso  il  giu- 
bilo de'  suoi  sempre  nuovi  amori  co  '1  sole.  A  me 
in  quel  nirvana  di  splendori  e  di  suoni  avviene 
e  piace  di  annegare  la  conscienza  di  uomo,  e 
confondermi  alla  gioia  della  mia  madre  Terra: 
mi  pare  che  tutte  le  mie  fibre  e  tutti  i  miei  sensi 
fremano,  esultino,  cantino  in  amoroso  tumulto, 
come  altrettante  cicale.  Non  è  vero  che  io  sia  ser- 
bato ai  freddi  silenzi  del  sepolcro  !  io  vivrò  e  can- 
terò, atomo  e  parte  della  mia  madre  immortale. 
Oh  felice  Titone,  uscito  cicala  dagli  amplessi  del- 

Carducci.  4.  2 


,l8  LE  RISORSE 

r  Aurora  !  e  felicissimi  voi,  uomini  antichi,  i  quali, 
come  la  Grecia  imaginò  e  raccontò  il  senno  divino 
di  Platone,  tutte  le  vostre  vite  spendeste  dietro 
la  voce  delle  Muse,  e  per  la  voce  delle  Muse 
tutto  obliaste,  anche  V  alimento  e  V  amore,  sin  che 
gli  dèi  impietositi  vi  trasformarono  in  brune  cicale. 
In  Toscana  e  ih  Romagna  le  cicale  durano  a 
cantare,  più  sempre  rade,  è  vero,  e  via  via  più 
discordi,  fino  in  settembre;  e  a  me  è  avvenuto  di 
sentirne  qualcuna  a  punto  dopo  le  prime  piogge 
settembrine.  Come  si  affaticava,  quasi  per  un 
senso  di  dovere,  la  figlia  della  Terra  a  pur  can- 
tare !  ma  come  era  triste  quello  stridore  di  cicala 
unica  tra  il  ridesto  sussurrio  de'  venti  freschi  e  la 
dolcezza  del  verde  rintenerito  !  E  anch'io  sono 
oramai  una  cicala  di  settembre  :  non  rimpiango 
né  richiamo  né  invidio  ;  soltanto  tra  le  brezze 
d'  autunno  ricordo  gli  ardori  del  luglio  1857  e  le 
estati  della  dolce  Toscana. 


II. 


Veramente  nel  luglio  del  '57  io  non  strillavo 
su'  rami  degli  alberi,  ma  insegnavo  retorica  in 
una  stanza  di  un  grand'  edifizio  monacale,  a  un 
primo  piano,  scialba  e  disadorna,  le  cui  finestre 
spalancate  (è  meglio  sempre  godersi  il  sole  fin 
che  ce  n'  è  ;  ci  sarà  da  star  poi  tanto  al  buio  ed 
al  freddo)  guardavano  allegramente  una  parte 
del  Valdarno  inferiore.  Eravamo  a  insegnar  qual- 


DI   SAN   MINIATO    AL   TEDESCO.  I9 

che  cosa  nel  ginnasio  di  San  Miniato,  detto  pom- 
posamente liceo,  tre  compagni  usciti  allora  allora 
da  Pisa.  Pietro,  filosofo  giobertiano,  forte  a  di- 
sputare deir  ente  e  a  rompere  con  un  colpo  della 
testa  le  impòste  d' un  uscio,  insegnava  umanità. 
(terza  ginnasiale),  ed  era  il  più  anziano  dei  tre 
e  il  più  positivo  :  profilo  di  Don  Chisciotte  e  buon 
senso  di  Sancio  Panza:  rifaceva  stupendamente! 
gatti  innamorati  e  miaulava  le  arie  del  Trovatore. 
Ferdinando,  più  largamente  noto  co  '1  nome  di 
Trombino,  per  avere  in  una  ripetizione  di  let- 
teratura latina  trasformato  allegramente  cosi  il 
severo  Frontino  compendiatore  delle  Historiae 
philippicae,  insegnava  grammatica  (seconda  e 
terza),  non  senza  molta  e  sospettosa  meraviglia 
del  vecchio  professore  di  grammatichina  (prima), 
un  vero  maestro  con  cravattona  e  pancia,  con 
mazza  e  scatola  di  tabacco:  egli  era  in  fondo  il 
più  goliardo  della  compagnia,  ma  eseguiva  le  sue 
maggiori  scapataggini  serio  serio  e  in  grande 
quiete  ;  aveva  de'  rosei  rossori  di  fanciulla,  e 
avrebbe  potuto  cantare  come  un  pavone.  Io,  co- 
nosciuto anche  per  Pinini,  causa  un  raddoppia- 
mento spostato  nella  coniugazione  del  verbo  Tiiveiv, 
insegnavo  retorica  (quarta  e  quinta),  cioè  facevo 
tradurre  e  spiegare  a  due  ragazzi  più  Virgilio  e 
Orazio,  più  Tacito  e  Dante  che  potessero;  e  but- 
tavo fuor  di  finestra  gV  Inni  Sacri  del  [Manzoni. 
Il  sotto-prefetto,  del  quale  non  ricordo  il  nome 
ma  veggo  ancora  l'ombra  del   lunghissimo  naso, 


ao  LE   RISORSE 

nella  visita  che  arrivati  dovemmo  fargli  ci  aveva 
con  tono  di  pietoso  rimpianto  avvertiti,  che  San 
Miniato  era  luogo  di  poche  risorse.  Dei  molti 
significati  di  cotesto  francesismo  Pietro  colse 
il  men  proprio  e  più  utilitario^  e  faceva  boc- 
cucce: Trombino  e  io  ci  ammiccammo  di  sottéc- 
chi;  ridendo  e  pensando  —  Le  risorse  le  trove- 
remo noi. 

E  le  trovammo.  Innanzi  tutto  ci  accontammo 
presto  con  una  brigata  di  giovanotti  (come  troppe 
di  simili  ce  n'  era  e  ce  n'  è  forse  ancora  per  le 
città  minori  e  le  grosse  terre  di  Toscana);  piccoli 
possidenti  e  dottori  novelli,  che,  vivendo  del  loro 
poco  e  nella  speranza  dello  studio  e  dell'  impiego 
futuro,  passavano  tutte  le  sante  giornate  a  non  far 
nulla,  o  meglio  a  far  di  quelle  cose  che  forse 
sono  le  più  degne  e  più  proprie  dell'  hoìno  sa- 
piens (  almeno  gli  animali  non  le  fanno),  come  sa- 
rebbe mangiare  e  bere  il  meno  male  e  il  più  spesso 
possibile,  giocare,  amare,  dir  male  del  prossimo 
e  del  governo.  Noi  tre  abitavamo,  sùbito  fuori 
Porta  fiorentina,  tutta  noi,  una  casetta  nuova,  che 
un  oste  tassoniano,  ma  non  bolognese,  detto, 
credo  per  eufemia,  Afrodisio,  ci  aveva  appigio- 
nato; e  ci  passava  anche  da  mangiare  a  bonis- 
simi  patti.  Io  me  la  veggo  ancora  dinanzi  co'l 
poetico  nome  postole  da  noi  di  Torre  bianca^ 
ma  il  vicinato  la  conosceva  per  la  casa  de*  mae- 
stri. E  cominciava  ad  aver  mala  voce  all'  intorno, 
per  i  molti  strepiti.  Ci  si  sentiva,  pur  troppo,   di 


I 


DI   SAN    MINIATO   AL   TEDESCO.  21 

notte  e  dì  giorno,  ogni  qual  volta,  ed  era  spesso, 
V  allegra  compagnia  la  invadesse. 

Ave  color  vitii  clari. 
Ave  sapor  sinc  pari! 
Tua  tios  ùiebriari 
Digncris  potentia  ! 

Tali  erano,  se  non  le  parole,  il  senso  e  il  signi- 
ficato di  quelli  strepiti,  e  le  invocazioni  e  le  an- 
tifone di  quei  misteri  ;  che  non  di  rado  erano  pure 
celebrati  in  pubblico  nel  caffè  Micheletti  o  in  una 
osteriuccia  a  pie  del  colle  su  la  strada  provinciale. 

Qualche  volta  anche  andavamo  alla  méssa,  in 
domo  ;  e  una  di  quelle  mésse  m'  è  ancora  in  me- 
moria per  la  lieta  illustrazione  di  certi  quadri  o 
affreschi,  che  il  capo  più  ameno  della  brigata  re- 
citava, menandomi  in  giro  per  le  navate,  in  istil 
bergamasco,  contraffacendo  il  parlare  d'  una  ven- 
ditrice di  castagne  compatriotta  del  poeta  Ber- 
nardino Zendrini,  e  con  un  sistema  critico  di 
perpetua  comparazione  tra  la  figura  di  San  Giu- 
seppe e  quella  del  sotto-prefetto,  che,  tutto  in  nero, 
ascoltava  il  divino  ufficio  nella  prima  panca. 

Hinc  mihi  prima  mali  labes.  Da  cotesta  ber- 
gamascata  e  dalle  mie  smargiasserie  di  antiman- 
zonismo mi  si  levarono  intorno  i  fumacchi,  e  ben 
presto  mi  avvolsero  e  tinsero  tutto,  d' una  leg- 
genda d'  empietà  e  di  feroce  misocristismo.  Assai 
prima  che  l' imperatrice  Eugenia  avesse  a  inorri- 
dire su  i  grassi  venerdì  santi  del  principe  Giro- 
lamo Napoleone  e  dell'  accademico  Sainte-Beuve, 


22  LE   RISORSE 

corse  per  Valdarno  una  spaventosa  voce,  che  io 
il  venerdì  santo  del  '57'  fossi  sceso  da  San  Mi- 
niato alla  taverna  del  piano,  e  all'  oste  sbigottito 
avessi  fieramente  intimato:  Portami  una  costola 
di  quel  p....  di  Gesù  Cristo.  È  vero  che  in  quel- 
la anno  io  andavo  pensando  o  andavo  dicendo  di 
pensare  un  inno  a  Gesù  con  a  motto  un  verso  e 
mezzo  di  Dante, 

Io  non  so  chi  tu  sie  né  per  che  modo 
Venuto  se' quaggiù; 

ma  è  anche  vero  che  quel  venerdì  santo  io  era 
a  Firenze,  e  quei  mesi  studiavo  appassionata- 
mente lacopone  da  Todi  e  annunziavo  a  tutti 
la  sua  gran  superiorità  su  '1  Manzoni  e  lo  salutavo 
Pindaro  cristiano,  e  composi  una  lauda  al  Corpo 
del  Signore.  Il  che  tutto  non  impedi  che  non  mi 
fosse  avviato  un  processo;  e  un  processo  di  tal 
materia  a  quegli  anni  in  Toscana  poteva  menar 
lontani.  Per  fortuna  che  der57  anche  e' era. in  To- 
scana, pur  ali'  ombra  della  cappamagna  di  Santo 
Stefano,  del  buon  senso  parecchio  e  dell'  onestà. 
Dieci  anni  dipoi  un  giornalucolo  fiorentino  di 
parte  moderata,  che  forse  forse  a'  tempi  di  Gian 
Gastone  avrebbe  potuto  correre  il  rischio  di  pas- 
sare per  arditello  e  spiritosetto,  affermava  che  da 
giovine  io  era  stato  anche  clericale. 

III. 

Una  seconda  risorsa  tra   gli   officii  magistrali 
di  San  Miniato   erano   gli   amici,   che   nelle  belle 


DI    SAN    MINIATO    AL    TEDESCO.  2^ 

domeniche  d' aprile,  di  maggio  e  di  giugno  cr 
venivano  a  trovare  da  Firenze:  il  Nencioni,  il 
Chiarini,  il  Gargani.  In  quei  giorni  la  Torre- 
bianca  spargeva  intorno  strepiti  più  gloriosi:  un 
romantico  di  buone  intenzioni  avrebbe  potuto 
dire  che  "  fervea  di  canti,  fervea  di  suoni  „,  e  che 
una  fantastica  aureola  di  luce,  elettrica  emana- 
zione degli  spiriti  di  tutte  le  nostre  giovinezze, 
nelle  ore  del  queto  e  melodioso  vespero  la  irra- 
diava: io,  per  quello  me  ne  ricordo,  direi  sem- 
plicemente che  facevamo  un  casa  del  diavolo. 
Del  resto  io  non  ho  mai  sonato  o  giocato  a'  miei 
giorni,  né  cantato  o  ballato  mai,  se  non  per  burla  ; 
ma  mi  sentiva  cosi  bene  del  mandare  a  spasso 
per  que'  brusii  e  per  que'  trepestìi  le  mie  tristezze 
selvatiche  e  di  cacciarle  dalla  ròcca  del  cuore 
(barocco  misto,  di  Dante  e  del  seicento  )  bombar- 
dandole a  scariche  di  tappi  saltanti  !  Il  Chiarini  e 
il  Nencioni,  non  troppo  avvezzi  a  cotesti  fuochi 
di  fila,  se  ne  tornavano  la  dimane  a  Firenze,  con 
uno  sbalordimento  ammirativo,  che  durava  più 
giorni,  della  ospitalità  di  San  Miniato.  Io,  la  sera 
a  una  cert'  ora,  cantavo  a  loro  due,  come  l'Aleardi 
a  Maria,  la  mia  canzone  più  bella,  V  ultima  fatta,, 
per  addormentarli  ;  poi,  accomodatili  a  letto,  uscivo 
co  '1  Gargani  tacitae  per  amica  silentia  lunae. 

Giuseppe  Torquato  Gargani  (del  Chiarini  e 
del  Nencioni  non  ho  a  dire  altro  qui:  tutti  gì" in- 
telligenti li  conoscono,  e  tutti  i  buoni  li  amano) 
mori  d'amore  e  d' idealismo  in  Faenza  il  29  mar- 


24  LE    RISORSE 

zo  1862.  Era  un  fiorentino  puro;  e  pareva  una 
figura  etrusca  scappata  via  da  un'urna  di  Volterra 
o  di  Chiusi,  con  la  persona  tutta  ad  angoli,  ma 
senza  pancia,  e  con  due  occhi  di  fijoco:  io  lo  aveva 
conosciuto  a  scuola  di  retorica,  ridondante  ed 
esondante  di  guerrazziana  fierezza.  Poi,  andato 
per  raccomandazioni  di  Pietro  Thouar  in  Roma- 
gna e  proprio  in  Faenza  maestro  nella  famiglia 
di  certi  signori,  vi  si  era  convertito  a  un  classi- 
cismo rigidamente  strocchiano;  che,  di  ritorno 
dopo  tre  anni  in  Firenze  e  praticando  il  Chiarini 
e  Ottaviano  Targioni  Tozzetti,  aveva  fortificato 
con  una  cresima  leopardiana  e  giordaniana.  Ma 
un  classico,  come  s' intendeva  allora,  doveva  es- 
sere anche  moderato,  molto  moderato,  in  politica; 
e  in  questa,  almeno  quei  primi  anni,  il  Gargani 
aveva  serbato  le  memorie  e  le  tradizioni  del '49; 
era  un  romantico-guerrazziano-mazziniano,  arrab- 
biato, intransigente,  antropofago.  E,  tale  pur  es- 
sendo, aveva  V  anno  innanzi  scagliato,  scandalo 
a  tutta  Firenze,  una  diceria  su  i  poeti  odiernissimi) 
e  traduceva  nel  più  bello  stile  i  sermoni  di  non 
so  quale  abbate  francese,  li  traduceva,  con  dili- 
genza squisita  anche  di  scrittura,  in  servigio  d'un 
prete  amico  suo  che  li  predicasse;  metteva  insieme, 
con  la  stessa  diligenza  di  giudizio  e  di  studio,  e 
sempre  trascrivendo  tutto  nettamente  co  '1  suo  bel 
caratterino  di  erudito  del  settecento,  una  scelta  di 
lettere  per  un  editore  che  né  gliela  stampò  né 
gliela    pagò;     componeva    a    cinquantine   sonetti 


r 


DI   SAN   MINIATO    AL   TEDESCO.  25 

amorosi  in  stile  tra  petrarchesco  e  foscolo-leo- 
pardìano;  e  lavorava  co'l  Targioni  all'edizione  del 
Volgarizzamento  d^  Esopo  per  uno  da  Siena,  del 
quale  scoprirono  essi  primi  un  più  bel  testo  nella 
Mediceo-laurenziana.  A  quegli  anni  s'  era  comin- 
ciato in  Toscana  a  dar  fuori  i  testi  classici  con 
miglior  metodo  critico  che  non  usassero  i  vecchi 
accademici  e  i  nuovi  mestieranti  empirici;  e  di 
tale  miglioramento  resta  saggio  pregevolissimo 
r  Esopo  senese  curato  dal  Targioni  e  dal  Gar- 
gani,  pur  cosi  incompiuto  come  nel  1864  fu  pub- 
blicato dal  Le  Monnier.  Io  era  qualche  volta  te- 
stimone dei  dotti  e  amorosi  studi  onde  quei  cari  e 
rari  amici  proseguivano  il  lavoro  pe'  sollioni  fio- 
rentini concentrati  nella  Laurenziana  e  per  le  notti 
gelide  e  serene  vegliate  nella  casa  del  Targioni^ 
in  via  san  Sebastiano,  non  lungi  al  cenacolo  guelfo 
del  buon  marchese  Gino.  Né  si  limitavano  quegli 
studi  a  Firenze  :  non  s'  era,  sto  per  dire,  più  si- 
curi di  movere  un  passo  per  un  cantuccio  di  To- 
scana, senza  il  pericolo  di  trovarsi  davanti  il  Gar- 
gani  e  il  Targioni  in  caccia  del  gobbo  frigio.  Non 
posso  contare  qui  le  mille  bizzarrie  delle  quali 
intramezzavano  e  rallegravano  la  loro  esopiana 
filologia.  Basti  dire  che  avevano  mandati  a  me- 
moria tutti  i  testi  diversi,  e  il  Gargani  s'  era  in- 
caponito a  parlare  da  mattina  a  sera,  a  qualunque 
proposito  e  in  qualunque  occorrenza,  credo  anche 
di  notte  sognando,  la  lingua  esopiana.  E  non  ba- 
sta. Bisognava   vederlo  e  udirlo,   Giuseppe   Tor- 


26  LE   RISORSE 

quato^  il  quale  nel  suo  catoniano  classicismo  aveva 
ore  d' irrefrenabile  e  sfrenata  mattia,  a  far  la  mi- 
mica della  rana  quando  "  si  spogliò  il  sottano,  e 
tràssesi  i  calzari;  e  fermò  i  piedi  in  terra,  e  pò- 
sesi  le  mani  alle  ginocchia;  e  istrinse  i  denti;  e 
levò  il  capo  al  cielo  e  gonfiò  con  tanta  iniquità 
alla  terza  volta;  che  le  budella  sue  vanno  per  terra 
et  è  crepata  „.  Cotale  mimica  egli  eseguiva,  par- 
lando e  atteggiando  la  sua  etrusca  figura  in  tutti 
i  modi  più  icastici  e  realistici;  nella  grande  aula 
michelangiolesca  della  Laurenziana;  dopo  che  il 
prefetto  Crisostomo  Ferrucci  si  fosse  ritirato  nelle 
stanze  di  dietro.  Che  cosa  di  quelle  scene  pen- 
sassero gli  spiriti  degli  umanisti  del  quattrocento 
e  dei  filologi  del  cinquecento  imprigionati  ne' vec- 
chi codici;  io  non  so  :  ma;  sentendo  il  dirugginio 
delle  catene  tra  i  plutei  medicei,  imaginavo  e 
credo  fossero  essi  che  digrignassero  i  denti  per 
dispetto  e  invidia  di  quella  allegrezza  onde  noi 
giovani  celebravamo  la  filologia.  Qualche  tedesco, 
che  stava  in  disparte  raffrontando  testi  d'  Aristo- 
fane; guardava  e  ammirava  stupito  e  sospettoso,, 
non  fosse  un  qualche  fantasma  del  commediografo 
antico  che  gli  si  oggettivasse  in  una  capricciosità 
grottesca  del  rinascimento  toscano. 

Con  tutto  questo  il  Gargani  era;  ripetO;  un  re- 
pubblicano di  rigida  osservanza;  un  puritano  fe- 
roce: il  Nencioni  lo  disegnò  più  tardi  per  il  Ma- 
rat degli  Amici  pedanti.  Io,  allora  neir  apogeo  del 
classicismo    greco-romano,    non    ammiravo    gran 


.    DI   SAN   MINIATO   AL   TEDESCO.  27 

fatto  la  eloquenza  polìtica  moderna  e  ammiravo 
anche  meno  la  poesia  della  rivoluzione.  Onde,  una 
di  quelle  notti  che,  dormenti  già  gli  amici  nella 
Torre  bianca,  io  e  il  Gargani  passavamo  alla  cam- 
pagna tacitae  per  amica  silentia  hmae,  seduto  in 
riva  a  uno  stagno  da  cui  saliva  qualche  borbottio 
di  ranocchi  alla  luna  serena,  inspirato  dalla  circo- 
stanza e  dai  discorsi  dell'amico,  mi  feci  un  tratto 
a  improvvisargli  la  epopea  delle  ranocchie,  be- 
stiole, del  resto,  che  per  amore  d'  Esopo  gli  do- 
veano  esser  care.  \J  improvvisazione  durò  due 
ore  almeno  :  T  amico,  appoggiato  a  un  pioppo, 
ascoltava,  ridendo  d'  un  suo  cotal  riso  un  po'sten- 
terellesco.  C  era  nella  epopea  un'  allocuzione  tri* 
bunizia  del  Gargani,  stanco  dell'aspettare  e  dispe- 
rato del  veder  mai  una  rivoluzione  in  Firenze,  ai 
ranocchi  dell'  Arno  :  decasillabi.  C'  era  la  repub- 
blica delle  ranocchie,  capitano  del  popolo  Tor- 
quato Gargani  :  versi  sciolti.  C'  era  la  ribellione 
delle  cittadine  gracidanti  contro  il  Gargani  fattosi 
tiranno:  marsigliese  delle  ranocchie:   cominciava, 

O  figlie  del  pantan, 
Marciam  marciam  marciara 
Contro  il  tiranno  uman, 
Il  capitan  Gargan! 

Le  ranocchie  pigliavano  il  Gargani,  lo  conse- 
gnavano mani  e  piedi  legato  ai  poeti  odiernis' 
simi  loro  nuovi  alleati.  Non  ricordo  poi  come 
finisse. 


28  LE   RISORSE 

Qualche  sera  riaccompagnavo  io  il  Gargani  a 
Firenze.  Arrivati,  passeggiavamo  tutta  notte  di- 
scutendo e  questionando  di  edizioni  critiche,  del 
Poliziano  e  di  Esopo,  e  della  monarchia  e  della 
repubblica  nella  prossima  rivoluzione.  Cosi  face- 
vamo giorno.  Quando  il  sole  avea  ridestato  i  co- 
lori i  rumori  ef  gli  odori  della  vita  in  Mercato 
vecchio,  il  Gargani  sentenziava  serio  serio  :  A  chi 
vegliò  tutta  notte  in  solenni  meditazioni  confe- 
risce alla  mattina   un   galletto   arrosto E   cosi 

s*  entrava  da  Gigi.  Come  si  soprannominasse  Gigi 
non  lo  dirò  io  :  certa  volta  non  so  se  un  burlone 
o  r  ordinanza  d*  un  ufficiai  piemontese  s'  affacciò 
alla  sua  inclita  cucina,  dimandando  :  Sta  qui  Gigi 
Porco  ?  —  ET  oste  fiorentino,  che  non  intendeva 
partecipare,  né  men  per  procuratore,  la  gentilizia 
genealogia  di  Cuccio  Imbratta  —  Gigi  son  io,  e 
il  porco  sarà  lei.  —  A  noi  Gigi  si  faceva  innanzi 
con  la  sua  faccia  di  ciompo  da  bene  e  co  *1  grem- 
bialone,  e  —  Che  desiderano  questi  signori?  — 
Un  galletto  arrosto.  —  Segni  di  meraviglia,  con 
sùbita  cortesia  repressi.  —  Per  V  appunto  èccone 
qui  uno  fresco  fresco  e  di  primo  canto,  come  un 
abatino  del  domo.  —  E  la  bianca  tovaglia  era 
distesa  su  '1  desco  nero,  e  sopra  vi  troneggiava 
r  amabile  sovranità  del  fiasco,  e  il  nidore  dell'ar- 
rosto salia  riempiendo  di  promesse  la  stanza  e 
confortando  a  noi  i  muscoli  un  po' rilassati  dal- 
l' umidor  della  notte.  E  mangiavamo  il  galletto,  e 
bevevamo  del  fiasco;  e  dopo  le  otto  ci  lasciavamo, 


DI    SAN    MINIATO    AL    TEDESCO.  29 

il  Gargani  avviandosi,  con  un  inquieto  can  levriere 
in  guinzaglio,  per  1'  Esopo,  e  io  alla  stazione  per 
a  San  Miniato. 

Domani  è  il  giorno  de'  morti.  O  amico  che 
giaci  muto  e  freddo  nella  fossa  di  Romagna,  a  te 
certo  non  spiace  che  io  rinno velli  ancora  per  un 
poco  la  memoria  delle  nostre  belle  estati  fiorentine. 


IV. 


Un*  altra  risorsa,  e  questa  un  pò*  più  perico- 
losa :  m' innamorai. 

Non  si  spaventino  i  lettori  e  non  protendano 
le  braccia  per  deprecare  dalle  loro  teste  i  nembi 
di  fiori  o  la  grandinata  di  frasi  o  la  pioggia  la- 
pidea di  concetti  che  sogliono  portare  con  sé  le 
meteore  dell'  amore  ogni  qual  volta  movano  dalla 
plaga  della  poesia. 

Io,  quando  m' innamorai  a  San  Miniato,  gustai 
la  prima  volta  e  sentii  profondamente,  e  sento 
ancora  nel  cuore,  la  segreta  dolcezza  e  la  soave 
infinita  malinconia  del  canto  del  cuculo. 

Salute,  o  prediletto 
Figlio  di  primavera!  al  mio  pensiero 
Augel  non  già,  ma  obietto 
Invisibile,  e  suon  vago,  e  mistero. 

(WoRDswoRTH,  tvad.  di  G.  Chiarini). 

Ohimè  quanto  chiasso  e  quanti  sdilinquimenti 
di  tutti  i  poeti,  fin  turchi,  per  quel  frinfrino  di 
scambietti  vocali,  per  quel  tenorino  virtuoso  de'  bo- 


3©  LE   RISORSE 

schi;  per  quel  flautetto  e  organetto  pennutO;  che 
è  r  usignolo.  E  invece  si  vuol  dare  mala  voce 
al  cuculo,  perché  la  sua  femmina  depone  e  ab- 
bandona le  uova  nel  nido  degli  altri  uccelli.  Po- 
veretta! e  se  ella  fosse  conformata  a  generare 
soltanto  e  non  a  covare?  A  ogni  modo  non  è  lei 
che  canta,  è  il  maschio.  Egli  viene  alle  nostre  terre 
nei  novelli  giorni  d'  aprile,  e  annunzia  primo  ai 
campi  ed  agli  alberi  il  rinascimento  dei  fiori  e 
r  arrivo  degli  altri  uccelli  canterini,  annunzia  ai 
giovani  e  alle  fanciulle  le  belle  sere  della  gioia, 
dei  balli  e  degli  amori.  Egli  per  sé  non  ne  gode; 
e,  quando  gli  altri  uccelli  accorrono  cinguettando 
cianciando  schiamazzando,  si  ritira  in  un  albero 
fosco  o  tra  le  ruine  fiorite  d'  un  vecchio  edifizio, 
e  di  là  manda  al  sole  e  alle  stelle  i  suoi  sospiri 
e  i  singhiozzi. 

Il  mio  cuculo  cantava  dalla  ròcca  che  Fede- 
rigo II  inalzò  in  vetta  al  colle  di  San  Miniato, 
e  par  che  àncora  minacci  come  labarda  levata  il 
guelfo  Valdarno.  E  forse  a' bei  giorni  di  casa  sveva 
i  re  Arrigo  ed  Enzo  cantavano  lassù  in  giovini 
rime  i  loro  amori: 

Salutami  Toscana, 

Quella  ched  è  sovrana, 

In  cui'  regna  tutta  cortesìa. 

E  lassù  dicono  finisse,  battendo  della  testa  nei  ma- 
cigni della  prigione,  "  ingiusto  contro  sé  giusto  „, 
il  cancelliere  imperiale  Pier  della  Vigna,  primo 
poeta  d' arte  nella  lirica  nuova  italiana.  E  di  lassù 


DI   SAN   MINIATO    AL   TEDESCO.  31 

cantava  a  me,  anzi  al  cielo  e  alle  stelle,  nelle 
sere  di  maggiO;  il  cuculo;  e  il  mio  cuore  o  da 
una  pagina  di  Virgilio  o  da  un  sentierello  fiorito 
€  illuminato  dalla  luna  batteva  e  diffondeva  e 
sprigionava,  negli  intervalli  tra  un  sospiro  e  1'  al- 
tro dello  strano  uccello,  un  palpito,  un  pensiero 
ed  un  lampo.  —  Cu  —  Sei  tu  la  voce  dell*  amore 
onde  natura  risponde  consentendo  ai  sensi  delle 
sue  emanazioni?  —  Cti  —  O  sei  la  voce  della 
ironia  che  ella  manda  su  '1  mistero  dell'  essere 
nunzia  della  distruzione?  —Cu  —  Che  cosa  è 
r  amore,  o  savio  uccello?  Bene  o  male?  Sale  egli 
dalla  terra  a  farsi  stella,  o  cala  dal  cielo  a  farsi 
verme?  —  Cu  —  Quanto  dura  la  fede  e  la  gioia 
dell'  amore,  profeta  uccello  ?  Dura  ella  la  fede 
quanto  il  fiorir  della  rosa  e  quanto  lo  schianto 
del  fulmine  la  gioia?  —  Cu  —  E  quanto  durerà 
r  amor  mio,  o  uccello  indovino  ?  —  Cu,  cu,  cu, 
cu,  cu.... 

Io  a  questo  punto  non  ricordai  che  le  fanciulle 
svedesi,  dimandando  al  cuculo  quanti  anni  ancora 
han  da  passare  prima  eh'  elle  si  maritino,  se  l' uc- 
cello nella  risposta  ripete  un  dopo  l'altro  troppo 
spesso  i  suoi  versi,  si  danno  a  credere  sveltamente 
che  allora  egli. posi  sur  un  albero  magico  e  non 
dica  più  il  vero,  ma  faccia  la  burletta.  E  anche  non 
m'accòrsi  che  quel  cuculo  (or  ora  quasi  mi  pento 
del  bene  che  gli  ho  voluto  e  gli  voglio)  mi  man- 
dava il  suo  verso  dalla  parte  di  tramontana;  che, 
secondo  il  popolo   svedese,  è  fatale   annunzio   di 


32  LE   RISORSE 

tristezza  e  dolore  per  tutta  la  vita.  E  anche  non 
pensai  che  mentre  il  cuculo  cantava  io  non  avevo 
in  tasca  né  meno  un  soldo,  e  quando  ciò  avviene, 
egli  è  segno,  sempre  secondo  la  saviezza  svedese, 
che  quel  pover  uomo  a  cui  tócca  si  troverà  per 
tutta  la  vita  ad  averne  in  tasca  pochi  o  punti. 
Pare  impossibile  !  ma  quanto  è  savio  e  come  ben 
s'appone  cotesto  popolo  che  segui  quel  matto  di 
Carlo  XII  nelle  sue  corse  a  rotta  di  collo! 

Cu,  cu,  cu,  cu,  cu.  Io  credeva  dunque  il  cu- 
culo mi  avesse  annunziato  che  V  amor  mio  dure- 
rebbe cinque  anni.  Mi  parevano  pochi,  sciaurato 
eh*  io  era!  E  non  durò  cinque  giorni.  —  Tornavo 
canterellando  dentro  V  anima  innamorata  due  bel- 
lissimi versi  del  cancelliere  imperiale,  che  la  voce 
del  cuculo  sonante  in  una  odorosa  sera  di  maggio 
dalla  torre  della  di  lui  morte  mi  aveva  risuscitato 
neHa  memoria, 

Oh  potess'  io  venire  a  vo',  amorosa, 
Come  il  ladrone  ascoso,  e  non  paresse! 

quando,  rimesso  il  piede  in  città,  mi  abbattei  nel 
giovine  marito  —  pancia  precoce  —  della  sorella 
dell'  amor  mio.  Mi  entrò  a  parlare  di  molte  cose, 
e,  tra  le  molte,  anche  della  famiglia  di....  Non 
sarà  mai  che  abbandoni  alla  stretta  villana  del 
torchio  il  caro  nome: 

Ogni  donna 
Cosi  nomata  mi  parca  gentile: 


DI   SAN   MINIATO    AL   TEDESCO.  33 

mi  pareva  e  mi  pare.  —  Di'  —  interpellò  la  gio- 
vine pancia  —  non  ti  sembra  che  la....  abbia  il 
collo  un  po' lungo?  Dubito  eh' eli' abbia  a  vivere 
poco.  —  Oh  —  feci  io,  e  non  seppi .  dire  altro; 
tanto  quelle  villane  parole  scesero  a  ferirmi  come 
un  pugno  su  1'  epigastro.  La  dimane  ricevei  una 
lettera  secca  secca:  era  la  madre  della....  che  m' in- 
vitava a  interrompere  le  visite  alla  casa.  E  seppi 
come  le  avessero  dato  a  credere  che  io  aspirassi 
alla  dote  della  figliuola  con  espressa  speranza 
della  vicina  morte  di  lei.  Ah!  —  La  giovine  pan- 
cia indi  a  un  anno  mori;  e  al  solito  fui  pregato  di 
fargli  r  epitafio.  Della  mia  bruna  ebbi  notizia,  or 
fa  tre  o  quattr'  anni,  che  ella  viveva  moglie  di 
un  procuratore  del  re  o  d'  un  sostituto.  O  bruna 
dai  lunghi  sguardi  vellutati  (o  mi  pareva)! 

Oh  se  nel  grembo  a  un'isola 
O  in  un  remoto  speco 
Chi  die  la  vita  agli  angeli 
Ti  facea  nascer  meco! 

Mi  ricordo  che  ella  diceva  assai  graziosamente 
cotesti  versi  del  Prati,  i  quali  in  altra,  bocca  mi 
sarebbero  di  certo  parsi  detestabili.  E  la  figura 
di  lei  mi  rifiorisce  in  mente  quando  leggo  il 
principio  dell'  Annunziazione  di  Olindo  Guerrini; 
se  non  che,  ricordo  bene,  non  ci  era  gran 
materia  ai  paragoni  co  '1  "  grano  su  i  colli  di  Sa- 
maria „. 

Ma  la  storia  del  mio  amore  vuole  anche  un'  ap- 
pendice. Due  o  tre  giorni  dopo  il  congedo  mi  si 

Carducci.  4.  3 


34  LE   RISORSE 

fa  innanzi  uno  dell'  allegra  brigata,  e  —  Pinini,  — 
mi  dice  —  so  che  hai  rotto  con....  Vuoi  tu  spo- 
sare....? —  E  qui  il  nome  d*  una  sua  sorella;  e  poi 
una  minuta  esposizione  dei  pregi,  dei  meriti,  dei 
titoli  e  degli  appannaggi  di  quella  signorina. 
E  mi  ci  volle  del  buono  e  del  bello  per  riman- 
darlo, non  dico  persuaso,  ma  addolorato,  stupito 
e  stizzito  che  non  avessi  né  voglia  né  bisogno  di 
mogli  o  di  doti. 

D*  allora  in  poi  T  amore  mi  fu  infausto.  Le  donne 
per  bene  che  si  frapposero  alla  mia  vita  mi  reca- 
rono sempre  disgrazia;  quando  non  sanno  che 
altro  dolore  darmi  o  che  altro  dispetto  farmi, 
muoiono. 

Oh  cuculo  di  San  Miniato,  chi  mi  avesse  detto 
che  tu  cantavi  da  tramontana! 


V. 


Le  risorse  un  po'  per  volta  erano  cresciute  al 
punto  che  Trombino  e  io  non  sapevamo  più 
(Pietro  faceva  cassa  da  sé)  come  riparare  alla 
abondanza.  I  mesi  passavano  arrecando  dalla 
parte  di  Dio  foglie  fiori  e  frutti  alle  colline  ed 
ai  piani,  ma  non  dalla  parte  nostra  quattrini  alle 
tasche  di  Afrodisio:  le  liste  del  Micheletti  cre- 
scevano alte  come  i  gigli  nella  convalle  di  Ge- 
rico, ma  non  parimente  candide.  E  con  novanta 
maledette    lire    codine    al    mese    come   seminare 


DI   SAN    MINIATO    AL   TEDESCO.  35 

quella  rabbiosa  aridità  e  come  falciare  questa  lus- 
suriosa vegetazione? 

Una  mattina  Trombino  mi  entra  tutto  serio  in 
camera;  e,  senza  preamboli,  —  Stampiamo  le  tue 
poesie.  — 

Restai  male.  Dare  qualche  sonetto  o  canzo- 
netta a  un  giornale  o  ad  un  almanacco  di  città 
che  nella  sua  modestia  mi  assicurasse  con  lo 
spettacolo  dell'  io  tipografato  la  discrezione  del 
segreto,  dare  un'  ode  o  una  laude  spirituale  in 
fogli  volanti  per  una  festa  di  campagnoli  che 
non  ne  capissero  sillaba,  passi.  Ma  raccogliere  ed 
esporre  io  le  mie  poesie  in  un  libretto  a  prezzo 
come  in  un  bordello,  e  abbandonarle  ai  contatti 
del  pubblico  che  le  mantrugiasse  e  stazzonasse 
come  ragazze  a  cinque  o  a  tre  paoli,  ohimè!  Le 
poesie,  massime  allora,  io  le  faceva  proprio  per 
me:  per  me  era  de' rarissimi  piaceri  della  mia 
gioventù  gittare  a  pezzi  e  brani  in  furia  il  mio 
pensiero  o  il  sentimento  nella  materia  della  lingua 
e  nei  canali  del  verso,  formarlo  in  abozzo  e  poi 
prendermelo  su  di  quando  in  quando,  e  darvi 
della  lima  o  della  stecca  dentro  e  addosso  rabbio- 
samente. Qualche  volta  andava  tutto  in  bricioli: 
tanto  meglio.  Qualche  volta  resisteva;  e  io  vi  tor- 
navo intorno  a  sbalzi,  come  un  orsacchio  rabbo- 
nito; e  mi  v'  indugiavo  sopra  brontolando,  e  non 
mi  risolvevo  a  finire.  Finire  era  per  me  cessazione 
di  godimento,  e,  come  avevo  pur  bisogno  di  go- 
dere un  poco  anch'  io,  cosi  non  finivo  mai  nulla. 


36  LE    RISORSE 

Dunque  a  Trombino  aspettante,  e  che  pur  ta- 
cendo parlava,  dissi  di  no.  Egli  se  ne  andò,  scrol- 
lando la  testa. 

Ma  Afrodisio,  con  la  sua  ruvida  cera  d'  oste 
tassoniano,  fiottava  da  settentrione;  il  Micheletti, 
con  la  ben  rasa .  pulitezza  di  un  caffettiere  gol- 
doniano, poggiava  da  mezzogiorno;  il  Ristori 
tipografo  piccoletto,  bruno  e  vivo  come  un  bel 
topolino,  messo  su  da  Trombino,  offeriva  un*  edi- 
zione economica  e  trattamento  d'  amico.  Trom- 
bino la  vinse. 

Cosi  avvenne  che  ai  23  luglio  del.  1857  le  mie 
rime  uscissero  alla  luce  del  pubblico  in  San  Mi- 
niato al  Tedesco  pe'  i  tipi  del  Ristori,  veterani 
gloriosi  dell'  impressione,  tanti  anni  a  dietro  com- 
piuta, del  Cadmo,  poema  di  Pietro  BagnoH.  E  ora 
resta  in  sodo  che  io  le  diedi  a  stampare  non 
co'l  superbo  intendimento  di  aprire  una  via  nuova 
o  di  riaprire  una  via  ve,cchia  e  né  meno  con 
la  modesta  speranza  d' incoraggiamenti  da  parte 
del  pubblico  italiano,  ma  coli'  intendimento  onesto 
e  r  ardita  speranza  di  pagare  i  miei  debiti. 

Altro  che  ardita!  sfacciata  dovevo  dire.  Ma, 
da  poi  che  1'  amico  fu  sergente  a  San  Martino  e 
al  Volturno,  e  ora  che  è  preside  d'un  liceo  con 
un  barbone  di  quasi  mosaica  rispettabilità,  posso 
anche  dire  e  giurare  che  la  colpa  fu  tutta  di 
Trombino.  La  espiammo.  I  debiti,  anzi  che  estin- 
guere, dilagarono.  Una  mattina  d'  agosto  dovemmo 
fuggire  di   celato   dalla    Torre    bianca.    Afrodisio 


DI    SAN    MINIATO    AL    TEDESCO.  37 

c'  inseguì  in  carrettella,  il  Micheletti  per  la  posta. 
Trombino  tornò,  io  non  tornai:  ambedue;  grazie 
ai  babbi  e  alle  mamme,  pagammo  fino  a  un  soldo. 
E  le  Rime  rimasero  esposte  ai  compatimenti  di 
Francesco  Silvio  Orlandini,  ai  disprezzi  di  Paolo 
Emiliani  Giudici,  agF  insulti  di  Pietro  Fanfani. 

Ma  oh  come  strillavano  le  cicale  su  la  collina 
di  San  Miniato  nel  luglio  del  1857! 


PREFAZIONI 


Dal  Libro   delle   prefazioni, 
Città  di  Castello,  Lapi,  1888. 


ELL*  idea  venuta  agli  scrittori  del 
Capitan  Fracassa  di  raccogliere 
in  librò  alcune  delle  prefazioni  che 
óV  -^  «'^^iV  O  io  feci  in  gioventù  per  la  Biblioteca 
detta  diamante  di  G.  Barbèra,  giudicheranno  gli 
associati  di  esso  giornale,  ai  quali  il  libro  è  man- 
dato in  dono.  E  se,  come  temo,  si  annoieranno 
alla  lettura,  non  se  la  piglino,  ne  li  prego,  con 
me,  ma  un  po'  coi  signori  del  Fracassa,  i  quali, 
secondo  il  solito  degli  amici,  mi  avran  fatto  fare 
uno  sproposito,  e  un  po'  più  con  un  giornale 
letterario  di  Torino,  il  quale  un  bel  giorno  si 
mise  a  ristampare  fresca  fresca  co'  suoi  venti- 
cinque anni  a  dosso  la  prefazione  alle  Rime  di 
Gino  da  Pistoia.  Il  che,  se  può  essere  un  segno 
della  disperazione  a  cui  son  venuti  i  giornali  che 
si  ostinano  a  voler  divertire  il  pubblico  in  Italia, 
a  me   fu  segno    anche  d' altro,   che   non  vo'  dire. 


42  PREFAZIONI. 

Del  riprodurre  quel  mio  scritto  quel  giornale  non 
si  era  degnato  chiedere  il  permesso  a  me,  ma  a 
chi  non  ci  aveva,  ch'io  sappia,  diritto;  e  veniva 
poi  inibendo  a  me  e  a  chiunque  la  riproduzione 
di  esso  scritto  e  di  altri  suoi  simili.  La  cosa  era 
tanto  lèpida,  che  io,  incerto  fino  allora,  mandai 
sùbito  a  dire  agli  amici  del  Capitan  Fracassa 
raccogliessero  pure  in  volume  le  prefazioni  alle 
Rime  di  Gino  e  d'  altri  del  secolo  decimo- 
quarto, alle  Poesie  di  Lorenzo  de'  Medici,  alla 
Secchia  rapita  di  Alessandro  Tassoni,  alle 
Satire  di  Salvator  Rosa,  ai  Poeti  erotici  e 
a'  Poeti    lirici    del  secolo  decimottavo. 

Delle  quali  ora,  poi  che  il  Capitan  Fracassa 
vuole  una  prefazione  anche  a  un  libro  di  prefa- 
zioni, dirò  quel  tanto  che  può  tornare  in  men 
biasimo  di  me  e  di  esse.  È  naturale. 


IL 


Nel  1858,  lasciato  d' insegnar  retorica  al  ser- 
vizio del  comune  di  San  Miniato  e  non  avendo 
speranza  che  il  governo  granducale  mi  lasciasse 
egli  insegnare  più  altro,  mi  ridussi  a  vivere  con 
la  famiglia  in  Firenze.  E  se  dovessi  dire  oggi 
come  vivessi,  mi  troverei  imbrogliato:  delle  volte, 
pare,  non  più  d' una  volta  forse,  a  certe  età,  si 
vive  anche  di  nulla.  Il  Barbèra,  allora  in  compa- 
gnia di  Celestino  Bianchi,  aveva  avviato  una  bi- 
bliotechina,  come  dicevano  i  fiorentini  che  diminuì- 


PREFAZIONI.  43 

scono  tutto,  di  classici;  e  mi  offerse  di  lavorargli. 
Io  dovevo  curare  la  correzione  filologica  e  tipo- 
grafica del  testo,  annotare  dove  occorresse,  far  le 
prefazioni:  egli  mi  dava  cento  lire  toscane  per 
tomo.  Era  giusto:  il  nome  mio  non  aggiungeva 
pregio  o  curiosità  ai  volumetti,  i  quali  andavano 
da  sé  per  la  novità  del  formato  e  la  bellezza  della 
stampa.  E  per  questo,  e  perché  in  quegli  anni  ad 
altro  e'  era  da  pensare  che  alla  letteratura,  nes- 
suno badava  all'  opera  mia  :  né  anche  uno  straccio 
d'  annunzio  in  qualche  giornale.  Potevo  tirar  via, 
come  molti  mi  consigliavano,  e  cavarmela  con 
due  paginette  di  prefazione.  Avrei  guadagnato 
più  presto  e  di  più.  Io,  no.  La  vocazione  che  mi 
sentivo  a  scrivere  volli  consacrare  con  la  ostina- 
zione a  dover  far  sempre  meglio,  o  almeno  il 
più  che  io  potessi.  A  tale  rispetto  per  1'  arte,  o 
meglio  per  V  officio  dello  scrivere,  non  so  di  es- 
ser venuto  meno  mai  :  né  v'  è  cosa  che  più  m'  of- 
fenda del  sentirmi  schiaffar  su  '1  viso  proposizioni 
come  queste  —  Qualunque  cosa,  pur  che  sia,  ci 
basta  — .  Ah,  signori  miei:  se  basta  a  voi,  non 
basta  a  me. 


III. 


Le  Satire  e  poesie  minori  di  Vittorio  Al- 
fieri furono  il  mio  primo  lavoro  :  imparaticcio  mal 
fatto.  Meglio,  intorno  la  Secchia  rapita:  quella 
prefazione  veggo  ancora  citata  e  seguito  il  testo  in 


44  PREFAZIONI. 

recenti  lavori  da  professori  e  giovani  valentissimi. 
Misi  poi  insieme  le  Poesie  liriche  di  Vincenzo 
Monti,  e  fu  la  prima  edizione  ordinata  e  intiera, 
per  avervi  io  raccolto  i  versi  dei  tempi  repub- 
blicani: che  dette  al  naso  alla  polizia  granducale; 
onde  il  Barbèra  a  me  —  Badi,  che  la  raccolta 
r  ha  fatta  Lei  —  ed  io  —  S' intende. 

Con  più  fatica  fu  condotta  su'  primi  del  '59 
l'edizione  delle  Poesie  di  Lorenzo  de' Medici;  e 
usci  pochi  giorni  prima  del  famoso  27  aprile,  che 
mutò  il  governo  in  Toscana.  Il  granduca  Leo- 
poldo II,  tornando  da  una  passeggiata,  credo 
l'ultima,  a  Fortezza  da  basso,  fece  fermare  la 
carrozza  innanzi  alla  tipografia  del  Barbèra  a 
comperare  quel  Medici.  Pover'uomo:  a  sua  cura 
e  spesa  egli  ne  aveva  fatto  nel  1825  un'  edizione 
magnifica;  della  .  quale  io  non  dissi  bene  a  ba- 
stanza, perché  egli  era  il  granduca.  Lavorando 
intorno  a  Lorenzo,  scrivevo  a  pezzi  e  brani  la 
canzone  a  Vittorio  Emanuele.  Ma  nella  prefazione 
medicea  non  una  scintilla  dell'  ardore  che  avvam- 
pava tutto  e  tutti.  Intesi  anzi  a  scagionare  quanto 
potevo  il  Magnifico,  e,  contro  le  idee  allora  do- 
minanti, a  gittare  i  semi  delle  idee  mie  intorno  alla 
significazione  e  al  valore  del  Quattrocento  e  del 
Rinascimento,  idee  che  poi  svolsi  in  rime  e  prose 
audaci  anche  troppo. 

Il  nuovo  governo  toscano  co  '1  nuovo  anno 
1860  mi  avea  mandato  a  insegnare  greco  e  latino 
nel  liceo    di    Pistoia.  E  li,  tra  la  tempesta  eroica 


PREFAZIONI.  45 

di  quella  estate,  annotai  le  Satire  di  Salvator  Rosa 
e  le  fornii  d'  una  prefezione,  la  più  elegante,  acca- 
demicamente parlando,  delle  mie  prose;  per  am- 
menda, quasi,  della  foga  retorica  onde  sbrigliavo 
la  corale  ardenza  della  democrazia  cosmopolitica 
neir  ode  Sicilia  e  la  rivoluzione)  che  fu  poesia 
molto  gustata  da  Giuseppe  Civinini,  tornante  al- 
lora in  Toscana  per  aiuti  alle  geste  del  dit- 
tatore. 

Dopo  di  che  un  colpo  di  vento,  mosso  dalla 
gran  bontà  di  Terenzio  Mamiani,  mi  lanciò, 
senza  mio  merito  ed  aspettazione,  nelF  Univer- 
sità di  Bologna. 


IV. 


E  ora,  prima  di  passare  alla  mia  seconda  sta- 
gion  letteraria,  un  po'  di  risposta  a  chi  mi  do- 
manda come  pervenissi  a  compormi  1'  esemplare 
della  mia  prosa,  qualunque  siasi. 

Ci  vuol  poco:  co' i  classici.  Premetto  che  in 
prosa  specialmente  io  sono,  come  dicono  i  pe- 
danti novatori,  autodidattico.  E  confesso  che  mi 
giovò  di  molto  r  esser  cresciuto  e  ingiovanito 
alla  campagna,  dove  il  popolo  toscano  parla 
meglio,  con  purezza  vigorosa  di  vocaboli,  con 
agilità  elegante  di  scorci  nella  sintassi.  Venuto 
a  città  e  a  scuola,  la  natività  non  mi  sarebbe  ba- 
stata più;  perché  la  scuola  in  Toscana  guasta 
tutto;  la  scuola,  e,  nelle  città,  la  presuntuosa  tra- 


4-6  PREFAZIONI. 

scuraggine  ciompa  e  T  infranciosamento  da  par- 
rucchieri. Non  so  come  mi  si  rivelasse  il  trecento: 
certo  non  me  lo  appresero  né  mio  padre  né  i  miei 
maestri  o  i  compagni  di  scuola,  ai  quali  parca 
barbarie.  Il  fatto  è  che  a  un  tratto"  mi  sorpresi 
innamorato  dei  trecentisti,  non  perché  testi  di 
lingua  vecchia,  ma  perché  testimoni  dell'  uso  vivo 
d'  un  popolo  giovine,  forte,  libero,  quando  aveva 
ingegno,  fantasia,  passione,  e  veracità  e  dignità, 
come  non  ebbe  più  mai.  Pochi,  credo,  han  letto 
più  di  me  del  trecento;  ma  non  usai  fare  estratti 
di  frasi,  si  la  lingua  di  quegli  scriventi  compa- 
rare per  un  lato  a  quella  che  parlavo  io  e  sen- 
tivo o  mi  ricordavo  aver  sentito  parlare  da' buoni, 
e  per  un  altro  alla  prosa  del  settecento,  la  più 
vii  prosa  che  schiavi  abbiano  mai  scritto  al  mondo: 
cosi  per  una  parte  stralciavo  il  fogliame  morto, 
per  r  altra  godevo  meglio  il  profumo  di  quella 
fresca  verdezza.  E  a  grado  a  grado  che  seppi 
il  francese,  lessi  di  francese  molto;  mirando  alla 
nettezza  e  perspicuità  della  rappresentazione,  ma 
sempre  raffrontando  in  mente  o  riportando  co  '1 
pensiero  al  toscano  del  trecento.  Giovanotto,  all'uni- 
versità, traducevo,  scrivendo,  quanto  potevo  più 
di  Cicerone,  di  Sallustio,  di  Tacito,  con  atten- 
zione al  legamento  logico  degl'  incisi,  dei  membri, 
dei  periodi,  e  i  periodi  affaticandomi  a  ripensare 
in  volgare  elegante.  Ragazzo,  in  campagna,  avevo 
letto  sette  volte  i  Promessi  Sposi  per  la  gran 
vaghezza  di  quel  racconto,  ma  saltando  più  d'  una 


PREFAZIONI.  47 

volta  le  gride  e  la  pèste.  Poi  lessi  e  rilessi  il  Botta, 
il  Foscolo,  il  Giordani;  il  Leopardi,  il  Tommaseo  ; 
più  tardi;  mi  addomesticai  con  i  cinquecentisti,  gu- 
stando meglio  i  fiorentini.  Sentire,  del  resto,  volli 
sempre  a  modo  mio;  e  il  sentimento  curai  espri- 
mere con  la  più  decente  schiettezza;  intiero  ed 
integro,  qual  mi  si  era  formato  dentro,  il  pensiero, 
non  dimezzato  e  a  un  di  presso,  e,  per  poltro- 
neria o  impotenza  o  paura,  di  profilo.  Non  mi 
piaceva  la  prosa  del  Gioberti,  cercante  con  an- 
siosa facondia  le  apparenze  classiche  in  alluvioni 
di  periodi  neologici;  né  del  Guerrazzi,  che  im- 
mette il  Byron  nel  Guicciardini,  e  innesta  il  bi- 
blico al  dialetto  livornese,  e  aggioga  sotto  reto- 
rica le  capestrerie  romantiche  ai  riboboli  di  Mer- 
cato Vecchio. 

Ora  leggo  i  dizionari.  E  credo  che  i  manzo- 
niani ridurrebbero  T  Italia  ad  armeggiare  nella 
prosa»con  cinquecento  vocaboli  e  uno  stile,  a  quel 
modo  che  i  cinesi  mangiano  il  riso  con  uno 
stecchino. 


V. 


Ritorniamo  alle  prefazioni,  in  fretta. 

Quella  alle  Rime  di  Gino  e  d'altri  del  se- 
colo decimoquarto  fu  scritta  ne'  primi  anni  del  mio 
professorato.  Allora  mi  levavo,  anche  nel  gennaio, 
la  mattina  alle  tre  per  prepararmi  a  trattar  del 
Petrarca  dinanzi  a  scolari  dilettanti,  che  non  lo  vo- 


48  PREFAZIONI. 

levano  e  non  lo  potevano  capire;  ma  di  quella  noia 
mi  rifacevo  la  sera  attaccando  lite  con  questo  e 
quello  per  il  generale  Garibaldi;  eravamo  presso 
Aspromonte.  Tra  i  quali  due  esercizi  facevo  an- 
che il  terzo,  studiare,  come  si  vede,  le  rime  del 
trecento.  La  prefazione,  incerta  nello  stile,  mostra 
più  ineguaglianze  ancora  e  difetti  nella  tratta- 
zione letteraria;  ma  la  vedo  citata  anche  oggi 
con  qualche  onore,  le  distinzioni  di  certe  scuole 
e  maniere  paiono  essere  state  accolte,  e  alcuni 
rimatori,  che  designai,  furono  poi,  a  tempi  più 
tranquilli  e  comodi,  studiati  pubblicati  e  illustrati, 
come  dicono,  ampiamente. 

I  due  discorsi,  della  poesia  melica  e  della 
lirica  classica  nel  secolo  decimottavo,  come  i 
volumetti  di  scelte  ai  quali  appartengono,  e  come  la 
raccolta  di  Cantilene  e  ballate,  furono  degU 
anni  1868  e  1870,  il  tempo,  per  me,  dei  Giambi 
ed  epodi.  Chiedo  giustizia.  Ero,  parmi,  calmo 
assai  nel  lavoro  e  sereno  nella  critica  storica. 
Per  r  opera  artistica  e  politica  mia,  è  un  altro 
conto:   non  solo  volevo,  ma   dovevo   combattere. 


RACCOGLIMENTI 


Carducci.  4. 


Prefazione  alle  Poesie  di  G.  C, 

Firenze,  Barbèra,  1871: 

in  Confessioni  e  Battaglie  di  G,  C,  1.*  serie 

Roma,  Sommaruffa,  1882. 


RELUDERE  in  prosa  a'  miei  versi, 
confesso  che  non  mi  piace:  primo, 
perché  in  arte  è  una  sconcordanza, 
né  degh  antichi  poeti  lo  fecero, 
eh'  io  ricordi,  se  non  alcuni  delle  età  scadenti. 
Stazio  ed  Ausonio:  secondo,  perché,  se  possi- 
bilmente, per  le  nobili  ragioni  esposte  nel  Con- 
vito da  Dante,  è  da  fuggire  il  parlar  di  sé,  tanto 
più  par  da  fuggire  quando  inutile.  Con  tutto  ciò 
oggigiorno  e  gli  editori  desiderano  e  i  lettori  si 
aspettano  che  i  poeti,  o  i  rimatori,  si  presentino, 
su  la  soglia  dell'  opera  loro,  nell'  umile  prosa.  Il 
che  scappò  detto  certa  volta  ad  Arrigo  Heine 
potesse  avvenire  per  questo,  che  troppe  bugie 
fossero  state  spacciate  in  bei  versi  e  la^  verità 
quindi  innanzi  aborrisse  dal  mostrarsi  in  vesta 
metrica;  e  non  fu  sentenza  degna  di  quell'  argu- 
tissimo    ingegno:    troppe  bieche   e  stupide   bugie. 


52  RACCOGLIMENTI. 

troppe  corbellerie  più  legittime  che  non  quelle  per 
le  quali  il  cardinale  facea  le  meraviglie  con  Ludo- 
vico Ariosto,  si  spacciano  allegramente  in  prosa, 
e  qual  prosa!,  a  ogni  momento,  nei  parlamenti, 
dalle  cattedre,  pe'  giornali  e  i  libri.  Per  quel  che 
tócca  a'  poeti,  anche  ad  essi  da  un  pezzo  in  qua 
piace  fare  da  portinai  e  dimostratori;  e  di  alcuni 
come  Giovan  Battista  Marini  e  Vittore  Hugo, 
s*  intende;  che  V  uno  si  cre'dé,  e  1'  altro  è,  intro- 
duttore di  modi  nuovi  nelF  arte  della  propria  na- 
zione. Ma  io,  per  esempio,  che  cosa  ho  da  dire 
di  nuovo  o  d' importante  ? 

Dirò,    per    dire  qualcosa,    che  non  avrei    mai 
creduto  che 

il  dolce  paese 
Di  Toscana  gentile 
Dove  '1  bel  fior  si  vede  d'  ogni  mese 

potesse  produrre  tante  mele  fracide  quante  dalle 
mani  de'  miei  concittadini  me  rie  piovvero  ad- 
dosso nel  1857,  quando  pubblicai  la  prima  volta 
quelle  rime  che,  togliendo  e  aggiungendo  poco, 
raccolgo  ora  novamente  e  da  sé  in  principio  di 
questo  volume  sotto  la  intitolazione  di  Juvenilia. 
Tutti  si  accordavano  nell'  accusarmi  d' idolatria 
per  r  antichità  e  per  la  forma  :  pur  taluno  avrebbe 
usato  misericordia  all'  aristocrazia  del  mio  stile, 
se  gì'  inni  a  Febo  Apolline  e  le  odi  a  Diana  Tri- 
via  non  fossero  apparsi  in  tanto  folgorare  di  bello 
cristiano  veri  e  propri  peccati.  I  giornali  teatrali 
poi  si  detter  faccenda   per  insegnarmi  la   lingua: 


RACCOGLIMENTI.  53 

un  maestro  di  scuola  che  aveva  dell'  autorità  in 
critica  sbalordi  la  gente  empiendo  mezza  una  pa- 
gina del  novero  di  tutt'  i  classici  da  me  imitati; 
tra  i  quali  Pindaro  eh'  io  aveva  cosi  imitato  co- 
m' egli  letto:  un  sopracciò  dei  modi  di  lingua^ 
autore  di  scritti  lepidi  che  egli  chiama,  non  si 
sa  perché;  capricciosi;  per  certi  versi  sciolti  nei 
quali  ei  pretendeva  eh'  io  scimmieggiassi  i  greci; 
mi  paragonò;  parmi;  ad  Arlecchino:  un  terzo, 
molto  affocato  per  la  congregazione  di  san  Vin- 
cenzio di  Paola  e  scrittore  di  strofette  religiose 
che  dell'  evangelio  avevano  l' umiltà  e  gli  et,  si 
affaticava  a  persuadermi  come  l'uomo  anche  in 
poesia  conviene  mostrarsi  qual  è;  né  più  né  meno: 
e  io  ne  sarei  andato  d'  accordO;  ove  non  ci  fosse 
stata  di  mezzo  una  difficoltà;  eh'  ei  voleva  eh'  io 
mi  mostrassi  qual  era  lui:  un  quartO;  critico  e 
storico  molto  riputato;  affermava  tra  amici  che 
quel  libretto  accusava  il  difetto  assoluto  d' ogni 
possibile  facoltà  poetica  nell'  autore. 

Io  seguitai.  Non  che  non  riconoscessi  quella 
parte  di  vero  che  in  alcuna  di  quelle  critiche 
era;  non  che  non  sentissi  quel  che  mancava  a 
me  di  forze,  di  nutrimento;  di  esercizio;  quel 
che  a'  miei  versi  mancava  di  omogeneo;  di  de- 
terminato; di  soHdo:  le  idee  artistiche  erano  con- 
fuse o  monche;  ma  gli  intendimenti  fermi  e  puro 
r  affetto.  Un  amico  mio  temperatissimo  disse  ul- 
timamente che  quel  libretto  fu  anch'  esso  un  gio- 
vanil  tentativo  di  reazione  contro  la  teologia  che 


54  RACCOGLIMENTI. 

allora  allagava  in  Toscana  le  lettere:  avrei  più 
largamente  detto,  contro  la  beghineria  non  pur 
religiosa  ma  intellettuale  del  decennio  innanzi 
al  '6o;  contro  quella  nullaggine  faccendiera  che 
gravava  con  tutto  il  peso  della  vanità  sua  su  ^1 
paese,  contro  quella  spolpata  frollaggine  rimessa 
in  ghingheri  liberali  che  guastò,  e  guasta  ancora, 
tra  noi  V  arte  e  il  pensiero  ;  le  quali  potenze  tutte 
{ che  potenze  sono  pe  '1  codardo  assentimento  e 
per  r  infingardaggine  dei  più  )  congiuravano,  e 
congiurano  tuttavia  sotto  altri  colori  e  con  nuovi 
alleati,  contro  i  principianti  arditi  che  non  vo- 
^lion  pagare  il  pedaggio  della  viltà  e  contro  gli 
spiriti  liberi  che  non  vogliono  fare  a  mezzo.  Io 
poi  mi  sento  di  natura  mia  inclinato  alla  oppo- 
sizione, anche  in  letteratura:  nelle  maggioranze 
sono  un  pesce  fuor  d'  acqua.  Nel  '59,  per  esem- 
pio, mi  trovai  d'  accordo,  come  doveva,  coi  più 
per  il  plebiscito  e  T  unità;  e  feci  de' Adersi.  Per 
dir  meglio,  ne  composi  sin  dal  decembre  del  '58, 
coi  quali  consigliava  il  re  a  gittar  la  corona 
oltre  Po,  a  farsi  tribuno  armato  della  rivoluzione 
italiana  e  sciogHere  il  vóto  nazionale  in  Roma: 
-allora  nella  piccola  Toscana  che  pensassero  al- 
l'unità  e  a  Roma  eravamo  pochi  rompicolli,  i 
quali  volevano  precipitar  le  cose  a  rovina.  Quei 
versi  li  ristamperei,  se  fossimo  in  repubblica;  ora 
non  lo  fo,  per  più  ragioni  degne,  e  anche  perché 
sono  de'  miei  peggiori  :  troppo  rassomigUano  alla 
rimeria  politica  di  quei  tempi;  declamazioni  con- 


RACCOGLIMENTI.  55 

suetudinarie,  fantasie  per  enumerazione^  imagiiiì  a 
mo'  di  comparse  d'  un  ballo  allegorico,  e  sópravi 
una  gran  mano  di  biacca;  come  quelle  rappre- 
sentazioni colorate  di  battaglie  e  di  miracoli  che 
-si  vendono  su  le  fiere  de'  villaggi,  dove  tutte  le 
figure  stanno  V  una  dopo  V  altra  con  le  braccia 
levate  e  il  mostaccino  tondo  e  carminiato  e  con 
grande  sfoggio  di  rosso  di  turchino  e  di  giallo  ne- 
gli abiti.  E  pure  poco  ci  mancò  che  per  qualche 
tempo  non  riuscissi  in  Toscana  il  poeta  laureato 
dell'  opinione  pubblica  divenuta  poi  unitaria. 
Quando  ci  ripenso,  mi  si  accappona  la  pelle. 

La  scampai;  e,  per  liberarmi  da  ogni  tenta-, 
^ione,  presi  un  bagno  freddo  di  filologia  e  mi 
ravvolsi  nel  lenzuolo  funerario  della  erudizione. 
Mi  era  dolce,  in  quel  grande  anfanare  di  vita 
nuova,  immedesimarmi  con  le  ombre  incappuc- 
ciate del  secolo  decimoquarto  e  decimoquinto. 
E  costeggiai  il  mare  morto  del  medio  evo,  per 
•entro  le  cui  acque  plumbee  si  scorgono  ancora 
le  ruine  della  città  del  passato:  e  i  fiori  azzurri 
della  poesia  romantica  che  velano  lo  sdrucciolo 
delle  rive  non  m' inebriarono  di  estenuazione; 
còlti,  come  quei  della  leggenda  ei  tornano  in  ce- 
nere: né  mi  ammaliarono  i  grandi  occhi  vitrei 
della  Circe  mistica  che  balenano  fissi  di  fondo 
al  baratro.  Studiavo  al  tempo  stesso,  per  con- 
verso, il  movimento  della  rivoluzione  nella  sto- 
ria e  nella  letteratura.  Onde  si  manifestava  in 
me  a  mano  a  mano  non  una  innovazione  ma  una 


56  RACCOGLIMENTI. 

esplicazione  che  mi  meravigliava  e  mi  confor- 
tava. Quanto  piacqui  a  me  stesso  (perdonatemi) 
quando  mi  accorsi  che  la  mia  ostinazione  clas- 
sica era  giusta  avversione  alla  reazion  letteraria 
e  filosofica  del  1815,  e  potei  ragionarla  con  le 
dottrine  e  gli  esempi  di  tanti  illustri  pensatori 
ed  artisti!  quando  sentii  che  i  miei  peccati  di 
paganesimo  li  avevano  già  commessi,  ma  di  quale 
altra  splendida  guisa!,  molti  de' più  nobili  inge- 
gni e  animi  d' Europa  ;  che  questo  paganesimo, 
questo  culto  della  forma,  altro  in  fine  non  era  che 
r  amore  della  nobile  natura  da  cui  la  solitaria 
astrazione  semitica  aveva  si  a  lungo  e  con  si  fe- 
roce dissidio  alienato  lo  spirito  dell'  uomo  !  Al- 
lora quel  primo  e  mal  distinto  sentimento  di  op- 
posizione quasi  scettica  divenne  concetto,  ragione,, 
affermazione:  1'  inno  a  Febo  Apolliné  diventò 
r  inno  a  Satana.  Oh  begli  anni  dal  '61  al  '65  vis- 
suti in  pacifica  e  ignota  solitudine  tra  gli  studi 
e  la  famiglia,  la  quale  'tu  governavi  ancora,  o 
madre  mia  veneranda,  che  m' insegnasti  a  leggere 
su  r  Alfieri  e  non  m' inculcasti  la  superstizione  l 
Allora  i  solenni  tumulti  del  pensiero  passarono- 
su  r  anima  mia  come  i  tuoni  di  maggio,  ai  quali 
succede  la  pioggia  feconda  e  il  sereno  scintil- 
laute  d' iridi  e  il  profumo  della  terra  vegetante 
e  uno  sbocciare  e  un  fiorire  da  per  tutto.  Allora 
di  mezzo  alle  iniziali  dipinte  d' un  codice  del 
secolo  decimoquarto  le  idee  del  rinascimento  mi 
folgoravano    ardite    come    occhi  di  ninfe    antiche 


RACCOGLIMENTI.  57 

ne'  fiorì  :  allora  tra  una  riga  e  1'  altra  di  una  lauda 
spirituale  mi  guizzava  vampeggiante  la  strofe  sa- 
tanica: e  voi;  messer  Gino  da  Pistoia,  imperiai 
professore  di  diritto,  voi  eravate  più  volte  com- 
plice innocente  de'  miei  pensieri  ribelli,  il  cui  con- 
ciliabolo si  ragunava  e  insorgea  su  la  polvere 
de'  codici  membranacei  incatenati  e  sotto  le  vòlte 
della  biblioteca  medicea  disegnata  da  Michelan- 
giolo.  La  imagine  di  Dante  parca  guardare  dal- 
l' alto,  accigliata  e  in  atto  crucciosa,  e  mormo- 
rare —  Oh  istoltissime  e  vilissime  bestiuole  che 
prosumete....  —  con  quel  che  segue  nel  trattato 
quarto  capitolo  quinto  del  Convito.    Una  volta 

(  Io  non  so  s'io  mi  fui  qui  troppo  folle  ) 

pur  gli  risposi:  —  Padre  e  maestro,  perché 
traeste  voi  la  scienza  dal  chiostro  in  piazza,  dì 
latino  in  volgare?  Perché  lasciaste  calar  furioso 
il  vento  dell'  ira  vostra  su  le  più  alte  cime  pon- 
tificie e  monarchiche?  Voi  primo,  o  grande  ac- 
cusator  pubblico  del  medio  evo;  voi  primo,  o 
poeta  divino  nel  cui  nome  mi  esalto;  voi  deste 
primo  il  segno  alla  riscossa  del  pensiero  :  che 
poi  lo  abbiate  dato  sonando  a  stormo  da  un 
campanile  di  cattedrale  gotica,  ciò  poco  im- 
porta. —  Ora  questo  svolgersi  e  maturare  del 
mio  intelletto,  del  sentimento,  della  volontà,  è 
rappresentato,  nel  suo  procedimento  interiore  e 
dinanzi  agli  studi,  lentamente  dai  Levia  Gravi  a,, 
come    gli    ho  ridotti    nel  presente    volume:  nella 


58  RACCOGLIMENTI. 

sua  esteriore  manifestazione  dirimpetto  alle  que- 
stioni sociali  ed  ai  fatti,  più  rapidamente  dai  De- 
cennali a.  E  pur  ci  sono,  sento  dire,  di  quelli  i 
quali  del  non  esser  rimasto  qual  fui  a  ventiquat- 
tr'  anni,  venuto  su  in  piccolo  e  non  libero  paese, 
mi  fanno  carico:  buona  gente,  a  cui  crescere  e 
sviluppare  non  par  che  garbi:  tornerebbe  lor 
conto  restar  sempre  eguali  al  vitello  qui  largis 
iuvenescit  herbisl 

Nei  Juvenilia  sono  lo  scudiero  dei  classici: 
nei  Levia  Gravia  faccio  la  mia  vigilia  d'armi: 
nei  Decennalia,  dopo  i  primi  colpi  di  lancia  un 
po'  incerti  e  consuetudinari,  corro  le  avventure 
a  tutto  mio  rischio  e  pericolo.  Mossi,  e  me  ne 
onoro,  dall'  Alfieri,  dal  Parini,  dal  Monti,  dal  Fo- 
scolo, dal  Leopardi;  per  essi  e  con  essi  risalii 
agli  antichi,  m' intrattenni  con  Dante  e  co  '1  Pe- 
trarca; e  a  questi  e  a  quelli,  pur  nelle  scórse  per 
le  letterature  straniere,  ebbi  1'  occhio  sempre. 

E  qui  le  mie  confessioni  sarebbero,  con  mio 
gran  contento,  finite;  se,  a  rischio  di  passare  per 
bugiardo  o  per  superbo,  non  dovessi  aggiungere 
eh'  io  ne'  miei  versi,  come  disperava  di  piacere 
ai  più,  cosi  non  me  lo  sono  proposto  per  fine: 
chiudeva  una  prima  edizione  di  mie  rime  gio- 
vanili co  '1  Quis  leget  hcec  ?  di  Persio,  apriva 
i  Levia  Gravia  con  la  formula  funeraria  ro- 
mana Sihi  suis  fecit.  Mi  ricordo  di  aver  letto 
non  so  più  in  qual  libro  che  il  poeta  ha  da  pia- 
cere a  tutti  o   a  pochi:   garbare   ai    molti   è    cat- 


RACCOGLIMENTI.  59 

tivo  segno.  Dura  e  sconfortante  sentenza,  ma 
non  per  ciò  meno  vera;  su  la  quale  ragionerei 
cosi.  La  poesia  oggimai  è  cosa  affatto  inutile; 
che  se  anche  mancasse  del  tutto,  verun  minimo 
congegno  della  macchina  sociale  ne  andrebbe 
men  bene:  per  lo  che,  penso  ancora,  il  poeta 
non  dee  tenersi  obbligato  di  obbedire  a  certe, 
come  si  direbbe,  esigenze  del  tempo.  Che  se  la 
-cetera  dell'  anima  sua,  anzi  che  agitarsi  sotto  V  ala 
della  Psiche  fugace  e  rispondere  agli  echi  del 
passato,  agli  aliti  dell'  avvenire,  al  rumore  solenne 
dei  secoli  e  delle  generazioni  procedenti,  si  lascia 
<:arezzare  all'  auretta  che  move  dai  ventagli  delle 
signore  e  dai  pennacchi  de'  soldati,  s' increspa  al 
fruscio  della  toga  professorale  o  allo  spiegazzare 
della  gazzetta,  guai  al  poeta,  guai  al  poeta,  se 
pure  è  poeta!  Affacciarsi  alla  finestra  a  ogni  va- 
riare di  temperatura  per  vedere  quali  fogge  ve- 
sta il  gusto  della  maggioranza  legale,  distrae, 
raffredda,  incivettisce  l' anima.  Il  poeta  esprima 
sé  stesso  e  i  suoi  convincimenti  morali  ed  arti- 
stici più  sincero,  più  schietto,  più  risoluto  che 
può:  il  resto  non  è  affar  suo.  Se  è  vero  che 
-alcune  delle  cose  mie  sono  piaciute,  se  fosse 
vero  che  seguitassero  a  piacere,  1'  avrei  caro  an- 
che per  la  mia  teorica,  sola  degna,  credo,  del- 
l' arte. 

Con  si  fatte  idee  ho  il  coraggio  di  metter  fuori 
un  libro  di  versi  a  questi  giorni,  nei  quali  una 
manata  d'  uomini  letterati  italiani  nega   che  l' Ita- 


6o  RACCOGLIMENTI. 

lia  abbia  avuto  mai  una  lingua,  e  un'  altra  ma- 
nata nega  eh'  ella  abbia  da  un  pezzo  in  qua  let- 
teratura e  rinnega  quella  de'  padri  e  confessa  sé 
essere  agli  elementi.  E  vi  rimangano;  o  passino, 
secondo  che  il  vento  si  muta,  da  una  servitù 
straniera  ad  altra.  —  Sempre  il  pusillanimo,  di- 
ceva Dante,  si  tiene  meno  che  non  è  — ;  e  il  non 
aver  sentimento  della  dignità  propria,  e  con  ciò 
della  forza,  è  gran  cattivo  segno  cosi  per  gli  uo- 
mini come  per  le  nazioni.  Ma  Dante  anche  di- 
ceva: "  Molti  sono  che  amano  più  d'essere  te- 
nuti maestri  che  d'  essere;  e  per  fuggire  lo 
contrario,  cioè  di  non  essere  tenuti  maestri,  sem- 
pre danno  colpa  alla  materia  dell'  arte,  ovvero 
allo  strumento:  siccome  il  mal  fabbro  biasima 
il  ferro  appresentato  a  lui  e  '1  mal  citarista  bia- 
sima la  citara,  credendo  dare  la  colpa  del  mal 
coltello  e  del  mal  sonare  al  ferro  e  alla  citara 
e  levarla  a  sé.  Cosi  sono  alquanti,  e  non  pochi, 
che  vogliono  che  1'  uomo  li  tenga  dicitori;  e,  per 
iscusarsi  del  non  dire  e  del  dir  male,  accusano 
e  incolpano  lo  volgare  proprio.  „  Io  del  mio  dir 
male  non  darò  certo  la  colpa  alla  lingua  e  al- 
l' arte  d' Italia,  alla  lingua  e  all'  arte  tua,  o  Dante 
Alighieri. 

Ma  parliamo  un  po' d'amici:  amici,  intendo,, 
e  sono  rarissimi,  che  non  vi  lodino  per  isciu- 
parvi  od  abusarvi  siccome  ganze,  che  non  vi 
biasimino  perché  non  pensate  o  fate  pur  a  modo 
loro,    che  non  vi  consiglino  per  ismania  d' intro- 


RACCOGLIMENTI.  6l 

mettersi  o  per  saccenteria;  amici  disinteressati, 
di  cuor  gentile,  di  arguto  ingegno,  di  labbro  sin- 
cero, il  cui  consiglio,  la  cui  riprensione  e  la  lode 
sono  una  collaborazione  continua.  E  sentirei  di 
essere  ingrato  se  non  ricordassi  almeno  a  me 
stesso  quanto  io  debbo  al  fraterno  ingegno  di 
Enrico  Nencioni  che  mi  fu  sin  dai  primi  anni 
eccitatore  coli'  ardor  suo  e  coli'  esempio  al  culto 
di  tutto  ciò  che  è  bello  in  ogni  forma,  al  giudi- 
zio amorevole  di  Giuseppe  Chiarini  che  mi  ha 
spronato  a  tempo  e  a  tempo  infrenato,  alla  dot- 
trina gentile  di  Emilio  Teza  che  mi  ha  raffor- 
zato e  fatto  allungare  il  passo,  al  senso  acuto  e 
retto  di  Enrico  Panzacchi  che  mi  ha  emendato. 
E  pure  non  dedico  a  loro  questo  mio  libro;  e 
non  lo  dedico  né  meno  (come,  s'io  credessi  cosa 
non  vana  il.  dedicare  un  mio  libro,  farei,  non 
ostante  la  novità  dell'  esempio  ),  e  né  meno  lo  de- 
dico al  mio  editore  G.  Barbèra;  il  quale  a  me 
ignoto  e  bisognoso  offri  co  '1  lavoro  il  mezzo  di 
addimostrarmi,  il  quale  mi  ha  giovato  d' aiuto 
paterno  in  qualche  caso  difficile  della  vita.  Se 
avessi  certezza  che  in  questo  libro  fosse  alcun 
valore,  io,  imitando  una  dedicatoria  di  Giovanni 
Fantoni  che  vale  per  avventura  più  di  molte  sue 
odi,  lo  intitolerei  "  a  tutti  coloro  il  cui  cuore  e 
le  cui  miani  si  serbarono  nell'ultimo  decennio  puri 
e  incontaminati  „. 

Ma  tu  non  lo  leggerai,  o  fior  gentile  della  gio- 
ventù   napolitana    e  speranza   d' Italia,  o  Giorgio 


62  RACCOGLIMENTI. 

Imbriani.  Tu  non  leggerai  questo  libro,  del  quale 
alcune  parti  ti  erano  care,  e  le  ridicevi  agli  amici 
nelle  notti  serene  prodotte  in  fidi  colloqui,  le  ri- 
dicevi ai  compagni  d'  arme  nelle  fì-edde  notti  ve- 
gliate di  contro  al  nemico.  Né  io  udrò  più  la  tua 
parola  sgorgare  fervente  nell'  amore  di  tutto  che 
è  bello  e  grande  e  puro,  né  vedrò  gli  occhi  scin- 
tillanti che  il  fuoco  di  quella  accompagnavano 
con  lo  splendore  dell'  anima,  né  la  fronte  su  cui 
pareva  sfumare  V  ombra  d'  una  tristezza  interiore. 
Egli  aveva  la  fede  d'  un  martire,  1'  amore  e  1'  odio 
di  un  apostolo,  V  impeto  e  la  concitazione  d' un 
tribuno;  e  con  tutto  ciò  una  gentilezza  decorosa 
come  di  cavaliere,  una  aspirazione  alle  fantasie 
meste  e  soavi  come  di  trovatore,  una  dolcezza 
e  bontà  come  di  fanciulla.  E  un  triste  presenti- 
mento mi  strinse  il  cuore,  quando,  immoto  alle 
preghiere  e  a'  consigli  degli  amici,  affrettò  la 
partenza;  perocché  troppo  io  sapea  quanta  in 
lui  fosse  la  voglia  di  pericolare,  la  sete  di  sof- 
frire: quella  notte  poi  egli  ardeva,  oltre  il  con-. 
sueto,  di  cupo  entusiasmo;  mi  rassomigliava  i 
grandi  morti  della  Repubblica  partenopea.  Pace, 
mio  povero  Giorgio  !  pace,  mio  caro,  mio  nobile 
Imbriani!  pace  e  onore  a  voi  tutti,  primavera 
sacra  d' Italia,  che  vendicaste  Roma  e  Mentana 
cadendo  vittoriosi  su  la  gloriosa  terra  di  Francia! 

Latin  sangue   g-cntile! 


JUVENILIA 


Prefazione  a  J  u  v  e  n  i  1  i  a   di  G.  C, 

Bologna,  Zanichelli,  1880; 

€in   Confessioni    e    Battag-lie   di  G.  C,  serie  2»: 

Roma,  Sommarug-a,  1883. 


L  signor  Nicola  Zanichelli  editore 
mi  chiese  facoltà  di  ripubblicare  i 
miei  Juvenilia  quali  stanno  nel- 
r  ultima  edizione  delle  Poesie 
fatte  da  G.  Barbèra  e  di  aggiungere  la  canzone 
A  Vittorio  Emanuele  e  le  due  odi  Alla  croce  di 
Savoia  e  //  Plebiscito.  Io  assentii  non  solo^  ma 
riordinai  per  quella  stampa  parecchi  altri  versi 
da  me  scritti  dentro  i  termini  del  1860. 


IL 


Se  i  Juvenilia  dovessi  risolvermi  a  lasciarli 
pubblicare  oggi  per  la  prima  volta,  io,  dopo  averci 
pensato  su  molto  o  poco,  non  ne  farei  probabil- 
mente nulla:  tanto  essi  mi  appaiono  non  pure  in- 
feriori, ma  per  gran  parte  contrari  al  concetto  che 
ora  ho  dell'  arte  di  poetare,  tanto  questo  concetto 

Carducci.  4.  5 


6(ì  JUVENILIA. 

mi  cresce  sempre  più  sublime  innanzi  con  gli  anni, 
tanto  compiango  e  sdegno  la  vergogna  di  tutta 
questa  rimeria  italiana.  E  so  che  del  mio  lavoro 
poetico  rimarrà  a  pena  qualche  scaglia,  e  solo  a 
corredo  di  collezione  ne'  musei  della  storia  let- 
teraria: né  di  tale  dileguar  mio  tutto  e  intero  e 
per  sempre  anche  nell'  arte  da  me  religiosamente 
venerata  sento,  a  dir  vero,  dolore  od  orrore;  anzi, 
per  la  conscienza  che  ho  di  quello  che  fu  e  sarà 
grande,  guardo  tranquillo  dall'  alto  della  mia  ra- 
gione a  cotesto  dissolvimento,  e  in  cospetto  al- 
l' età  augurate  sospiro  anch'  io,  come  1'  antico 
santo:   Cupio  dissolvi  et  esse  cum   Christo. 

Per  ciò  non  mi  dispiace  di  ripubblicare  i  miei 
versi  giovanili,  molti  dei  quali  sono  anche,  pur 
troppo  in  ogni  senso,  puerili.  Ma  io  sento  che  il 
dover  mio  è  di  combattere,  nella  parte  che  mi 
toccò,  e  non  di  pensare  a  me;  e  quei  versi  at- 
testano che  a  combattere  cominciai  presto.  Che 
io  questo  affermando  non  presuma  troppo  del  mio 
fìevol  lavoro,  me  ne  assicura  1'  onorevole  Tabar- 
rini  dove  nella  Vita  di  Gino  Capponi  egli 
scriveva  al  capitolo  decimo:  "  Quando,  dopo  il 
1850,  sorse  in  Toscana  una  scuola  di  giovani  d' in- 
gegno e  di  studi,  la  quale  proclamando  il  ritorno 
all'  ellenismo  delle  forme  non  nascondeva  i  fini 
anti-cristiani,  il  Capponi  vide  sùbito  il  principio 
d'  una  letteratura  empia  e  beffarda  che  avrebbe 
fatto  tabula  rasa  d'  ogni  credenza  e  sovvertita  la 
morale  „.  Se  non  che  mi  conceda  1'  egregio  uomo, 


JUVENILIA.  67 

da  poi  che  nomina  in  nota  me  e  il  mio  amico 
Chiarini;  di  opporgli  che  non  vuole  sovvertir  la 
morale  chi  la  vorrebbe  trasportata  dalla  chiesa 
alla  città,  dal  metaforico  cielo  teologico  alla  se- 
rena conscienza  umana,  che  sono  in  fine  le  vere 
sue  sedi:  né  del  resto  noi  beffammo  mai  il  va- 
lore storico  dei  fatti  e  la  sincerità  delle  intenzioni. 


III. 


Anche  ho  lasciato  ristampare  i  versi  politici 
scritti  nel '59  e '60,  per  due  ragioni.  Prima:  per- 
ché certi  signori,  i  quali  alla  gente  che  tira  via 
possono  anche  apparire  non  furfanti  né  ladri  del 
tutto  per  la  sola  bella  ragione  che  tutti  i  giorni 
intingono  una  penna  in  un  calamaio  e  scrivono 
o  firmano  un  giornale,  perché,  dico,  quei  certi 
signori  non  me  li  ristampino  loro,  come  fecero 
e  fanno,  senza  né  meno  dirmi  avanti  —  E  per- 
messo?, —  senza  dirmi  —  Grazie  —  di  poi,  sapendo 
anzi  di  fare  contro  il  mio  desiderio  e  volere,  e 
fino  meravigliandosi  s'io  mi  dolga  eh'  e'  dispon- 
gano delle  cose  mie  come  di  loro  proprie,  con 
molta  mia  iattura,  con  la  iattura,  intendo,  del- 
l' Gnor  mio  ;  che  i  semplici  e  gli  sdrucciolevoli 
vedendo  le  mie  cose  e  il  mio  nome  in  certi  luo- 
ghi potrebbero  credere  ci  fossero  per  mia  ele- 
2Ìone.  Seconda:  perché  amici  e  non  amici  veg- 
gano finalmente  tutto  insieme  il  corpo  del  delitto, 
ili  ragion    del   quale  e    in   secco    d' altre    ragioni 


68  JUVENILIA. 

C-erti  avversari  tornano  di  quando  in  quando  a 
rinfacciarmi  la  politica  voltabilità  :  veggano  e  giu- 
dichino. 

Giudichino  in  primo  luogo:  se  un  quasi  ra- 
gazzo, cresciuto  in  paese  piccolo  e  non  libero,  da 
sé  solo  e  sui  hbri,  fuori  d'  ogni  associazione 
segreta  o  no,  dovesse  avere  prima  dei  venticin- 
que anni  una  ferma  fede  politica,  alla  quale  poi 
rinunziare  gli  fosse  vergogna.  Giudichino  in  se- 
condo luogo:  se,  quando  Giuseppe  Mazzini  offe- 
riva a  Vittorio  Emanuele  la  dittatura,  quando 
proclamava  nella  lettera  al  Brofferio  Y  annessione 
al  Re,  quando  tempestava  con  lettere  e  con  stampe 
noi  specialmente  di  Toscana  a  far  V  annessione,  a 
farla  sùbito,  a  farla  intera;  se,  quando  Giuseppe 
Garibaldi  bandiva  il  nome  di  Vittorio  Emanuele 
segnacolo  di  tutte  le  speranze,  di  tutte  le  riven- 
dicazioni, di  tutte  le  glorie  della  nazione;  giu- 
dichino, dico,  se,  quando  gli  apostoli  e  gli  eroi 
s' infervoravano  a  quel  modo,  fosse  tanto  mio 
grave  peccato  pigliare  una  caldana  che  non  potè 
durare.  Giudichino  in  terzo  luogo:  se  in  quelle 
poesie  v'è  poi  da  vero  quella  tanta  caldana  mo- 
narchica che  ad  alcuni  pare,  o  se  non  più  tosto 
vi  sono  altamente  rivendicate  e  affermate  tutte 
le  tradizioni  e  glorie  democratiche  delle  regioni 
italiane,  se  in  nome  di  quelle  non  è  per  avven 
tura  esortato  o  pregato  Vittorio  Emanuele  ad  ac 
cogliere  dall'  autorità  del  popolo  la  suprema  di 
rezione    della   guerra  contro   lo  straniero,  a  farsi 


JUVENILIA.  69 

tribuno  armato  del  popolo:  giudichino  se  io  di- 
cessi più  ne'  miei  versi  di  quello  che  Giuseppe 
Mazzini  diceva  nella  sua  prosa.  Giudichino  in  fine 
se,  da  poi  che  ne'  miei  scritti  dopo  il  '61  sarà 
difficile  trovare  contraddizioni,  possa  per  quelle 
poesie  del  '59  e  del  '60  essere  accusato  di  voltabi- 
lità  e  quasi  di  apostasia  io,  il  quale  anche  oggi 
in  fine  tengo  legittima  instituzione  dello  stato  la 
monarchia  perché  fatta  dai  suffi*agi  di  tutto  il  po- 
polo italiano,.  v 


IV. 


Ora  una  storiella  allegra.  Quando  due  anni  fa 
pubblicai  il  Canto  dell'  amore,  ci  fu  un  giornale 
fiorentino  il  quale  usci  a  dire  che  quel  nuovo 
mutare  di  sentimenti  e  d'  idee  non  potea  far  me- 
raviglia a  chi  sapeva  da  un  pezzo  quanto  mobile 
€  versatile  fosse  nelle  sue  opinioni  1'  autore  del 
canto.  Lasciamo  che  a  scambiare  il  Canto  del- 
l' amore  per  un  atto  di  conversione  o  religiosa 
o  poHtica  ci  vuole  una  o  grossolanità  o  puerilità 
d' intelligenza  molto  rara  altrove  che  nella  nobi- 
lissima genealogia  di  Calandrino.  Sarebbe  lo  stesso 
che  notare  sdegnosamente  la  inconstanza  e  volubi- 
iità  di  Dante  Allighieri,  perché  in  Antenora  ei 
piglia  per  la  cuticagna  il  traditore  degli  Abati,  e 
nella  Vita  Nuova  dinanzi  all'  aspetto  di  Beatrice 
sente  che  nessun  nemico  gli  rimane  e  a  chi  lo 
domandi  di  cosa  alcuna  risponde  solamente  amore. 


70  JUVENILIA. 

E  qui  mi  perdoni  Dante  Alighieri  se  io  ricordo 
in  vano  il  santo  suo  nome  in  faccia  agli  ultimi 
suoi  cittadini;  ai  quali  da  gran  tempo  è  cosi  ve* 
nuta  meno  la  intelligenza  dell'  arte  che  scambiano 
per  poesia  gli  sbuffi  di  retorica  d'  un  Yorick  bat- 
tentesi  la  pancia  istrionica  sulla  morte  del  re 
d' Italia.  Il  curioso  è  che  di  mutabilità  d'  opinioni 
e  voltabilità  accusi  altrui  la  Nazione,  il  giornale 
del  connubio  tra  il  Ricasoli  e  il  Nicotera,  il  gior- 
nale dei  Puccioni,  e  dei  Puccini,  il^  giornale  dei 
dissidenti  toscani.  Le  son  cose  da  destare  in  chi 
ode  una  foga  di  riso  inestinguibile,  se  il  riso  non 
fosse  respinto  in  dietro  dalla  pietà  delle  con- 
dizioni a  che  la  gente  politica  della  Nazione  ha 
condotto  Firenze;  a  cui  delle  antiche  virtù  e  qua- 
lità nulla  rimane,  né  meno  T  accorgimento  e  la 
furberia;  della  quale  almeno  Stenterello  non  man- 
cava, e  mancano  affatto  i  politici  della  Nazione, 
che  si  lasciano  mettere  nel  sacco  dal  primo  ve- 
nuto di  Calabria  o  di  terra  d'  Abruzzi. 


V. 


Più  grave  taccia  mi  dava,  dopo  la  pubblica- 
zione delle  Nuove  poesie  nel  '73,  il  signor 
Eduardo  Arbib,  dal  suo  giornale  La  Libertàx 
grave,  dico,  per  rispetto  a  chi  non  mi  conoscesse. 
Pure  il  signor  Arbib  non  reputò  debito  o  conve- 
niente mandarmi  il  numero  del  giornale  che  con- 
teneva la  imputazione;  e  come  questo  non  veniva 


JUVENILIA.  71 

allora  in  Bologna,  almeno  nei  luoghi  di  pubblico 
ritrovo,  cosi  io  non  ebbi  notizia  dell'  accusa  se 
non  dopo  assai  tempo  che  mi  fu  fatta.  Era  lo 
stesso.  Non  mi  sarei  difeso  :  volevo  rimaner  fe- 
dele al  motto  scritto  in  fronte  del  volume: 

Fama  mia,  ti  raccomando 
Al  somier  che  va  ragghiando: 
Perdonanza  più  d' un  anno 
Chi  mi  dice  villania. 

Ora,  più  che  un  anno  è  passato,  e  posso  non  di- 
fendermi ma  raccontare. 

Non  difendermi,  ho  detto:  perché  io  non  sento 
necessità  veruna  di  provare  che  de'  miei  scritti 
non  ricevei  prezzo  mai  da  altri  che  dagli  editori, 
prezzo,  s' intende,  di  qualunque  sorta  o  in  qua- 
lunque maniera  pagato;  che  del  mio  lavoro  sde- 
gnerei ricevere  compenso  che  non  fosse  retribu- 
zione fermata  avanti  per  contratto  in  piena  luce 
di  sole.  Ciò  non  è  virtù,  è  pulizia.  Io  amo  tener 
nette  le  mani:  né  v'  è  guanto  che  salvi  dalla  spor- 
cizia dei  prezzi  di  favore  o  di  compra  e  vendita 
occulta,  e  dalla  sporcizia  del  contatto  delle  mani 
che  hanno  tócco  quei  prezzi.  -Ora,  quando  il  si- 
gnor Arbib  si  adoperò  e  ingegnò  di  far  credere 
a' suoi  lettori  che  l'ode  alla  Croce  di  Savoia 
mi  fosse  pagata,  forse  anche  materialmente  in  con- 
tanti, si  sforzò  in  vano  a  colorir  cosa  non  creduta 
e  non  credibile  né  meno  agli  uomini  di  parte  sua. 
Ecco  quello  che  scriveva  Giovanni  Procacci,  amico 
mio    ma    non    delle  mie  opinioni,  in  una  vita  del 


72  JUVENILIA.   - 

Salvagnoli  pubblicata  deì'62:  "  Ad  un  egregio  gio- 
vine noto  per  potenza  d'  ingegno,  che  sdegnava 
con  nobile  alterezza  schierarsi  all'  assalto  delle 
cattedre  toscane,  pensò  1'  animo  provvidente  del 
Salvagnoli;  e  avutolo  a  sé,  benignamente  lo  con- 
fortò negli  studi  e  lo  volle  ascritto  fra  gì'  inse- 
gnanti „  (pag.  43). 

L*ode  alla  Croce  di  Savoia  era  fatta,  e 
piaceva  specialmente  a  Silvio  Giannini,  già  segre- 
tario nel  '48  del  Pigli  governatore  a  Livorno,  e 
molto  in  corrispondenza  allora  co  '1  Guerrazzi: 
uomo,  del  resto,  di  agile  e  cólto  ingegno  e  d' ot- 
timo cuore,  e  che  si  pigliava  gran  pensiero  dei 
fatti  miei,  con  modi  talvolta  che  per  troppa  bontà 
riuscivano  al  rovescio.  Allora,  come  egli  era  un 
gran  credente  della  poesia  popolare  e  fu  il  primo 
a  raccogliere  in  un  libro  di  strenna  intitolato 
Vwla  del  pensiero  i  rispetti  toscani,  si  mise 
in  testa  di  far  cantare  la  Croce  di  Savoia 
popolarmente  su  T  aria  della  Rondinella  pelle- 
grina. Non  ci  fu  versi:  ostinato  come  un  vero 
còrso  livornese  che  era,  die  a  stampare  certe 
strofe  dell'  ode  su  certi  fogliolini  con  sopravi 
scritto:  Da  cantarsi  sulV  aria  "  Rondinella 
pellegrina  „,  e  li  distribuiva  egli  stesso  per 
via  Calzaioli  agli  artigiani  e  ài  ragazzi,  e  quelli  lo 
guardavano,  ed  egli  un  po'  zufolava  un  po'  can- 
ticchiava Rondinella  pellegrina  e  un  po'  Bianca 
croce  di  Savoia.  E  come  egli  era  un  beli'  uomo, 
alto,  tutto  a  nero,  in  cilindro,  con  una  faccia  ac- 


JUVENILIA.  73 

cesa  tra  la  barba  bruna  e  folta,  e  due  occhietti 
buoni,  e  una  voce,  quando  canticchiava,  tra  d'  uc- 
cellino e  di  donna,  cosi  il  popolo  gli  faceva  cer- 
chio attorno,  e  quelli  che  lo  conoscevano  dice- 
vano —  O  che  gli  gira,  sor  Silvio?  —  Io  a  co- 
teste  prove  di  popolarizzare  la  poesia  non  du- 
ravo a  lungo,  e  lo  piantavo:  di  che  egli  si  avea 
molto  a  male.  Pure  tanto  fece,  che  alla  fine  la 
bianca  croce  fu  messa  in  musica  dal  maestro  Ro- 
mani e  cantata  alla  Pergola  dalla  signora  Picco- 
lomini.  Quella  sera  Silvio  voleva  in  tutti  i  modi 
che  io  mi  mostrassi  al  pubblico  tra  le  ballerine  e 
le  coriste;  e  a  me,  che  non  fui  mai  tanto  demo- 
cratico da  far  copia  di  me  al  rispettabile  pub- 
blico, ci  volle  del  buono  e  del  bello,  anzi  del 
brutto,  per  liberarmi  dalle  affettuose  improntitu- 
dini trascinatrici  delle  braccia  del  livornese.  Po- 
chi giorni  di  poi,  passando  io  una  mattina  per 
via  Calzaioli,  trovo,  li  dal  Gigli  pasticciere,  Silvio, 
che  al  solito  aveva  preso  il  terzo  assenzio.  —  Ehi, 
vieni  dal  SalvagnoH  —  fa  lui.  E  io  :  —  Tu  se'  matto. 

—  Dico  che  tu  venga:  è  lui  che  ti    vuol  vedere. 

—  Non  vengo  — .  U  effetto  che  faceva  V  as- 
senzio su  Silvio  era  quel  di  renderlo  molto  te- 
nero e  abbracciatore.  —  Giosuè,  non  mi  fare  di 
queste  figure,  non  amareggiarmi:  vieni  dal  Sal- 
vagnoH: sai  che  è  solamente  lui  che  lavora  con 
noi  nel  ministero,  è  solamente  lui  che  vuol  V  an- 
nessione. —  Ma  tu  sai  che  da  uomini  politici  io 
non   vado;    perché    già  non  so   parlare  con  loro, 


74  JUVENILIA. 

e  mi  seccano.  —  Ma  il  Salvagnoli  è  un  letterato  : 
non  ti  ricordi  le  sue  ottave  su  Michelangiolo  che 
io  ho  ripubblicate  a  questi  giorni?  —  E  li  co- 
minciò su  la  porta  del  Gigli  a  declamare  le  ottave 
su  Michelangiolo.  In  somma  bisognò  andare  dal 
Salvagnoli. 

Vincenzo  Salvagnoli  era  ministro  del  culto,  pe- 
rocché allora  in  Toscana  e'  era  bisogno  d' un 
ministero  del  culto.  Tormentato  dall'  asma  che  lo 
soffocò  indi  a  poco  immaturo,  egli  con  un  grande 
vigore  dell'  animo  combatteva  la  malattia  e  in- 
sieme gli  ostacoli  che  nel  seno  stesso  del  governo 
si  frapponevano  ed  opponevano  al  risoluto  an- 
damento dell'  unificazione  nazionale.  Parlava  a 
intervalli,  impedito  dall'  asma,  ma  chiaro  e  forte. 
— •  Dunque  voi  non  fate  nulla?  —  Studio,  signor 
ministro,  e  do  lezioni  private.  —  Non  dico  di  co- 
testo. Un  giovine  come  voi  ha  1'  obbligo  di  ser- 
vire lo  stato,  quando  lo  stato  ha  bisogno  del- 
l' ingegno  e  dell'  opera  di  tutti  i  cittadini  migliori. 
—  Grazie,  signor  ministro:  ma  che  vuol  che  fac- 
cia? —  Quello  che  potete  fare.  Chiedete  un  posto 
neir  insegnamento.  —  Che  vuol  che  chieda,  signor 
ministro  ?  C  era  vacante  il  posto  di  retorica  nel 
ginnasio  qui  del  Comune.  Andai  per  presentare 
domanda  di  essere  ammesso  al  concorso.  Mi  ri- 
sposero :  Badi,  la  non  si  lusinghi  :  e'  è  gente  che 
ha  titoli  e  diritti  più  di  lei.  Io  non  presentai  la 
dimanda.  —  Bene,  bene,  andate:  ci  penserò  io. 
A  proposito  :  e'  è  nella  vostra  ode  una  espressione 


JUVENILIA.  75 

che  non  è  mica  di  lingua.  —  E  come  io  alzai  il 
capo  modestamente  interrogando,  egli  mi  disse 
a  mente  due  versi.  È  questa.  —  Fé'  cenno  al- 
l' usciere  gli  portasse  la  Crusca  alla  lettera  tale. 
Cercammo:  aveva  ragione.  Passò  qualche  setti- 
mana, e  il  Salvagnoli  mi  scrisse  che  il  Ridolfi 
ministro  dell'  istruzione  aveva  pensato  a  me  no- 
minandomi maestro  di  greco  nel  ginnasio  d'Arezzo. 
Quel  posto  r  avevo  ottenuto  1'  anno  innanzi  per 
concorso  dal  municipio  di  Arezzo,  ma  il  governo 
granducale  non  volle  approvare  la  nomina.  Nel  '59 
il  posto  non  mi  conveniva  più  per  ragioni  di  fami- 
glia. Tornai  dal  Salvagnoli,  e  ringraziando  rifiutai. 
—  Non  si  rifiuta  —  mi  rispose  il  ministro:  aspet- 
tate. —  Indi  a  un  mese  fìai  nominato  professare 
di  greco  nel  liceo  di  Pistoia.  Dove  io  mi  viveva 
contentissimo  della  mia  sorte,  quando  venne  a 
trovarmivi  nel  '60  la  memore  benevolenza  di  Te- 
renzio Mamiani  ministro  del  regno  con  1'  offerta 
d'  una  cattedra  nell'  Università  di  Bologna.  Il  Ma- 
miani conosceva  alcune  cose  mie,  alle  quali  era 
stato  indulgente  giudice  con  molta  mia  consola- 
zione e  conforto:  un  ministro  solamente  politico 
non  avrebbe  di  certo  pensato  a  me. 

Riman  dunque  fermo  che  gli  offici  che  io  tenni 
e  tengo  nell'  insegnamento  gli  ebbi  o  per  ripara- 
zione od  offertimi.  Ma  compensi  a'  miei  scritti 
non  ne  ebbi  mai  che  dagli  editori;  e  chiedere, 
io  non  chiesi  e  non  ho  chiesto  mai  nulla,  né 
posti  ai  ministri,  né  favori  agli  statisti,  né  articoli 


76  JÙVENILIA. 

ai  giornalisti;  né  amicizia  agli  uomini;  né  amore 
alle  donne;  né  ammirazione  ai  giovani;  né  vóti 
al  popolo.  Io  non  scrissi  né  scriverò  certo  cosa 
mai  che  valga  pure  in  piccolo  e  da  lontano  un 
venti  versi  dei  Sepolcri;  né  esulerò  in  Inghil- 
terra; ma  né  meno  ho  scritto  mai  una  lettera  che 
assomigli  alle  tante  che  Ugo  Foscolo  scrisse  a 
capi-divisione;  a  segretari;  a  ministri;  a  vice-pre- 
sidenti; a  viceré.  Lo  tengano  bene  a  mente  certi 
retori  ignoranti. 


VI. 


Anche:  il  signor  Edoardo  Arbib  credè  oppor- 
tuno; sempre  su  V argomento  delle  Nuove  Poe- 
si  e  ;  rinfacciarmi;  che;  valido  di  torace  e  di  spalle 
come  erO;  e  come,  grazie  alla  natura;  sonO;  non  in- 
dossai nel  '59  il  sacco  né  presi  il  fucile.  Lasciamo 
che  né  pur  cotesta  pare  ragione  valida  a  provare 
che  le  Nuove  Poesie  sieno  una  indegnità.  Ma 
crede  da  vero  il  signor  Arbib  che  il  coraggio 
in  Italia  sia  privilegio  di  chi  scrive  male?  Il  co- 
raggio in  Italia  è  comune;  come  l'ingegno  e  i 
fagiuoli.  Noi  italiani  nasciamo  tutti  eroi  e  tutti 
genii.  Con  questO;  V  Italia  non  è,  eh'  io  sappia; 
né  la  più  animosa  né  la  più  cólta  nazione  del 
mondo.  Sarebbe  forse  che  parecchi  italiani  ado- 
perano il  coraggio  a  osare  la  più  abiette  vigliac- 
cherie e  r  ingegnO;  come  diceva  quel  cardinale; 
e  b...enedirsi  T  un  l'altro?  La   decisione  alla  sta- 


JUVENILIA.  77 

tistica,  la  quale;  dicono,  è  scienza,  e  scienza  uti- 
lissima: dimostra  per  esempio,  che  il  bel  paese 
supera  d'  assai  la  Francia  e  la  Germania  e  non 
so  quanti  altri  paesi  men  belli  nel  prodotto  del 
genere  canaglia^  li  supera  nella  copia  e  nella 
qualità.  E  torniamo  a  me  e  al  signor  Arbib. 

Del  quale,  perché  intendeva  farmi  passare  per 
una  canaglia,  io  non  mi  vendicherò  chiamando 
lui  un  genio:  nessuno  crederebbe  a  me  come 
nessuno  crede  a  lui.  Ma  certamente  il  signor  Ar- 
bib, a  volte,  ragiona  a  bastanza  diritto;  ed  ha 
anche,  buona  memoria,  e  non  ha  dimenticato, 
credo,  che  nel  '58  e  nel  '59  mi  conosceva.  Cam- 
pavamo tutt'  e  due  del  nostro  lavoro  assai  pove- 
ramente. Egli  era  apprendista  nella  tipografia  del 
Barbèra:  io  curava  pe'l  Barbèra  certe  piccole  edi- 
zioni di  classici.  Egli  veniva  qualche  volta  a  re- 
carmi le  prove  di  stampa....  si  ricorda?...  in  una 
casa  in  Borg'  Ognissanti,  a  un  piano  molto  in  su, 
anzi  a  una  soffitta.  Egli  se  ne  deve  ricordare, 
perché  una  volta,  poveretto,  ruzzolò  una  male- 
detta scala  di  legno  che  metteva  assai  ripida  alla 
soffitta.  E  si  deve  ricordare  che  due  donne  lo  soc- 
corsero, che  quelle  due  donne  vivevano  allora  in 
quella  soffitta  con  altra  gente.  Neil'  aprile  del  '59, 
egli,  solo  in  famiglia,  potè  andare  alla  guerra. 
Io  no,  perché  quelle  due  donne  e  queir  altra  gente 
dovevo  mantenerle  io,  da  poi  che  mio  padre  era 
morto  poco  innanzi  lasciandomi  per  tutta  eredità 
dieci  paoli  (non  importa  da  vero  far  la  riduzione 


78  JUVENILIA. 

in  moneta  nuova).  Veda  bene  il  signor  Arbib  : 
quelli  che  egli  nella  nota  su  le  Nuove  Poesie 
chiamava  i  "  miei  greci  „  —  i  greci,  s' intende; 
di  me  Giosuè  Carducci,  che  per  certa  gente  ho 
anche  il  torto  di  ammirare  i  greci  —  i  "  miei 
greci  „  ;  dico,  che  non  lasciavano  morire  di  fame 
o  ir  mendicando  le  madri  e  i  fanciuUi  di  quelli 
che  andavano  a  combattere  per  la  patria,  "  i 
miei  Greci  „  non  ci  sono  più,  il  suo  Gesù  Cri- 
sto invece  portò  nel  mondo  classico  una  civiltà 
nuova,  tra'  cui  molti  civili  ed  umani  effetti  e'  è 
anche  questo,  che  uno  che  ha  famiglia  e  non  ha 
quattrini  non  può  aver  V  onore  di  morir  per  la 
patria. 

Se  il  signor  Arbib  passando  per  Bologna  vorrà 
venire  a  rinnovare  la  conoscenza  antica  e  a  ri- 
credersi di  quello  che  scrisse  non  vero  in  un  mo- 
mento che  si  lasciò  vincere  a  un  basso  istinto, 
io  r  avrò  caro.  Ma  V  avverto,  che,  se  bene  io  non 
abiti  più  in  una  soffitta,  sto  ancora  molto  alto. 
Che  vuole?  dopo  venticinque  anni  che  lavoro  come 
un  onesto  facchino,  non  ho  potuto  per  anche  con- 
cedermi il  lusso  di  pigliare  a  pigione  un  primo 
piano  sufficientemente  arredato.  Da  tanto  che  mi 
sono  venduto! 


Questo  scrìtto  fu  pubblicato  la  prima  volta  nella 
Lega  della  democrazia  di  Roma  del  9  aprile  1880: 
nel  numero  del  17  aprile  dello  stesso  giornale  fu 


JUVENILIA.  79 

Stampata  la  seguente  lettera  del   signor  Eduardo 
Arbib  ad  Alberto  Mario. 

Roma.  13  aprile  1880. 

Preg.  Sig.  'Direttore, 

Ella  ha  avuto  la  rara  fortuna  di  poter  offrire 
a'  suoi  lettori  alcuni  brani  della  prefazione  posta 
dal  signor  Giosuè  Carducci  in  fronte  alla  ristampa 
delle  sue  poesie  giovanili,  che  V  editore  Zani- 
chelli pubblicherà  uno  di  questi  giorni  a  Bologna. 
Poiché  in  quei  brani  di  me  lungamente  si  parla, 
non  le  rincresca,  signor  direttore,  di  accogliere 
nelle  colonne  del  suo  rispettabile  giornale  que- 
ste poche  mie  righe. 

Neir  estate  del  1873  il  signor  Piccardi,  allora 
collaboratore  della  Libertà,  ivi  pubblicò  una  ras- 
segna bibliografica  delle  poesie  del  signor  Car- 
ducci, mettendone  in  rilievo  tutte  le  bellezze. 
Come  direttore  del  giornale,  lasciai  al  signor 
Piccardi  pienissima  libertà  di  giudizio;  ma,  dopo 
eh'  egli  ebbe  a  suo  talento  parlato  del  poeta,  ag- 
giunsi io  di  mio  qualche  cosa  sul  cittadino. 

Fui  tratto  a  farlo  non  da  basso  istinto,  come 
suppone  il  signor  Carducci,  ma  da  altissimo  sde- 
gno, acceso  nell'  animo  mio  da  che  egli  ne'  suoi 
versi,  tra  molte  altre  cose,  aveva  osato  anche 
chiamar  vile  la  patria. 

Questa  contumelia  da  un  figlio  gettata  in  faccia 
alla  madre  mi  fece  proprio,  lo  confesso,  uscir  dai 
gangheri. 


8o  JUVENILIA. 

E,  commosso  e  irritato,  biasimai  forte  il  signor 
Carducci  d'avere  scritto  quelle  parole;  né  tacqui 
punto  che  egli,  a  mio  avviso,  tanto  era  più  degno 
di  censura,  quanto  meno  si  addice  a  chi  nulla  ha 
sofferto  per  essa  chiamar  vile  una  patria,  per 
amor  della  quale  migliaia  di  cittadini  hanno,  con 
invitto  animo,  o  sofferto  le  più  atroci  torture 
nelle  galere  o  sfidato  la  morte  sui  campi  di  bat- 
taglia. 

S'io  feci  male  o  bene  a  scrivere  cosi,  non 
spetta  a  me  a  dirlo;  sento  bensì  che  oggi  scri- 
verei tale  e  quale  come  allora,  poiché  penso  come 
allora  pensava,  né  sono  disposto  a  mutare  opi- 
nione. Peraltro,  dopo  gli  schiarimenti  che  il  si- 
gnor Carducci  dà  al  pubblico,  oggi  non  direi 
più  come  allora  nell'  impeto  dello  scrivere  dissi, 
che  r  ode  alla  Croce  di  Savoia  "  era  stata 
forse  pagata  dal  barone  Ricasoli  a  un  tanto  il 
verso  „. 

Questo  inciso  mi  fu  invero  suggerito  da  vaghe 
ricordanze  del  '59,  quando  V  ode,  appunto  nella 
tipografìa  Barbèra,  fu  stampata  in  foglietti  vo- 
lanti, per  essere  distribuita  al  popolo  di  Firenze 
il  giorno  del  plebiscito.  Aveva  in  mente  che  poeta 
e  tipografo  fossero  stati  dal  governo  pagati;  ma, 
dopo  ciò  che  dice  il  signor  Carducci,  non  mi  è 
più  lecito  accogliere  nell'  animo  simile  supposi- 
zione; sicché,  senza  tanti  giri  di  parole,  dal  mio 
articolo  del  '73  intendo  che  quell'  inciso  sia  can- 
cellato. 


JUVENILIA.  8l 

Non  aggiungo  altro  per  non  abusare  della  sua 
cortese  ospitalità.  Gradisca  i  miei  omaggi  e  mi 
creda,  con  ogni  osservanza, 

suo  devotissimo 
E.  Arbib. 

Nella  Lega  del  19  aprile  1880  in  risposta  a 
questa  lettera  era  pubblicata  la  seguente  dal  Car- 
ducci indirizzata  ad  Alberto  Mario. 

Caro  Alberto, 

Leggo  la  lettera  a  te  mandata  dal  signor 
Eduardo  Arbib. 

10,  come  te,  come  tutti  gli  uomini  sicuri  del 
fatto  loro,  tengo  molto  alle  date  e  ai  noini. 

Quanto  a  date  e  a  nomi  le  ricordanze  del  signor 
Eduardo  Arbib  sono  da  vero  (diciamo  cosi)  vaghe. 

I.  L' ode  alla  Croce  di  Savoia  non  fu  stam- 
pata nella  tipografia  di  G.  Barbèra,  ma  da  Mariano 
Cellini. 

11.  Non  fu  stampata  in  foglietti  volanti,  ma 
a  veri  e  propri  fascicoli.  I  foglietti  volanti  por- 
tarono sole  alcune  strofe  musicate. 

III.  Non  fu  distribuita  il  giorno  del  plebiscito 
che  fu  Tu  marzo  1860,  ma  pubblicata  e  messa 
in  vendita  nell'  ottobre  del  1859. 

IV.  Tra  le  Nuove  Poesie  edite  nel  settem- 
bre 1873  non  è  r  epodo  in  morte  di  Giovanni 
Cairoli  co  '1  verso 

La  nostra  patria  è  vile. 
Carducci.  4.  5 


82  JUVENILIA. 

L'  epodo  era  stato  pubblicato  la  prima  volta  nel- 
r  inverno  1869-70,  e  poi  fu  ripubblicato  nelle 
Nuove  Poesie  dal  Barbèra  l'anno  1871. 

Del  resto;  ricordando  quello  che  fece  e  che 
fu  r  Italia  officiale  nel  '66  nel  '67  e  nel  '70  e  gli 
scandali  del  '68  e  del  '6g,  non  trovo  ragione  a 
pentirmi  di  quel  verso. 

Tuo  amico 
Giosuè  Carducci. 

A  proposito  di  altre  attribuzioni  e  notizie  più 
innocentemente  non  vere  su  poesie  giovanili,  il 
Carducci  avea  dovuto  pubblicare  quasi  un  anno 
prima  quest'altra  lettera  al  direttore  del  Preludio 
di  Bologna: 

Alessandria,  21  maggio  1879. 

Mio  caro  signore, 

Nel  Dizionario  biografico  degli  scrit- 
tori contemporanei,  diretto  da  Angelo  De 
Gubernatis,  leggo  oggi,  al  fase.  Ili,  pag.  250  e 
seguenti,  un  articolo  intitolato  dal  mio  nome;  e 
vi  leggo,  che  io  nel  1860  volli  dedicato  a  Vittorio 
Emanuele  "  un  mio  piccolo  lavoro  drammatico 
di  soggetto  politico,  che  Ernesto  Rossi  dovea  rap- 
presentare „.  Non  è  vero.  Protesto,  non  contro 
il  buon  De  Gubernatis  a  cui  qualche  istrione  l' ha 
dato  ad  intendere.  Protesto,  non  per  la  dedica  a 
Vittorio  Emanuele,  ma  pe  '1  rimanente.  Io  non 
credo  di  aver  dato  mai   occasione   ad   alcuno    di 


JUVENILIA.  83 

spacciarmi  o  ritenermi,  sia  pure  per  cinque  mi- 
nuti, autore  "  di  un  piccolo  lavoro  drammatico 
di  soggetto  politico  „.  Capisce?  "  un  piccolo  la- 
voro drammatico  di  soggetto  politico  „!  Adoro 
l'arte  da  tanti  anni  con  tale  rispetto,  che  non 
meritavo  V  affronto  della  imputazione  di  un  de- 
litto cosi  borghesemente  triviale. 

La  saluto  di  cuore,  e   La  prego  a  far  publica 
questa  mia  dichiarazione  nel  Preludio  o   altrove. 

Suo  affezionatissimo 
Giosuè  Carducci. 


POLEMICHE  SATANICHE 


A   Satana 

inno  con  lettera  dell'autore,  etc., 

Bologna,  tipogr.  degli  Agrofili,  1869: 

Bozzetti   critici  e  discorsi  letterari  di   G. 

Livorno,  Vigo,  1876: 

Satana   e   polemiche    sataniche   diG.  C, 

Bologna,  Zanichelli,  1882: 

Confessioni  e  Battaglie  di  G.  C,  1«  serie. 

Roma,  Sommaruga,  1882. 


Il  giornale  di  Bologna  //  popolo  ripubblicava  l'S  decembre 
1869  r  limo  a  Satana,  e  il  giorno  di  poi  dava  luogo  alla 
seguente  lettera  di  Quìrico  Filopanti: 


Caro  Enotrio, 


EL  suo  insieme  il  vostro  componi- 
mento non  è  poesia;  è  un'  orgia  in- 
tellettuale. 
^^^-^ir^^^  Esso  ha,  fra  gli  altri,  un  difetto 
per  me  capitale  :  quello  di  essere  antidemocratico. 
È  antidemocratico  nella  forma,  conciossiaché, 
mentre  la  fraseologia  del  medesimo  è  appena  in- 
telligibile a  quelli  che  hanno  avuto  una  completa 
educazione  di  collegio,  il  popolo  non  ne  com- 
prende'rà  una  decima  parte. 

E  ancora  più  antidemocratico  nella  sostanza, 
poiché  si  tradisce,  non  si  giova,  il  popolo,  divi- 
nizzando il  principio  del  male. 


88  POLEMICHE    SATANICHE. 

Petruccelli  della  Gattina  ha  fatto  un  romanzo 
il  cui  eroe  è  Giuda  Iscariota.  Voi,  con  un  inge- 
gno maggiore  di  quello  del  Petruccelli;  siete  ca- 
duto in  una  aberrazione  anche  più  colossale.  Se 
diceste  apertamente  alle  moltitudini  che  Giuda  e 
Satana  sono  esseri  immaginari,  trovereste  migliaia 
di  persone  sensate  che  vi  approverebbero,  ma  al- 
lorché, pur  credendoli  immaginari,  fingete  di  pren- 
derli per  personaggi  reali,  siate  coerenti  alla  vo- 
stra finzione,  e  date  a  quei  due  odiati  nomi  il 
senso  che  vi  attribuiscono  le  genti;  cioè  pren- 
dendo r  uno  per  la  personificazione  del  più  vile 
ed  abbominevole  tradimento,  e  V  altro  come  la 
personificazione  di  tutto  ciò  che  osteggia  la  virtù 
ed  il  benessere  degli  uomini.  Forse  vi  siete  in- 
teso di  inneggiare  alla  Natura,  all'  Universo,  al 
Gran  tutto,  a  Pan,  cose  o  più  veramente  cosa 
immensa,  buona  ed  augusta.  Ma  perché  chiamarla 
coi  bruttissimo  nome  di  Satana? 

Ogni  scrittore,  più  specialmente  il  poeta,  dee 
prendere  la  lingua  tal  quale  è,  e  non  fabbricar- 
sene una  a  ritroso  dell'  uso  e  del  senso  comune. 
Siete  in  facoltà,  quando  parlate  nella  vostra  testa 
tra  voi  e  voi,  di  chiamar  fuoco  ciò  che  noi  chia- 
miamo acqua,  e  viceversa;  ma  questo  non  vi  to- 
glierà di  essere  fraintesi  o  scherniti,  se  vi  avven- 
turate a  dire  ad  altrui  che  il  fuoco  bagna  e  V  ac- 
qua asciuga.  Cosi,  quando  esclamate 

Salute    o  Satana, 
O  ribellione, 


POLEMICHE   SATANICHE.  89 

voi  credete  senza  dubbio  di  fare  uno  splendido 
elogio  del  vostro  protetto;  invece  rendete  un  se- 
gnalato servigio  al  sedicente  Concilio  ecumenico, 
ed  ai  nemici  di  tutte  le  rivoluzioni,  anche  giuste 
e  necessarie. 

M'  aspetto  da  voi  una  spiritosa  risposta,  alla 
quale  io  non  replicherò,  checché  diciate;  imper- 
ciocché desidero  di  rimanervi  amico,  a  patto  sol- 
tanto che  non  pretendiate  che  io  lo  sia  egual- 
mente di  Satanasso. 

Voglio  rimaner  fedele  ai  due  grandi  principii 
che  ebbi  già  la  fortuna  di  proclamare  in  Campi- 
doglio, e  che  spero  di  poter  proclamare  di  nuovo: 
Dio  e  popolo. 


Nel  numero  10  decembre  del   Popolo   usciva   questa   risposta 
A  QUIRICO  FILOPANTI. 

Caro  e  onorando  amico, 

Ulnno  a  Satana  è  lirico  almeno  in  questo, 
che  è  r  espressione  subitanea,  il  getto,  direi,  di 
sentimenti  tutt'  affatto  individuali,  come  mi  ruppe 
dal  cuore,  proprio  dal  cuore,  in  una  notte  di  set- 
tembre del  1863. 

L' anima  mia,  dopo  anni  parecchi  di  ricer- 
che e  di  dubbi  e  di  esperimenti  penosi,  aveva 
alla  fine  trovato  il  suo  verbo;  e  Ver  bum  caro 
factum  est:  ella  gittò  allegra  e  superba  all'  aria  il 


90  POLEMICHE    SATANICHE. 

SUO  epinicio;  il  suo  eureka.  Avrà  abbracciato  del- 
l' ombrC;  può  darsi  :  avrà,  in  vece  del  grido  del- 
l' aquila  di  Pindaro,  fatto  il  verso  del  barbagianni; 
può  darsi  più  che  probabilmente  anche  questo. 
Ma  certo  io  non  intesi  fare  cosa  di  parte;  non 
un  evangelio  né  un  catechismo  né  un  salmo 
per  chi  che  sia.  Tanto  era  lontano  dal  pensiero 
della  propaganda  (  la  quale  io  lascio  di  gran  cuore 
ai  teologi  e  ai  filosofi  sistematici),  che  stampai 
r  inno  sol  due  anni  appresso,  e  in  poche  copie, 
che  regalai  a  pochi  amici  o  conoscenti.  Me  lo 
ristamparono  in  giornali  democratici,  massonici, 
mezzi  e  mezzi,  a  Palermo,  a  Firenze,  a  Spoleto, 
senza  farmene  né  pure  un  cenno  avanti.  Almeno 
r  amico  Bordoni  del  Popolo  me  ne  ha  chiesto  il 
permesso:  doveva  io  dirgli  di  no?  o  perché?  Dun- 
que, onorato  amico,  questo  riman  fermo,  che  T  inno 
è  roba  tutta  mia,  sangue  del  mio  sangue,  anima 
dell'  anima  mia,  e  non  un  manifesto  politico  d'  oc- 
casione. Errò  per  via  di  bene,  ma  errò,  //  po- 
polo, quando  scrisse  che  Bologna  aveva  fatta  la 
sua  protesta  contro  il  Concilio  mandando  al  Co- 
mune r  autore  dell'  Inno  a  Satana.  Troppo  onore 
per  un  rimatore:  novantanove  su  cento  di  quelli 
che  votarono  per  il  Carducci  sapevano  molto  di 
Enotrio  Romano  e  di  Satana  ! 

Del  resto,  tu  non  potevi  non  intendere  a  qual 
nume  inneggiassi  io.  Tu  1'  hai  detto:  alla  Natura. 
E  alla  Ragione:  aggiunge  il  redattore  del  Popolo, 
Si,  ho  inneggiato  a  queste  due  divinità  dell'  anima 


POLEMICHE    SATANICHE.  9I' 

mia,  dell'  anima  tua  e  di  tutte  le  anime  generose 
e  buone;  a  queste  due  divinità  che  il  solitario 
e  macerante  e  incivile  ascetismo  abomina  sotto 
il  nome  di  carne  e  di  mondo,  che  la  teocrazia 
scomunica  sotto  il  nome  di  Satana. 

Satana  per  gli  ascetici  è  la  bellezza,  1'  amore, 
il  benessere,  la  felicità.  Quella  povera  monacella 
desidera  un  césto  d' indivia?  in  quel  césto  v'  è 
Satana.  Quel  frate  si  compiace  d' un  uccellino 
che  canta  nella  sua  cella  solinga?  in  quel  canto 
v'  è  Satana.  Ecco,  nella  caricatura  ridicola  della 
leggenda,  quel  feroce  ascetismo  che  rinnegò  la  na- 
tura, la  famiglia,  la  repubblica,  1'  arte,  la  scienza, 
il  genere  umano;  che  soppresse,  a  profitto  della 
vita  futura,  la  vita  presente;  che,  per  amore  del- 
l' anima,  flagellò,  scorticò,  abbrustolò,  agghiadò 
il  corpo. 

Per  i  teocratici  poi  (mette  conto  ripeterlo?)  Sa- 
tana è  il  pensiero  che  vola.  Satana  è  la  scienza 
che  esperimenta.  Satana  il  cuore  che  avvampa, 
Satana  la  fronte  su  cui  è  scritto  —  Non  mi  ab- 
basso. Tutto  ciò  è  satanico.  Sataniche  le  rivolu- 
zioni europee  per  uscire  dal  medio  evo,  che  è  il 
paradiso  terrestre  di  quella  gente;  i  comuni  ita- 
liani, con  Arnaldo,  con  Cola,  co  '1  Burlamacchi; 
la  riforma  germanica  che  predica  e  scrive  libertà; 
r  Olanda  che  la  libertà  incarna  nel  fatto;  l' Inghil- 
terra che  la  rivendica  e  la  vendica;  la  Francia 
che  r  allarga  a  tutti  gli  ordini,  a  tutti  i  popoli, 
e  ne  fa  la  legge  delle  età  nuove.  Tutto  ciò  è  sata- 


92  POLEMICHE   SATANICHE. 

nico;  colla  libertà  di  coscienza  e  di  culto,  colla 
libertà  di  stampa,  co  '1  suffragio  universale;  s' in- 
tende. 

E  Satana  sia.  Dice  bene  il  Bordoni  e  diceva 
bene  David,  se  non  m'inganno:  "  Nelle  loro  ma- 
ledizioni ci  esaltiamo,  e  ci  gloriamo,  nei  loro  vi- 
tuperii  „.  Noi  siamo  satanici. 

E  perché  no?  Satana  non  è  egli  un  tipo  per 
eccellenza  artistico?  Pigliamolo  nel  Testamento 
vecchio.  Egli  è  il  primo  ribelle  contro  il  despo- 
tismo  accentratore  e  unitario  di  Geova  nel  de- 
serto della  creazione.  EgU  è  vinto:  ma  l'arcan- 
gelo Michele,  a  cui  V  ascetismo  vesti  dal  medio 
evo  in  poi  un  magazzino  d'  armi  che  non  finisce 
mai,  tant'  è,  m'  ha  1'  aria  d'  un  gendarme;  e  io  sto 
per  il  vinto. 

Sto  per  il  vinto;  e,  senza  volerlo,  inchinava  un 
po'  per  il  vinto  anche  V  apologista  del  supplizio  del 
re  d' Inghilterra,  anche  il  segretario  del  Cromwell, 
anche  Giovanni  Milton.  Come  terribile  1'  ha  egli 
dipinto,  come  maestosamente  aggrondato!  Quando 
leggo  nel  Farad  iso  perduto  il  concilio  di  Satana, 
parmi  che  da  quei  versi  mi  venti  su  '1  viso  V  aura 
tempestosa  del  lungo  Parlamento  che  condannò 
Carlo  I,  e  V  anima  mia  ritorna  alle  notti  sublimi 
della  Convenzione  francese. 

Sto  per  il  vinto,  e  per  il  tentatore.  Che  cosa 
disse  egli  in  fatti,  questo  tentator  generoso,  alla 
compagna  dell'uomo?  Le  accennava,  nell' orto  di 
Geova,    in    quell'  orto    chiuso    e  uniforme,  le    ac- 


POLEMICHE   SATANICHE.  93 

cennava  V  albero  mistico  che  portava  il  pomo 
della  scienza  e  della  vita,  del  bene  e  del  male; 
e  —  Mangiate,  le  disse,  di  questo;  e  sarete  sic- 
come iddii.  —  E  che  cosa  altro,  di  grazia,  dis- 
sero agli  uomini  Pittagora,  Anassagora,  Socrate, 
Platone,  Aristotile?  Che  cosa  altro  dissero  loro 
il  Galileo,  il  Newton,  il  Keplero,  il  Descartes,  il 
Kant? 

Di  questo  ribelle  magnanimo,  di  questo  tenta- 
tor  generoso,  Moisè,  per  ossequio  alla  razza  sa- 
cerdotale cui  apparteneva,  Moisè,  troppo  memore 
della  servitù  d' Egitto  ove  i  pantani  del  Nilo 
producevano  sacerdoti  e  serpenti,  Moisè,  dico,  ne 
fece  un  rettile.  Tu  sai,  onorando  amico,  se  il  cat- 
tolicismo  ha  caricato  poi  di  sassi,  di  fango  e  di 
onte  questo  povero  rettile.  Rettile?  che  dico?  Ne 
fece,  nelle  sue  ebre  fantasmagorie  del  medio  evo, 
un  mostro  con  corna  e  coda  e  con  tale  un  cor- 
redo di  deformità  che  andava  crescendo  grot- 
tescamente nei  secoli.  Domandane  a  Dante  e  al 
Tasso. 

In  questo  caso,  io,  oppresso  dalla  società  fin 
da' primi  anni,  mi  dichiarai  per  il  ribelle  alla 
monarchia  solitaria  di  Geova,  per  il  tentatore 
degli  schiavi  di  Geova  alla  libertà  e  alla  scienza, 
per  r  oppresso  dalla  gendarmeria  di  Geova.  E,  se 
Ary  Schefifer  lo  aveva  tratteggiato  sublime  di  ma- 
linconia e  involto  di  fosco  splendore,  io  V  ho  can- 
tato raggiante  e  tonante  e  folgorante  di  vita  su 
r  universo.  Lo  Scheffer  lo  figurava  quando  il  mi- 


94  POLEMICHE    SATANICHE. 

sticismo  pareva  voler  collegarsi  alla  libertà:  io  lo 
cantO;  avendo  in  conspetto  il  regno  della  ragione. 

Del  resto  tU;  mio  onorando  amico,  grida  pure 
il  tuo  vecchio  e  glorioso  grido,  Dio  e  popolo. 
Con  cotesto  grido  combatterono,  per  la  libertà  e 
per  1'  onore  dell'  Italia,  Roma  e  Venezia;  e  io  mi 
scopro  il  capo  dinanzi  agli  uomini  che  lo  proffe- 
riscono, dinanzi  agli  uomini  che  contano  ornai 
quarant'  anni  di  sacrifizi  e  di  abnegazioni  non 
ascetiche  ma  romane. 

Solo  una  cosa  m'  è  dispiaciuta  nella  tua  let- 
tera: quel  "  M'  aspetto  da  voi  una  spiritosa  ri- 
sposta, alla  quale  io  non  replicherò,  checché  di- 
ciate „.  È  vero:  nella  mia  faretra,  per  dirlo  alla 
pindarica,  ormai  che  sono  in  vena,  io  serbo  delle 
frecce,  alcune  acute  come  pungiglioni,  altre  anche 
avvelenate.  Ma  queste  le  riserbo  per  certi  paladini 
che  m'intendo  io,  quando  non  me  ne  ritenga  il 
disprezzo.  Tu  e  dall'  ingegno  e  dalla  virtù  e  dalla 
vita  incontaminata  spesa  tutta  per  la  libertà  e 
per  il  bene  hai  autorità  di  ammonirmi  e  di  con- 
sigliarmi: per  te  io  non  ho  che  ghirlande  di  fiori, 
dei  fiori  nati  alle   aure  più  pure  dei  liberi  monti. 

Addio.  Credi  che,  a  immenso  intervallo  per 
r  ingegno,  ma  a  non  piccolo  intervallo  per  le  idee, 
io  sono  lungi  dalla  poesia  satanica  dello  Shelley. 
Io  non  sono  scettico.  Io  amo  e  credo.  E  ti  stringo 
la  mano  onorata. 

Giosuè  Carducci. 
(Enotrie  Romano) 


POLEMICHE    SATANICHE.  95 


Nei  numeri  27  e  28  decembre  1869  dello  stesso  giornale  //  Po- 
polo usciva  quest'altra  risposta: 

AL  CRITICO  DEL  DIRITTO 

(N.  355  e  356). 


Il  critico  del  Diritto,  il  quale  mi  viene  all'  in- 
contro con  aria  tra  il  lottatore  e  il  definitore,  tra 
lo  spadaccino  e  il  cattedrante,  sotto  la  forma  d'  una 
sbilenca  gutturale  dell'  alfabeto  greco,  la  K,  co- 
mincia dall'  affermare  —  Satana  è  la  ribellione. 
Ecco  il  senso  dell'  inno  di  Enotrio  Romano. 


II. 


Veramente,  non  tutto.  A  me  pareva,  e  pare, 
di  aver  inneggiato  da  principio  la  natura  nel  senso 
cosmico;  mi  pareva,  e  pare,  di  aver  .proseguito 
inneggiando  la  incarnazione  più  bella  ed  estetica 
della  natura  nell'  umanesimo  divino  della  Grecia; 
mi  pareva,  e  pare,  di  aver  finalmente  cantato 
la  natura  sempre  e  l' umanità  ribelli  necessaria- 
mente nei  tempi  cristiani  all'  oppressura  del  prin- 
cipio di  autorità  dogmatico  congiunto  al  feudale 
e  dinastico.  Mi  pareva  in  somma  di  avere  adom- 
brato, come  in  una  poesia  lirica  potevasi,  la  sto- 
ria del  naturalismo,  panteistico,  politeistico  e  ar- 
tistico, storico,  scientifico,    sociale.    Chieggo  per- 


96  POLEMICHE    SATANICHE. 

dono  di  tutti  questi  epiteti  alto-sonanti,  che  non 
son  del  mio  gusto;  ma  bisogna  pure  intendersi, 
e  in  fretta. 


III. 


Ma  Kappa  del  Diritto  non  vuole  del  concetto 
mio  afferrare  che  una  parte;  della  mia  piccola 
epopea  non  guarda  che  a  un  episodio,  a  due  versi; 
e  dice:  —  Ecco  tutto.  Il  Satana  di  Enotrio  Ro- 
mano è  la  ribellione.   — 

Sopra  che,  Kappa  mi  fa  una  lezione;  come 
qualmente  ribelli  sono  anche  i  briganti  di  Cala- 
bria, e  non  v'è  ribellione  la  quale  ragioni  e  di- 
scuta; e  mi  domanda  se  io  ho  trovato  la  linea 
che  separa  V  esercito  degli  insorti  in  nome  d* un' idea 
pura  da  quel  dei  ribelli  per  un  pregiudizio,  e  se 
non  mi  pare  che  la  superstizione  stessa  sia  santa 
agli  occhi  della  vittima  che  per  essa  s' immola. 
Vero  è  eh'  egli  mi  concede  benignamente  che  il 
brigante  di  Calabria  non  sia  il  mio  Satana.  Sfido 
io:  con  tutti  quelli  agnusdei  a  dosso. 

La  lezione  è,  del  resto,  serenamente  ingenua. 
Ma  come?  non  avete  voi,  signor  mio,  presentito 
la  risposta?  Si,  io  posso  ammirare,  se  volete,  la 
fede  cupa  e  feroce  de'  vandeani,  e  il  lor  precipi- 
tare, uomini,  donne  e  fanciulli,  dalle  ceneri  dei 
loro  villaggi,  per  le  campagne  fumanti,  su  le  le- 
gioni dei  turchini,  e  ciò  per  la  causa  di  un  dio 
che  li  lascia  scannare  e  abbrustolire,  e  di  re  che 


POLEMICHE    SATANICHE. 


97 


lesinano  a  Londra  il  quattrino  o  sbordellano  a 
Venezia.  Li  posso  ammirare;  ma  sto  coi  turchini, 
e  faccio  fuoco  su'  vandeani.  Cosi  vuol  Satana, 
"  la  forza  vindice  della  ragione  „. 

—  Conosci  tu,  o  poeta,  una  ribellione  che  ra- 
gioni e  discuta?  — 

Ne  conosci  tu  una,  o  critico,  che  non  ragioni? 
—  Quando  si  afferma  il  no,  si  è  analizzato  il 
SI.  Quando  uno  che  giace  si  solleva  contro  un 
altro  che  gli  sta  sopra,  ha  fatto  almen  tre  giu- 
dizi, su  lo  stato  suo,  su  la  condizione  di  chi  glie 
sopra,  su  le  relazioni  tra  quello  stato  e  questa  con- 
dizione; un  sillogismo  perfetto,  insomma.  I  bruti 
non  si  ribellano:  e  né  pure  i  filosofi  alessandrini. 
Ciò  pe  '1  ragionamento. 

Quanto  al  discutere,  le  ribellioni  veramente 
non  discutono  esse,  o  discutono  con  argomenti 
loro  speciali;  ma  per  lo  più  portano  le  conclu- 
sioni o  avanzano  le  premesse.  Conoscete  voi  un 
ergo  più  logico  del  io  agosto  1792  e  che  me- 
glio conchiuda  V  antecedente  del  14  luglio  1789? 
E  quale  argomentazione  contro  le  Speranze 
d*  Italia  di  Cesare  Balbo  e  le  teoriche  dei  mo- 
derati del  quarantasette  ha  vinto  in  perspicuità 
le  cinque  giornate  di  Milano?  E  qual  premessa 
v'  è  stata  al  mondo  più  vasta  e  terribile  delle 
giornate  di  giugno  del  1848? 

Certamente,  le  ribellioni  non  compongono  trat- 
tati, ma  coi  trattati  caricano  i  fucili.  Qualche 
palla  che  percosse   la   Bastiglia    dove    esser    cal- 

Carducci.  4.  7 


98  POLEMICHE   SATANICHE. 

cata  con  uno  straccio  di  pagina  del  Contratto 
sociale.  E  nella  fucilata  che  risonò  per  le  eleganti 
scalee  delle  Tuileries  vi  era  forse  qualche  sprazzo 
dell'  anima  tua,  o  Diderot. 


IV. 


Ma,  oppone  Kappa,  lo  studio  della  vita  e  del- 
l'universo  ci  mostra:  che  non  v' è  una  forza  ri- 
belle soltanto;  che  anzi  vi  sono  due  forze,  1'  azione 
e  la  reazione;  che  il  mondo  appare  dominato  so- 
vranamente dalla  legge  della  contraddizione;  che 
il  fatto  non  è  isolato  e  circoscrittO;  ma  indefinito; 
che  il  fenomeno  non  termina  in  sé  medesimo,  ma 
si  lega  a  un  altro  fenomeno;  che  tutto  in  somma 
neir  universo  è  relativo,  che  tutto  s' incatena,  si 
limita,  si  prolunga. 

—  Bene.  Sapevamcelo. 

—  Che  farà  dunque  il  Satana  della  ribellione 
in  questo  immenso  e  complicato  universo  dei  fatti 
e  delle  idee?  —  domanda  Kappa. 

Al  meno  meno  farà  quel  che  il  Satana  della 
leggenda,  quando  a  forza  di  tentazioni  novissime 
e  sottilissime  aveva  indotto  un  povero  anacoreta 
nel  peccato  mortale  di  tenersi  per  santo  e  di 
far  miracoli.  Il  Satana  della  leggenda  finiva  la 
festa  con  un  solenne  scroscio  di  risa  infernali. 
Il  Satana  della  ribelHone  riderà  di  volo  (ha  al- 
tro da  fare)  del  vedere  certe  brave  persone  per- 
dere il  tempo  a  mettere  assieme  certe  loro   locu- 


POLEMICHE    SATANICHE.  99 

zioni  e  creder  su  '1  serio  di  far  dei  pensieri;  del 
vederle  nelle  regioni  vaporose  delle  forinole  an- 
dare cercando  ostacoli  di  nebbia  da  mettergli  tra 
i  piedi. 

Lasciamo  le  formole,  proprietà  troppo  indivi- 
duale a  un  tempo  e  troppo  poco  determinata  ; 
e  veniamo  ai  fatti;  che  sono  in  possesso  di 
tutti. 

Ma  come  ?  Perché  senz'  Anito  non  s' intende 
Socrate  e  senza  il  Gessler  non  v'  è  Guglielmo 
Teli;  volete  voi  eh'  io  non  protesti  co  '1  pensiero 
e  co  '1  fatto  contro  i  preti  inquisitori  e  contro  i 
tiranni  feudali?  Perché  alla  gran  rivoluzione  dei 
grandi  giacobini  dovè  succedere;  grazie  all'  im- 
pero; la  piccola  reazione  dei  piccoletti  congre- 
gazionisti; volete  voi  eh'  io  riconosca  la  Risto- 
razione? Perché  senza  la  pena  di  morte  non 
avremmo  avuto  il  martirio  di  Socrate;  di  CristO;  di 
Giovanni  Brown;  mi  vorreste  consacrare  il  carne- 
fice?   Eh  via!  le  son  parole. 

Ma  son  parole  con  le  quali  da  certa  gente  che 
vuole  i  suoi  comodi  si  sdrucciola  comodamente 
air  adorazione  del  fatto  compiuto;  della  necessità 
•storica  che  si  rivela  co'l  barbaglio  dell'acciaio  e 
dell'  oro.  Siete  voi  carne  da  Cesari;  cari  signori? 
Allora  voi  co'l  vostro  dio  officiale  (perché  non 
dovreste  ammettere,  in  grazia  dello  statuto,  un 
dio  officiale;  fatto  compiuto?)  approvate  pure  il 
buon  successo  e  cantate  il  Tedeum  a'  colpi  di 
stato.    Noi    ci   volgiamo    venerando    alle  prigioni 


-lOO  POLEMICHE    SATANICHE. 

e   ai  patiboli:    Victrix  causa  diis  placuit  sed  vieta 
Catoni. 


V. 


Mi  accorgo  ora  di  essere  acerbo  anzi  che  no 
verso  il  mio  critico,  il  quale  in  fondo  ammette, 
come  vedremo,  dell'  idea  mia  tanto  che  basta  per- 
ché ci  troviamo  sur  un  punto  d' accordo.  Son 
dunque  acerbo.  Ma  la  colpa  è  tutta  mia?  E  non 
vi  è  ella  in  Italia  una  certa  critica,  e  special- 
mente quella  che  credesi  nuova  e  razionale,  la 
quale  abusa  un  po'  troppo  del  parlare  per  via  di 
-oracoli,  la  quale  procede  un  po'  troppo  co'  passi 
della  sibilla  incamminantesi  al  tripode?  E  il  tri- 
pode è  il  più  delle  volte  una  cattedra  di  legno 
più  o  meno  tarlato,  più  o  meno  verniciato;  e  gli 
oracoli  sono  edizioni  ritoccate  dei  boccali  di  Mon- 
telupo;  e  la  sibilla  spira  un  odor  di  pedagogo 
da  far  raggrinzare  il  naso  a  tutti  gli  uomini  di 
buon  gusto:  figuratevi  a  chi  inneggia  il  Satana 
della  ribellione,  come  dice  Kappa! 

Il  qual  Kappa,  per  esempio,  ha  una  maledetta 
aria  di  essersi  voluto  impancare  tra  Quirico  Fi- 
lopanti  e  me  un  po'  po'  con  le  intenzioni  e  tutto 
affatto  con  l' atteggiamento  del  Napoleone  man- 
zoniano: 

Eì  fé' silenzio,  ed  arbitro 
o      .    '  Si  assise  in  riiezzo  a  lor. 


i 


POLEMICHE  SATANICHE.  lOI 

A  proposito,  perché  nomina  egli  il  segretario 
della  Costituente  romana,  il  patriotta  e  lo  scien- 
ziato onorando,  con  sproposito  grammaticale  "  il. 
Quirico  Filopanti  „  ?  Vorrebbe  ella  esser  cote- 
sta  una  smorfia  dì  dispetto  barbaramente  scim- 
mieggiata del  gergo  curiale?  Kappa  dunque,  se- 
dutosi su  la  sua  cattedra  in  mezzo  a  noi,  par  guar- 
darci con  un  suo  certo  risolino,  e  —  Il  Quirico 
—  ei  dice  —  è  un  povero  di  spirito  che  si  scanda- 
lizza di  nulla;  e  tu,  o  poeta  (mi  interpella,  come 
sentite,  assai  democraticamente),  e  tu  sei  molto  in- 
di-etro  d' idee.  Noi  abbiamo  camminato  di  molto  ; 
e  per  ciò  ora  ci  riposiamo,  osservando  tutto, 
giudicando  tutto,  ricercando  la  legge  dietro  il  fe- 
nomeno. Noi  delle  idee  ne  abbiamo  a  bizzeffe, 
e  di  si  fatte,  che  se  le  mettessimo  fuora!...  Ma 
ora  è  il  tempo  del  divenire:  ora  si  ponza,  e  di 
lotta  non  e'  è  bisogno.  E  per  ciò  le  teniamo  nella 
scatola  dei  fiammiferi.  — 

Da  vero  eh?  -  . 


VI. 


Kappa,  del  resto,  salvo  la  mutria  del  pedagogo, 
salvo  il  posare  dell'  uomo  che  ha  i  cocomeri  in. 
corpo,  dev'  essere  una  buona  e  brava  persona. 
Egli  fa  del  pedagogo,  quando  mi  domanda  se  io 
con  Satana  voglio  risuscitare  1'  assoluto  condan- 
nato dalla  scienza  e  dalla  coscienza  del  nostro 
secolo,  se  io  voglio  con  Satana  opporre  altare  ad 


I02  POLEMICHE  SATANICHE, 

altare,  dio  a  dio.  Ma  che  vi  pare^  maestro?  sono 
elleno  cose  queste  da  dirsi  né  men  per  ischerzo? 
Si  posa  come  V  uomo  dei  cocomeri,  quando,  sgra- 
nata una  filza  di  noi  che  paion  tanti  paternostri 
d'  un  rosario  conchiude  :  —  Come  volete  voi  che 
ci  appassioniamo  per  Geova  e  per  Satana  noi 
che  vediamo  nelF  uno  e  nell'  altro  due  creazioni 
dello  spìnto  umano?  —  To',  ce  le  vedete  soltanto 
voi?  Oh  il  raro  uomo  selvatico  da  mostrarsi- 
ne'  giorni  di  fiera  ! 

Ma  poi  Kappa  si  degna  d' interpretarmi,  e 
m'interpreta,  in  parte,  da  quel  brav' uomo  che  è. 
—  Il  Satana  del  poeta  —  egli  dice  —  ha  avuto  di- 
versi nomi  attraverso  i  secoli.  Si  è  chiamato  So- 
crate, ecc....  Si  è  chiamato  Cristo,  ecc....  Si  è. 
chiamato  Galileo,  ecc....  Dove  un  uomo  combatte, 
soffre,  e  muore  per  un'  idea,  per  la  giustizia,  per 
la  verità,  ivi  è  una  incarnazione  di  quella  forza 
misteriosa  che  gli  uni  chiamarono  Geova,  gli  altri 
Satana,  ecc.  — 

Benissimo.  Ma  via  quel  Geova!  Via  il  dio-re- 
prete  della  casta  ieratica  de'  semiti,  il  quale  altro 
non  fece  a'  suoi  bei  giorni  che  inebriare  di  san- 
gue e  di  furor  militare,  e  d'  egoismo,  e  d'  odio 
al  bello  al  vero  all'  umano,  quel  piccoletto  osti- 
nato e  valoroso  popolo  degli  ebrei!  Via  Geova! 
Non  lo  vogliamo  !  E  anche  su  quella  "  misteriosa 
forza  „  avremmo  che  dire.  Per  noi  essendo  quella 
forza  non  altro  che  la  ragione  collettiva,  come 
dicono,  del  genere  umano,  non  ci  vediamo  misteri. 


POLEMICHE    SATANICHE.  IO3. 

VII. 

Ma,  stando  cosi  le  cose,  e  il  mio  Satana  es- 
sendo, per  confessione  dello  stesso  Kappa,  da  per 
tutto  "  dove  un  uomo  combatte,  soffre  e  muore 
per  un'  idea,  per  la  giustizia,  per  la  verità  „,  per- 
ché non  comprende  egli  il  Satana  della  ribellione 
nel  mondo  d'  oggigiorno  ? 

"  Il  mondo  —  egli  dice  —  fino  a  ieri  fu  un 
edificio  che  riposava  sulla  fede  cieca  dell'  assoluto. 
Religione,  poHtica,  letteratura,  tutto  portava  l'im- 
pronta di  questo  concetto.  Non  vi  era  allora  dub- 
bio nelle  anime....  —  E  seguita  affermando  che 
oggi  v'  è  il  dubbio  ;  che  oggi  non  si  sa  qual  sia 
il  campo  di  Satana  e  quale  il  campo  di  Dio;  che 
oggi  tutto  è  relativo  e  mutevole,  tutto  è  problema; 
che  oggi  nulla  è,  tutto  diviene. 

No:  io  sono  qualche  cosa;  e  perché  sono  qual- 
che cosa,  vivo  e  combatto.  No:  io  non  voglio 
aspettare  che  il  tutto  divenga,  con  le  mani  in 
mano  o  sotto  le  ascelle  o  incrociate  su  '1  petto,  e 
guardandomi  la  punta  del  naso,  come  i  solitari 
del  monte  Athos,  o  il  bellico  come  li  ioghi.  Io 
non  sono  né  un  iogo,  né  un  popò,  né  un  magi- 
ster  di  filosofia. 

E  poi  chi  vi  ha  detto  che  1'  assoluto  non  im- 
pronta più  la  religione?  O  i  nuovi  misteri  che 
van  ripullulando  a  pie  del  gran  tronco  della 
chiesa  cattolica?    O    il   rifiorire    del    dogmatismo 


I04  POLEMICHE  SATANICHE. 

e  del  teologismo  anglicano  e  luterano?  che  si- 
gnifica ciò? 

Chi  vi  ha  detto  che  V  assoluto  non  impronta 
più  la  politica?  O  il  primo  articolo  dello  statuto? 
O  il  "  per  la  grazia  di  Dio  „  ?  Non  vogliamo  illu- 
derci: in  quelle  due  cose  (parole  per  voi  altri) 
e'  è  pur  tanto  da  accendere  alla  prima  occasione 
propizia  d'  una  buona  infornata  di  deputati  cleri- 
cali e  d'  un  momento  di  resipiscenza  religiosa,  da 
accendere  chi  sa  che  bellezza  di  roghi  qui  in 
piazza  San  Domenico  e  costà  in  piazza  Santa  Ma- 
ria Novella,  e  bruciar  teologicamente  e  costitu- 
zionalmente voi,  se  non  mettete  giudizio,  e  me, 
che  probabilmente  non  lo  metterò. 

Per  intanto  voi  avete  costà  in  Firenze  un  mi- 
nistro, un  ministro  proprio  del  Diritto,  e  il  suo 
positivista  segretario,  che  imposero  T  obbligo  della 
dottrina  cristiana  a  tutte  le  scuole  elementari.  Per 
intanto  voi  avete  costà  in  Firenze,  e  sempre  nella 
veneranda  badia  del  conte  Ugo,  ove  il  ministero 
dell'istruzione  risiede  tra  due  chiese,  voi  avete 
degF  impiegati  cosi  detti  superiori  che  ai  filosofi 
hegeliani  i  quali  vanno  a  far  loro  visita  im- 
pongono il  rispetto  della  religione  cattolica.  Per 
intanto  voi  avete  costà  in  Firenze,  e  sempre  nella 
veneranda  badia,  persone  le  quali  nelle  conferenze 
magistrali  sonosi  studiate  di  mandar  persuasi  i 
professori  liceali  di  filosofia  che  nell'  insegnamento 
filosofico  il  mistero  almeno  della  trinità  e  quelli 
della    incarnazione  e  della    redenzione  (e  perché 


POLEMICHE  SATANICHE.  I05 

non  anche  gli  altri?)  bisognava  pure  ammetterli 
e  sostenerli.  Per  intanto  voi  avete  costà  in  Fi- 
renze la  semi-officiale  filosofia  ortodossa  del  si- 
gnor Augusto  Conti,  la  quale  sotto  forma  di  ri^ 
stretti  eleganti  a  pochi  soldi  vola,  svolazza  e  si 
volatilizza  nei  cervelli  giovanili  per  le  scuole  ita- 
liane. Per  intanto,  voi  morbidi  scettici,  voi  ra- 
zionalisti annacquati,  e  costà  in  Firenze  e  da  per 
tutto,  seguitate  ad  inchinarvi  all'  opera  letteraria 
di  Alessandro  Manzoni,  che  (dicasi  con  rispetto 
air  ingegno  dell'  uomo,  ma  francamente  e  satani- 
carnenie)  che  rinfiancando  il  cattolicismo  e  pro- 
movendo il  neoguelfismo  ha  tanto  nociuto  all'  Ita- 
lia. Ed  è  dolce  cosa  a  vedere  come  cotesti  uomini 
letterati  che  elessero  la  parte  migliore,  arrabat- 
tandosi intorno  alla  fama  del  vecchio  illustre  mi- 
lanese, abbiano  preso  argomento  dall' accettarne 
le  teoriche  su  la  lingua  per  fare  lor  coloniette  di 
morale  cattolica  e  di  dolciume  letterario  in  di- 
verse contrade  d'Itaha:  è  dolce  cosa  a  vedere 
una  gioventù  squarquoia  e  slombata  agitarsi  tutta 
in  solluchero  all'idea  d'introdurre  i  Promessi 
Sposi  nelle  scuole  e  di  proporli  come  unico  e 
sommo  esempio  di  prosa  alla  nazione.  Oh  Boc- 
caccio, oh  Machiavelli,  primi  razionalisti  e  realisti 
italiani!  O  scettici  che  andate  in  visibilio  ai  mi- 
racoli raccontati  da  fra'  Caldino  quando  va  dalle 
eommari  alla  cerca:  o  razionalisti  che  incurvate 
il  capo  alla  benedizione  di  padre  Cristoforo:  Dio 
sia    con   voi.    Voi    avete  bisogno  d' un  guanciale 


Io6  POLEMICHE  SATANICHE. 

ove  riposare  V  anìmuccia  trafelata;  ma  cotesta  non 
è  via  per  eui  si  approdi  a  libertà.  E  intanto,  co- 
stà in  Firenze  ed  altrove,  dove  la  buona  scuola  la- 
vora, avete  mitriate  nuovo  poeta  d' Italia  il  signor 
Giacomo  Zanella,  che  della  scienza  si  fabbrica 
scale  per  1'  assoluto  e  che  facendo  un  inchino  alla 
ragione  battezza  T  eleganza  pagana  di  Virgilio  e 
Catullo  nelle  pilette  delle  chiese  di  Maria.  O  buona 
e  pietosa  scuola,  tu  hai  sollevato  colle  tue  pure 
mani  i  pesciolini  che  fuor  delle  onde  mistiche  del 
Giordano  boccheggiavano  su  le  arene  del  dubbio, 
e  gli  hai  restituiti  nelle  grandi  acque  dell'  ideale 
del  Manzoni  e  nelle  chiare  fresche  e  dolci  acque 
del  signor  Zanella:  oh,  buona  e   pietosa  scuola I 

E  in  più  spirabii  aere 
Pietosa  il  trasportò! 

Ma  intanto  Kappa  dice  che  1'  assoluto  non  im- 
pronta più  la  letteratura;  ed  egli  sta  osservando 
il  divenire  del  nidla. 

A  questi  ultimi  giorni  il  re  di  Prussia,  all'  oc- 
casione che  i  ministri  della  sua  confessione  gli 
erano  intorno  per  ragione  di  complimenti,  ri- 
volse loro  la  parola  più  seria  del  consueto,  ed 
evangelizzò.  Si,  il  re  del  diritto  divino,  che  co- 
minciò a  costruire  la  gran  patria  alemanna  co  'I 
diritto  di  conquista,  evangehzzò  :  come  troppi  fos- 
sero gli  assalti  che  la  chiesa  dei  fedeli  soffriva: 
come  bisognasse  pur  credere  a  ogni  modo  che  il 
messia  è  proprio  e  legittimo  figliuolo    di  Dio  pa- 


POLEMICHE   SATANICHE.  IO7 

dre  :  come  il  credere  altrimenti  fosse  mala  cosa, 
e  a  lui;  oltre  ogni  dire,  spiacente.  Ora  i  filosofi 
di  Berlino,  buona  e  cappata  gente  se  altra  ve 
n'ha,  sono  tanti  anni  oramai  che  stanno  osser- 
vando, come  per  parte  sua  fa  Kappa.  E  quante 
idee  intanto  han  sollevato!  acute  ed  eminenti  di 
certo,  ma,  a  dir  vero,  un  cotal  po'  vaporose,  come 
a  punto  le  cime  dei  loro  abeti.  Ma  acute  ed  emi- 
nenti, e  nuli'  affatto  vaporose,  e  tutt'  affatto  soli- 
damente metalliche,  sono  anche  le  punte  degli 
^    elmi  dei  corazzieri  del  re  teologo. 

Vili. 

Ultimamente  Kappa  dice  che  io,  pur  cercando 
d' intonare  un  inno  di  rivolta  contro  la  Chiesa, 
le  rendo  invece  omaggio,  perché  non  ho  fatto 
altro  che  vestire  il  demonio  con  la  luce  divina 
dell'  angelo  celeste,  e  che  il  prete  di  Roma 
mutando  il  nome  di  Satana  in  quel  di  Geova, 
potrebbe  dell'  inno  mio  fare  un  cantico  orto- 
dosso. 

Si  provi  pure  il  prete  di  Roma,  e  canti,  se 
vuole,  la  Venere  anadiomène  e  il  bello  e  candido 
Adone,  e  canti  la  cupa  congiura  del  medio  evo 
e  r  ardita  riscossa  del  Rinascimento  e  Martin 
I^utero,  e  la  scienza  e  la  macchina  del  vapore. 
Contento  lui,  contenti  tutti,  anche  Kappa.  Il  quale, 
se  prima  di  scrivere  avesse  riletto,  sarebbesi  cer- 
tificato che  il  mio  Satana  non  ha  di  angelo  nulla. 


ro8  POLEMICHE  SATANICHE. 

lo  con  gii  angeli  non  me  la  dico  :  gli  lascio  stare 
a  mezz'  aria,  tra  cielo  e  terra,  in  compagnia  dei 
passerotti  e  degli  scrittori  vaporosi. 

Il  mio  Satana  è  piuttosto  una  specie  di  ebreo 
errante,  che  per  panteistica  trasformazione  passa 
di  fenomeno  in  fenomeno,  di  mito  in  mito,  d'  uomo 
in  uomo.  E  cosi  segue  da  molti  secoli.  Se  una 
forma  propria  volessi  dargli,  lo  rappresenterei 
giovine  di  verde  e  immortai  gioventù,  come  gli 
dèi  della  Grecia,  ma  severo  e  mesto  ad  un  tempo 
nella  sua  raggiante  bellezza.  Con  la  spada  nel- 
r  una  mano  e  nelF  altra  una  fiaccola  egli  sali- 
rebbe di  monte  in  monte,  guardando  all'  alto. 
Excelsior  è  il  suo  motto,  come  quel  dell'  ignoto 
peregrino  americano  del  Longfellow.  E  nella  ima- 
ginazione mia  egli  non  può  sostare  che  su  la 
cupola  di  Michelangelo,  in  vetta  al  San  Pietro. 
Quando  egli  sarà  colassù,  noi  suoi  fedeli  sotter- 
reremo finalmente  Geova.  Perocché  cotesto  vec- 
chietto dio,  che  che  ne  paia  a  Kappa,  è  vivace: 
altri  si  è  affaticato  finora  a  seppellirlo,  ed  egli  fa 
mostra  di  rassegnarsi;  ma  ad  un  tratto  scover- 
chia la  tomba,  e  salta  fuori,  e  va  girondolone  pe'l 
mondo,  sprizzando  di  tra  i  buchi  del  suo  lacero 
mantelluccio  ebreo  qualche  raggio  crepuscolare 
che  abbaglia  e  accieca  gì'  incauti.  Ma  noi  lo  sot- 
terreremo profondo,  più  profondo  che  i  cretesi 
non  facesser  con  Giove;  perocché  gli  accataste- 
remo a  dosso  la  grave  mora  del  cattolicismo  ro- 
mano. Questo  è  r  officio  degl'  italiani.  Allora,  se- 


POLEMICHE  SATANICHE.  JD9 

polto  r  antico  avversario^  Satana  si  dileguerà 
anch*  egli  nei  crepuscoli  del  vespero,  e  spunterà 
il  nuovo  giorno.  Per  adesso, 

Salute,  o  Satana, 
o  ribellione, 
o  forza  vindice 
della  ragione. 


Per  chi  fosse  curioso  di  tutta  tutta  la  polemica  intorno  al  Sa- 
tana,  ecco  anche  due  note,  che  le  attengono,  dalla  edizione 
fiorentina  delle   Poesie   di    G.   C,  Barbèra,  1871. 


I. 


Questo  inno  a  Satana,  ripubblicato  dall' ani- 
moso e  ingegnoso  direttore  del  Popolo  di  Bolo- 
gna, E.  Bordoni,  Y  8  dicembre  1869  che  si  apriva 
il  Concilio  ecumenico,  spiacque  forte  all'  amico 
mio  Quirico  Filopanti;  e  me  ne  rimproverò,  e  lo 
chiamò  ricisamente  un'  "  orgia  intellettuale  „.  Non 
ci  voleva  altro:  tutti,  per  qualche  giorno,  si  occu- 
parono de'  fatti  miei  :  i  democratici  politici  sbo- 
fonchiarono, i  filosofi  compassionarono,  i  clericali 
mi  paragonarono  al  Troppmann  e  nei  giornali 
e  per  lettere  più  o  meno  anonime  mi  promisero 
l'inferno  senz'altro:  fino  il  bordello  spalancò 
tutte  le  sue  camere  per  dirmi  —  Fatti  in  là,  tu 
se'  indecente  —,  e  la  fogna  mi  sbuffo  in  viso  una 
tanfata  d' indignazione.  Nelle  risposte  al  Filopanti 


no  POLEMICHE    SATANICHE. 

e  al  critico  del  Diritto  io  credo  di  aver  mostrato 
la  ragionevolezza,  la  moralità,  la  opportunità 
de*  miei  intendimenti,  e  a  quelle  rimando  chi  non 
mi  vuol  male. 

Qui,  poiché  ripetermi  non  voglio,  chiedo  li- 
cenza a  un  amico  mio  di  riportare  la  interpreta- 
zione eh'  ei  fece  del  Satana  nel  primo  numero 
dell'Ateneo  italiano  (7  gennaio  1866)  quando 
esso  Satana,  dato  in  luce  la  prima  volta  nel  no- 
vembre del  1865  in  Pistoia  con  la  data  d' Italia 
anno  mmdcxviii  dalla  fondazione  di  Roma  e  co  '1 
nome,  che  allora  presi  per  la  prima  volta,  di 
Enotrio  Romano,  cresceva 

Pur  all'ombra  di  fama  occulta  e  bruna. 

<  Questa  non  è  certo  poesia  da  santi,  ma  da  peccatori;  pec- 
catori che  non  s' involano  ai  consorti  nelle  fitte  selve,  né  le 
proprie  virtù  appiattano,  che  altri  non  ne  goda  o  non  le 
tenti;  che  delle  umane  allegrie,  degli  umani  conforti,  non  si 
vergognano;  e  delle  vie  aperte  non  se  ne  chiudono  nessuna. 
Non  laude,  ma  inno  materiale.  Enotrio  canta,  dimentico  delle 
maledizioni  che  dà  il  catechismo  al  mondo,  alla  carne,  al 
demonio. 

«  L'ascetismo  perde  i  difensori  e  le  vittime:  l'uomo  non 
va  gingillando  tra  le  aspirazioni,  le  inspirazioni,  le  espiazioni 
de' mistici.  I  diritti  rispetta,  cerca  e  vuole  il  bene;  ma  l'amore 
alla  donna  non  gli  pare  peccato,  né  i  sollazzi  festevoli  de'be- 
vitòri.  Ora  in  quegli  occhi  ardenti  e  ne'  scintillanti  vasi  e'  è 
Satana.  —  Alle  gioie  della  terra  guardavano  i  riti  degli  Ariani, 
poi  da' riti  semitici  o  mascherati  o  scacciati;  ma  il  popolo  non 
li  dimenticò,  e  alle  segrete  virtù  della  natura  durò  lungamente 
a  chiedere  i  prodigi  degli  stregoni,  suoi  sacerdoti,  e  salute  e 
profezie.  Ora  il  maestro  è   Satana.  —   Alle   gioie  della   terra 


POLEMICHE  SATANICHE.  Ili 

ubriachi  di  paradiso,  si  tolgono  gli  anacoreti:  ma  natura 
tarpate  le  ali,  meno  agile  al  volo,  salta  loro  addosso.  I  canti, 
fuori  da  quelle  celle  non  empii,  coi  fiori  della  poesia  vergine 
colle  gesta  dei  forti,  rifrugano  nelle  assopite  coscienze  e  le 
avvampano.  Ora,  o  conducano  alle  fantasie  macerati  cadaveri 
o  imaginette  di  femmine  o  trionfi  dì  soldati,  que'  canti  escono 
dalla  bocca  di  Satana.  —  Di  sotto  al  fumo  de' bruciati,  veg- 
gonsi  frati  rifarsi  uomini,  innamorati  di  gloria  civile,  di  nuovi 
teoremi,  di  nuovi  dorami:  cocolle  di  domenicani  e  di  agostiniani 
cadono  a  terra:  s'agita  l'ingegno;  slegato  per  poco  tempo,  poi 
da  ogni  setta  che  invecchia  rincatenato;  ma  nelle  giovani 
scuole  che  ne  rampollano  sempre  rinnovellato  con  forza.  —  Ora 
è  una  tentatrice,  un  demonio  anche  la  libertà:  lo  svolgimento 
delle  umane  attività,  onde  ci  cresce  insieme  il  pane  e  il  sorriso, 
la  ricchezza  e  l' onore,  non  è  che  Satana,  Ma  Satana  che  non 
china  il  capo  dinanzi  alle  imprecazioni  degli  ipocriti;  ma  glo- 
rioso, a'  sereni  aspetti  di  chi  applaude.  Cosi  canta  Enotrio,  e 
sopra  al  carro  satanico  guida  in  trionfo  il  suo  iddio... 

Quest'  inno  sgorga  a  due  fonti,  e,  presto  congiunte,  placide 
ne  scendono  le  correnti:  i  beni  della  vita  e  l'ingegno  ribelle 
alla  servitù.  Ma  e'  è  altra  acqua  che  a  forza  vi  entra  e  più  da 
alto  precipita,  più  rapidamente,  e  con  fremito  e  rigoglio  vi 
mescola  le  sue  onde;  strepito,  non  armonia.  —  Il  Tentatore, 
che  pungendoli  ridona  al  mondo  gli  cantontiinoruineni  de' chio- 
stri e  delle  selve,  e  alle  scienze  le  vigliacche  pecore  della  tra- 
dizione, non  è 

dell'essere 
Principio  immenso. 
Materia  e  spirito- 
Ragione  e  senso. 

Altri  inni  voleva  l'unità  panteistica. 

Alla  quale  ultima  osservazione  deir  amico  mio 
altre  se  ne  potrebbero  aggiungere,  specialmente 
circa  lo  svolgimento    lirico  e    la  forma   di  questa 


112  .POLEMICHE    SATANICHE. 

poesia,  che  non  è/  come  alcuni  miei  benevoli  vo- 
gliono credere,  gran  cosa.  Ma  ora  sono  in  via 
di  difendermi;  e  per  ciò  vorrei  mi  fosse  lecito, 
quanto  agli  intendimenti  miei,  ripetere  quello  che 
Arrigo  Heine  diceva  di  sé:  "  Io  non  appartengo 
ai    materialisti  i  quali    corporizzano  lo  spirito;  io 

rendo  anzi  lo  spirito  ai  corpi,  li  rispiritualizzo 

Io  non  appartengo  agli  ateisti  :  essi  negano,  io 
affermo.  „  , 

Con  tutto  ciò,  e  per  quante  dichiarazioni  io 
faccia,  so  bene  che  certe  censure  ingenue  (dico 
cosi  per  mo' di  dire)  non  le  potrò  evitar  mai: 
come  quella  d'  uno  scrittore  dell'  Italia  Centrale 
(  credo  )  di  Reggio,  il  quale  del  mio  affermare  che 
il  benessere  la  felicità  la  bellezza  sono  cose  al- 
tamente umane  e  non  bestemmiabili  con  l'inci- 
viltà dell'  ascetismo  dava  queste  ragioni:  che  in 
fatti  io  sono  un  buontempone,  che  viaggio  su  le 
strade  ferrate  in  prima  classe  e  che  mi  piacciono 
le  violette',  quelle,  s' intende,  alla  Dumas.  Io  mi 
imagino  che  quello  scrittore  sia  giovine,  e  gli 
dico:  Voi  potete  non  intendere  o  volere  non  in- 
tendere gì'  intendimenti  miei  :  ma,  quando  pre- 
tendete illustrare  lo  scritto  con  la  vita,  cotesta 
vita  dovete  conoscerla.  Sapete  voi  che  cosa  po- 
trebbe essere  quel  che  ora  avete  fatto?  Per  ora  è 
una  leggerezza.  —  A  un  altro  signore  debbo  pur 
dire  una  parola:  a  un  altro  signore,  già  afifer- 
mantesi  amico  mio  e  al  quale  non  so  di  essere 
-stato  mai  nemico  io.  Egli  mi  rimproverò  la  "  re- 


POLEMICHE  SATANICHE.  II3 

siiiccia  satanica  rubata  a  un  Michelet  „  ;  e  mi  par 
che  aggiungesse  "  a  un  Michelet,  dico  „  con  un 
punto  ammirativo.  Ho  detto  mi  pare ^  perocché  egli 
tratta  cosi  d' alto  in  basso  Giulio  Michelet,  1'  au- 
tore della  Storia  di  Francia,  in  uno  scrittarello 
facondo  su  un  telone  dipinto  pe  '1  teatro  del  Cairo, 
scrittarello  dedicato  all'Altezza  reale  del  Kedive; 
ed  è  cosi  picciol  fascicoluccio  che  mi  andò  smar- 
rito tra  le  carte.  Povera  Italia!  Del  resto,  ch'io 
abbia  attinto  dal  Michelet,  lo  dissero  anche  due 
benevoli  miei,  Adolfo  Borgognoni  e  Luigi  Mo- 
rando Certo:  la  lettura  delle  opere  del  Michelet, 
e  di  quelle,  aggiungo  io,  confessandomi,  del 
Heine,  del  Quinet,  del  Proudhon,  hanno  confe- 
rito al  mio  Satana.  Qual  meravigUa! 


IL 


In  que'  giorni  che  alcuni  fogli  italiani  fecero 
un  po' di  chiasso  dell'inno  a  Satana,  l'Unità 
Cattolica  cavò  fuora  da  un  libretto  di  mie  rime, 
impresso  del  1857  in  San  Miniato,  una  lauda 
spirituale  su  la  processione  del  Corpus  Domini, 
per  istituire  alcuni  confronti  tra  il  Giosuè  Car- 
ducci del  '57,  quando  Pio  ix  comandava  a  Bo- 
logna e  il  Granduca  di  Toscana  a  San  Miniato 
e  correa  l' andazzo  della  religione,  e  il  Giosuè 
Carducci  del  '69  e  '70  nell'  andazzo  dell'  empietà, 
comandando  Lanza  a  Firenze  e  Bardessono  a 
Bologna. 

Carducci.  4.  8 


114  POLEMICHE  SATANICHE. 

Veda  bene  la  Unità  Cattolica:  ella  può  dire 
quel  che  vuole,  ma  il  commendator  Lanza  e  il 
conte  Bardessono  sono  cosi  innocenti  dell*  empietà 
mia,  come  è  vero  che  Leopoldo  ii  di  Toscana 
avrà  certamente  molti  meriti  appo  Dio,  salvo 
quello  di  avermi  con  la  sua  verga  ritenuto  entro  il 
branco  delle  pecorelle  bianche.  Se  lo  scrittore  del- 
l' U  n  i  t  à  C  a  1 1  o  1  i  e  a  non  si  fosse  fermato  alla  prima 
stazione  o  alla  prima  osteria,  vo'  dire  alla  prima 
indicazione  d' alcuno  de'  suoi  pii  corrispondenti 
dì  Toscana,  se  egli  avesse  avuto  in  mano  e  sfo- 
gliato il  libretto,  avrebbe  trovato  sùbito  alla  pa- 
gina sette  r  orribile  verso 

Il  secoletto  vii  che  cristianeggia, 

non  voluto  pubblicare  dallo  stampatore  senza  un 
calmante  di  nota,  e  che  ciò  non  di  meno  fece  al- 
lora scandalo  anche  ^  certi  cui  oggi  apparisce 
superstizioso  fino  il  culto  della  dea  Ragione.  Se 
egli  avesse  chiesto  notizia  di  me  a  chi  meglio 
mi  conosce  anche  tra'  suoi  amici,  avrebbe  saputo 
come  io  tanto  seguitavo  l' andazzo  della  poesia 
religiosa  allora  di  moda,  che  del  '55,  essendosi 
nuovamente  scoperto  in  Pisa  non  so  che  santo 
o  beato,  io  ragazzo  parodiavo  gli  Inni  sacri  cosi  : 

Oggimai  che  ritornati 
Son  di  moda  e  stinchi  ed  ossa 
E  né  meno  gì'  impiccati 
Son  sicuri  nella  fossa, 
Anche  a  voi  la  quiete  spiace, 
Fra' Giovanni  della  Pace?.... 


POLEMICHE   SATANICHE.  II5 

Gloria  a  Cristo  ritornato 
Tra  i  bagagli  di  Radeschi 
Su  l'altare  appuntellato 
Dalle  picche  de' tedeschi: 
Converti  la  baionetta 
Questa  terra  maledetta. 

Questa  terra,  che  del  nostro 
Sangue  e  pianto  è  molle  ancora, 
Brontolando  un  paternostro 
Su  zappiamo  alla  buon'ora 
Per  trovare  ossa  di  santi 
E  di  frati  zoccolanti.... 


Come  va  dunque  il  negozio  della  lauda  su  '1 
Corpus  Domini  e  dell'  ode  per  la  beata  Diana 
Giuntini?  Ecco  qui.  Passai  V  anno  1857  tra  Santa 
Maria  a  monte  e  San  Miniato;  e  sapendomi  pizzi- 
car di  poeta,  i  festaiuoli  di  que' paesi  due  volte 
ricorsero  a  me  per  il  sonetto.  Io  allora  ero  tutto 
in  Orazio  e  nei  trecentisti  (Frigida  pugnabant 
calidis,  humentia  siccis);  e  mi  saltò  in  capo  di 
mostrare  che  si  potea  fare  poesia  religiosa  tra 
pagana  e  cristiana  e  anche  cristiana  pura  ma  non 
manzoniana,  e  di  provare  in  fine  che  la  fede  nella 
forma  non  ci  entrava  e  che  pur  senza  fede  si 
potevano  rifare  le  forme  della  fede  del  beato  tre- 
cento: era  come  una  scommessa.  Cosi  per  una 
festa  di  Santa  Maria  a  monte,  feci  quest'  ode  alla 
beata  Diana  in  stile  oraziano,  e  indi  a  due  mesi  per 
altra  festa  in  Castelfranco  quella  lauda  spirituale 
nello    stile    del    secolo    decimoquarto    e  decimo- 


Il6  POLEMICHE  SATANICHE. 

quintO;  alla  quale,  per  indizio  del  mio  intendi- 
mento, inscrissi  due  versi  del  Casa, 

E  con  lo  stil  ch'ai  buon  tempi  fioria 
Poco  da  terra  mi  sollevo  ed  ergo. 

Tanto  è  vero,  che  fin  d'  allora  Napoleone  Ciotti, 
in  un  giudizio  molto  savio  ed  onesto  su  le  mie 
rime  stampato  nello  Spettatore,  mi  rimproverò 
tale  scetticismo  di  forma  pe  "1  quale  da  Febo 
Apolline  passavo  al  Corpus  Domini.  Aveva  ra- 
gione; né  io  poi  negli  anni  seri  ho  più  commessi 
di  questi  sacrilègi  retorici.  Del  resto,  si  persuada 
la  Unità  Cattolica:  pur  troppo  fin  da' bei  tempi 
di  Leopoldo  ii  io  era  tra'  capretti  neri,  e  non 
fiai  mai  né  pure  un  micolin  giobertiano.  Altri  poi 
da  cotesti  confi-onti  della  Unità  Cattolica  e  dal 
sentir  ricordata  certa  grammatica  italiana  del- 
l' abate  Facondo  Carducci  ebbe  pur  dedotto  che 
anch'  io  un  tempo  mi  sia  trascinato  tra  le  gambe 
un  po'  di  sottana  nera.  Oh  no,  né  scrissi  gram- 
matiche né  lessi  il  breviario  né  portai  tonaca  mai» 


LEVIA  GRAVIA 


Prefazione  ai   Levia   Gravia   di  G.  C. 

Bologna,  Zanichelli,  1881; 

e  in   Confessioni   e   Battaglie  diG.  C,  Serie  2»s 

Roma,  Sommaruga,  1883. 


e'  Levia  Gravi  a,  che  a  richie- 
sta deir  editore  signor  Nicola  Za- 
Tiichelli  ho  rivisto  e  riordinato,  il 
titolo  non  cuopre  più  quella  merce 
un  po' mista  che  all'ombra  sua  navigava  e  naviga 
nell'edizione  pistoiese  del  1868  e  in  quelle  poi 
del  Barbèra,  ma  raccoglie  insieme  soli  i  versi 
composti  da  me  tra  il  1861  e  la  fine  del  '67. 


II. 


Breve  corso  di  tempo,  e  pure  grande  spazio 
della  vita  e  tutta  una  storia  a  chi  allora  era  gio- 
vine. Oh  anni  eternamente  memorabili,  quando 
r  Italia  invasata  dell'  uno  non  vedeva  nell'  aritme- 
tica più  né  il  dieci  né  lo  zero  !  Oh  età  travaglio- 
samente gloriosa  del  brigantaggio  e  delle  strade 
ferrate   meridionali,    delle    corporazioni    religiose 


I20  LEVIA    GRAVIA. 

soppresse  e  della  banca  sarda  levata  a  parte  dello 
stato!  Oh  mesi  eroici  di  Roma  o  morte,  quando 
un  mio  amico  allora  moderato  urlava  mostro  al 
generale  Garibaldi  e  lo  rendeva  in  colpa  del 
non  essere  stato  ammazzato^  e  con  le  braccia 
tese  dimandava  a  tutte  le  colonne  dei  portici 
di  Bologna:  —  Ma  perché  non  lo  fucilano?  — 
Oh  stagioni  di  splendore,  quando  i  commenda- 
tori appariano  venerabili  come  una  gerarchia  di 
Eloimi,  e  i  petti  dei  droghieri  si  gonfiavano  sotto 
la  croce  de'  due  santi  cavallereschi  !  Quelli  che 
allora  li  bestemmiavano,  oggi  devono  conten- 
tarsi della  corona  d' Italia,  ordine  mmorimi  gen- 
tium,  meditato  dalla  vendetta  presaga  del  mar- 
chese Gualterio  (i  colpiti  nella  ragione,  super- 
bia umana,  sono  alle  volte  divini)  contro  le  orde 
minaccianti  dei  progressisti.  Oh  giorni  d'  epopea, 
quando  il  generale  Cialdini  cavalcando  dal  pa- 
lazzo Albergati  correva  la  città  per  sua  e  faceva 
scapitozzare  il  campanile  di  San  Michele  in  bosco, 
acciò  la  bandiera  tricolore  potesse  meglio  annun- 
ziar di  lassù  ai  venti  dell'  Adria  e  delle  Alpi  come 
sopra  quel  colle  di  longobarda  e  papale  memoria 
si  compiacesse  villeggiare  Sua  Eccellenza  vitto- 
riosa il  duca  di  Gaeta!  Chi  non  credeva  allora, 
o  chi  avrebbe  tollerato  non  si  credesse,  il  duca 
di  Gaeta  essere  il  primo  generale  d'Europa?  Mi 
ricordo  la  pietà  grande,  che,  al  rompere  della 
guerra  austriaca,  i  nostri  buoni  borghesi  teneri 
di  cuore  avevano  per  quei  poveri  prussiani.  For- 


LEVIA    GRAVIA.  121 

tuna  che  il  general  Cialdini,  spazzando  come  una 
procella  il  Veneto,  marcerà  su  Vienna!  A  Vienna, 
gridavano,  a  Vienna,  quando  il  generale  parti. 
E  a  memoria  eterna  di  quella  partenza  per  la 
vittoria,  il  Comune  di  Bologna  fé'  incidere  di  pa- 
role gloriose  una  lapide  da  murare  nel  palazzo 
Albergati.  Non  so  poi  se  fosse  murata  o  smurata. 


III. 


Intanto  su  dal  detrito  della  coltura  di  quindici 
anni  avanti,  che  marcito  a  pie  de'  vecchi  tronchi 
rifermentava  anch'  esso  in  quel  ribollimento  di 
tutta  la  materia  nazionale,  spampanavano  alle- 
gramente, sotto  gli  stelloni  delle  vecchie  albagie, 
con  la  vegetale  facilità  delle  debolezze,  i  roso- 
lacci della  nostra  vanità  letteraria. 

Protesto  che  io  non  voglio  dir  male  della  ge- 
nerazione che  fioriva  ancora  e  di  quella  che  venne 
su  intorno  al  '59.  Molto  esse  fecero  per  la  patria, 
molto,  co  '1  valore  splendidamente  addimostrato 
nelle  prove  delle  armi,  co  '1  consiglio  opportuna- 
mente audace  nei  rischi  della  politica,  con  gli 
animi  nobilmente  accesi  e  concordi  innanzi  al 
santo  ideale  d' Italia,  che  pareva  discendere  allora 
allora  dal  cielo  di  Dio,  tanto  era  bello,  e  invece 
albeggiava  da  tempo  su  le  tombe  dei  nostri  morti 
(sieno  benedetti  in  eterno)  e  dai  cuori  dei  grandi 
afflitti  che  ci  erano  maestri,  padri  e  fratelU.  Ma 
quelle   due   generazioni  furono  le  meno  estetiche 


122  LEVIA    GRAVI  A. 


forse  che  da  un  pezzo  il  bel  paese  avesse  pro- 
dotto. Dal  '45  in  poi  non  si  era  più  studiato^  né 
si  poteva  :  anzi,  tutto  che  avesse  avuto  apparenza 
di  studio  libero  e  indipendente  intorno  alle  ra- 
gioni e  alle  forme  dell'  arte  era  vituperato  ;  e  si 
capisce.  Ma  il  romanticismo  fantastico  del  '48 
doveva  pur  trasmutarsi  in  fatto  materiato:  la  ca- 
pelluta  cometa  estravagante  doveva  turbinando 
accentrarsi  e  rotondarsi  in  pianeta  glrantesi  con 
regolar  rotazione.  Quelle  forme  crepuscolari  di 
salci  piangenti,  che  erano  i  romantici,  semoventi 
all'  aure  delle  arpe  eolie  od  angeliche,  dovevano 
pur  diventare  uomini  e  uomini  ragionevoli;  e 
aveano,  poveretti,  tutte  le  voglie  di  rifarsi  della 
quaresima.  I  classicisti  e  gli  altri  della  lettera- 
tura civile  erano  nel  travaglio  digestivo  del  di- 
ventare parlamentari.  I  giobertiani,  le  teste  grosse 
allora  della  coltura  nazionale,  accomodavano  le 
filosofiche  sopracciglia  agli  occhiali  cavouriani,  e 
dal  bosco  della  facondia  mangiato  in  foglia  as- 
sorgevano al  bozzolo  della  pratica.  I  puristi  poi, 
dinanzi  all'  esercito  piemontese,  all'  alleanza  fran- 
cese, all'  unificazione  della  legislazione,  dell'  am- 
ministrazione, dell'  istruzione,  parevano  tanti  cani 
bastonati.  Per  fortuna,  di  tedeschi  allora  non  si 
parlava,  se  non  per  maledirli  (né  di  questo  ave- 
vamo tutti  i  torti);  per  maledirli,  o  per  disprez- 
zarli come  un  popolo  senza  letteratura,  con  una 
filosofia  trascendentale  e  con  una  critica  altret- 
tanto   trascendentale,    che   sciupava  i  testi    latini 


LEVIA   GRAVIA.  I23 

COSÌ  schietti  e  gustosi  nelle  edizioni  de'  preti. 
Trascendentalel  Rabbrividisco  ancora  se  tento  ri- 
sentire con  la  memoria  la  impressione  demoniaca 
di  quel  vocabolo  su  le  nostre  patriottiche  fibre. 

Avevamo  vinto  —  si  credeva,  facendo  inegual 
giudizio  della  virtù  nostra  —  con  e  mercé  la  for- 
tuna, r  astuzia,  la  Francia.  La  fortuna,  ubriaca- 
tici co  '1  buon  evento,  ci  andava  lusingando  e  am- 
mollendo con  la:  sicurezza  nell'  esaltamento  ner- 
voso delle  nostre  forze,  per  poi  delusi  abbatterci 
nella  sfiducia  e  nel  disprezzo  di  noi  stessi.  Di 
astuzia  ci  reputavamo  ancora  maestri  solenni;  e 
strizzandoci  V  occhio  gli  uni  verso  gli  altri  ci  am- 
miccavamo accennando  a  gesti,  che,  mentre  Na- 
poleone III  credeva  di  darla  a  bere  all'  ItaHa, 
r  Italia  la  dava  a  bere  a  Napoleone  in,  e  poi  Na- 
poleone III  e  r  Italia  d'  accordo  la  davano  a  bere 
air  Europa.  Cosi  le  anime  nostre,  che  dovevano 
rifiorire  fresche  nella  vita  nuova,  s' impiastric- 
ciavano sempre  più  nell'  attaccaticcio  della  falsità, 
vecchia  morchia  paesana,  machiavellismo  in  po- 
litica, gesuitismo  in  religione,  accademia  arcadica 
e  idealistica  in  letteratura.  Dinanzi  lo  spaventac- 
chio  della  Francia  marciavamo  barcollanti  tra  le 
logiche  contraddizioni  della  servilità  e  dell'  odio. 
Eravamo,  secondo  le  teoriche  giobertiane,  il  primo 
popolo  del  sistema  planetario;  per  altro,  dopo  i 
francesi,  e  ciò  contro  le  teoriche   giobertiane. 

E  facevamo,  intanto,  una  letteratura  pelasgica 


124  tEVIA   GRAVIA. 


IV. 


Il  romanzo  storico,  infatti,  vestito  da  guardia 
nazionale,  correva,  coli'  uzzolo  d'  un  vecchio  a  cui 
manca  il  meglio,  dietro  la  politica;  e  pretendeva 
esercitare  in  piazza  le  disgustose  funzioni  del  suo 
concubinaggio,  legalizzato  in  nome  dell'  unità  e 
della  libertà.  Il  teatro  italiano  risorgeva  da  tutte 
le  parti.  Noi  pochi,  facendo  delle  braccia  croce, 
gridavamo.  Grazia!  E  di  gran  cuore  confessa- 
vamo r  Italia  essere  la  più  drammatica  nazione 
del  mondo.  Non  firmammo  ieri  la  convenzione 
con  la  Francia?  e  il  marchese  Pepoli  non  è  li 
pronto  a  tagliarsi  la  mano  con  cui  la  firmò,  se 
ella  non  avesse  a  significare  la  imminente  entrata 
degl'italiani  in  Roma?  Inutile!  Non  c'era  caso  di 
passare  per  una  via  che  non  ci  cascasse  tra  capo 
e  collo  un  capolavoro  drammatico.  Il  leopardismo 
intisichito  allungava  le  sue  braccine  di  ragnatelo 
inflanellate  di  frasi  verso  il  manzonismo;  e  il 
manzonismo  idropico  traeva  di  gran  sospiri,  che 
parevano  tanti  Ei  fu,  verso  il  leopardismo;  e 
mescolavano  le  loro  acque.  E  il  verso  sciolto 
co'  vapori  isterici  del  romanticismo  e  la  strofe 
libera  con  le  emorroidi  classiche  ballonzolavano 
intorno.  La  critica  era  quale  esser  deve  tra  un  po- 
polo giovine  :  tutta  sentimento.  Ricordo  ancora  un 
viso  di...  Di  che  cosa  o  di  che  parte  del  corpo 
umano  o  bestiale  monsignor  Della  Casa  non  vuole 


LEVIA    GRAVI  A.  I25 

che  io  dica  in  italiano,  ma  Orazio  in  latino  lo 
dice:  podex  crudac  bovis.  Ricordo,  dunque,  an- 
cora, quel  viso.  Aveva  certi  occhiettacci  aflfogati 
dentro  una  grassa  di  giallo  sporco  colante  come 
strutto;  e  de' versi  giudicava  strisciando  la  destra 
gota  sbarbata  su  '1  libro  o  su  '1  manoscritto,  non 
senza  lasciarvi  i  segni:  e  poi  sgranava  quegli  oc- 
chiettacci di  sbieco  verso  i  travicelli,  e  arricciava 
il  niffolo,  e  fiutava;  e  grugniva:  'Un  ce  affetto^ 
glia.  Un  altro  —  che  Catullo  avrebbe  chiamato 
salaputiiim  disertum,  e  io,  se  il  reo  monsignore, 
che  pur  fu  scrittore  bellissimo  e  scrisse  il  Forno 
e  la  Formica,  non  me  lo  vietasse,  chiamerei 
benissimo  un  cazzerellino  tutto  voce  e  penne  — 
ma  la  voce  era  come  d'  un  coniglio  che  zighi  e 
le  penne  come  d'  un*  oca  cui  un  industre  paesano 
di  Castel  bolognese  abbia  alleggerito  del  bianco 
mantello  ed  ella  mostri  i  bordoni  —  quel  sala- 
puttum  disertum,  dico,  significava  sempre  la  sua 
approvazione  battendo  il  pugno  su  '1  tavoHno  e 
berciando:   —  Qui  c'è  del  fegato. 

Del  resto,  Vittorio  Emanuele  e  il  general  Ga- 
ribaldi facevano,  in  critica  e  in  estetica,  pove- 
retti !,  le  spese  di  tutto  e  per  tutti.  Un  professore 
a  punto,  di  estetica,  scopriva  raffigurato  il  capi- 
tano del  popolo  non  so  più  se  nell'  Aiace  o  in 
quale  de'  due  Edipi  di  Sofocle.  Beatrice  che  cosa 
significasse,  si  era  alla  fine  scoperto.  To',  l' Italia 
una!  O  non  si  presenta  a  Dante  nel  paradiso  ter- 
restre con  tanto  di  tre  colori  a  dosso  e  d' intorno? 


120  LEVIA   GRAVI  A. 

Un  professore  di  lettere  italiane  a  ogni  ricorsa 
di  quindici  giorni  terminava  la  lezione  con  un 
grande  abbracciamento  tra  Vittorio  Emanuele  e 
Dante.  Le  signore  battevano  furiosamente  le  mani. 
Quel  rincontro  tra  un  vivo  e  un  morto,  tra  quel 
re  fortemente  tarchiato  e  quel  poeta  rabbiosa- 
mente magro,  tra  il  naso  erto  e  i  mustacchi  del 
sabaudo  schiafifeggianti  Y  aria  con  biondo  orgoglio 
e  il  superbo  naso  spiovente  e  le  guance  sdegno- 
samente cascanti  dell'  etrusco,  tra  T  uniforme  del 
generale  piemontese  e  il  lucco  del  priore  fioren- 
tino, tra  il  kepi  (  non  usava  ancora  1'  elmo,  sotto 
cui  Vittorio  Emanuele  stava  cosi  male)  del  mi- 
litare monarca  e  il  cappuccio  del  repubblicano 
letterato;  quel  rincontro  di  quel  countacc  e  di 
queir  "  alma  sdegnosa  „  cosi  a  mezz'  aria,  nella 
region  dei  rondoni,  feriva  la  fantasia  delle  nostre 
signore;  la  quale,  come  tutti  sanno,  è  tanto  pura- 
mente estetica! 

Di  lingua  si  seguitava  a  parlare,  come  sempre: 
la  lingua  italiana  morirà,  e  gì'  italiani  saranno 
anche  li  a  contendere  se  ella  sia  mai  esistita.  Il 
toscanesimo  co'  suoi  solecismi  e  con  le  gentilezze 
infranciosate  faceva  strage  ne'  cuor  teneri  e  negli 
scritti  duri  dei  cittadini  del  nuovo  regno.  Mi  suit 
tuscann,  giurava  ogni  buon  valtellinese.  E  i  ve- 
neziani emigrati  e  i  fiorentini  esuli  nella  propria 
città  mescolavano  insieme  le  loro  pappe  frullate 
neir  odio  ai  piemontesi.  Pietro  Fanfani  si  leccava 
i  baffi.    E  quei    poveri  napolitani  e  siciliani  face- 


LEVIA   GRAVIA.  I27 

vano  capo  a  lui,  per  raccattare  a'  suoi  piedi  i 
minuzzoli  che  egli,  Epulone  e  Trimalcione  dei 
lacchezzi  e  dei  bocconcini  ghiotti,  spazzava  via 
di  quando  in  quando  colla  salvietta  delle  sue  eie»- 
ganze  dalla  imbandigione  del  bel  parlare.  La 
grammatica  andava  come  poteva,  come  i  cani  in 
chiesa:  peggio  per  lei,  se  ne  toccava  da  tutti. 
—  Eh  giuraddio  — ,  sacramentavano  i  manzoniani 
e  i  giustiani  della  regia  non  per  anche  allora  nelle 
apparenze  cointeressata,  —  noi  s'  è  fatta  V  Italia 
con  gli  spropositi  — . 

E  intanto  fabbriche  idropiche,  tisiche,  rachiti- 
che, le  più  brutte  che  la  terra  del  Panteon  e  della 
loggia  dell'  Orcagna  abbia  mai  sopportate,  ci  cre- 
scevano e  ne  si  premevano  intorno,  come  tanti 
ergastoli  della  fantasia,  come  tanti  stabilimenti 
penali  dell'  estetica.  E  un  popolo  di  statue,  ne- 
gl'  intermezzi  della  tassa  su  la  ricchezza  mobile 
e  del  corso  forzoso,  saltava  su  a  consolarci.  Oh 
dèi  del  Museo  vaticano  e  del  Nazionale  di  Na- 
poli! oh  santi  di  Donatello  e  di  Michelangiolo! 
che  statue!  Una  vera  tregenda  di  apparizioni 
scappate  via  dal  sogno  spaventoso  d'  un  gobbo 
coir  incubo.  Svolgevano  le  loro  sinuosità  e  fles- 
sibilità di  lucertole  in  mosse  da  pipistrelli  fino 
air  idealità  delle  gru  o  alla  gravità  serena  delle 
civette.  O  posavano  nella  semplicità  delle  linee, 
come  gruppi  di  gabbiani  fermi  in  cima  d' una 
scogliera,  ritti  su'  piedi,  co'  petti  levati,  con  le 
ali    calate    giù    lungo    le  gambe,  volgendo  i   bec- 


128  LEVIA    GRAVIA. 

chi  verso  V  occidente.  E  con  que*  musi,  quelle 
figure,  guardando  nel  vuoto,  dicevano  al  sole  an- 
noiato e  alle  stelle  che  ridevano  tra  loro:  Noi 
siamo  le  glorie  d' Italia. 

Ahi,  ahi  !  il  regno  d' Italia  segnava  in  tutto  e 
per  tutto  r  avvenimento  del  brutto.  Brutti  fino  i 
cappotti  e  berretti  de'  soldati,  brutto  la  stemma 
dello  stato,  brutti  i  fi-ancobolli.  C  era  da  pren- 
dere r  itterizia  del  brutto.  Certa  mattina,  in  va- 
pore, una  sfilata  di  colline  picene  su  '1  mare  (per- 
donatemi, o  antichi  dèi  della  patria)  mi  parvero 
tante  berrette  d' impiegati  che  si  levassero  allora 
da  letto.  E  giunto  al  Verbano  dimandai:  Che  è 
questa  sputacchiera? 

Tornavo  dal  centenario  di  Dante  in  Firenze. 
Avevo  notato  su  lo  sfilare  di  quelle  processioni, 
cosi  contente  di  sé  e  del  loro  bocio  e  del  fi-uscio 
delle  loro  bandiere,  gli  atteggiamenti  delle  grandi 
statue  che  dal  campanile  di  Giotto  al  palazzo 
della  signoria  popolano  di  gloria  e  di  bellezza 
il  nido  di  quella  democrazia  che  ralluminò  il 
mondo.  Le  barbute  facce  degli  apostoli  stavano 
dispettosamente  mute:  le  madonne  e  le  sante 
piegavano  le  teste  sotto  un  nimbo  di  tristezza  fa- 
tale, quasi  nel  presentimento  delle  sventure  e  ver- 
gogne vicine:  i  santi  battaglieri  si  contorcevano 
fremendo;  e  nella  calma  divina  di  san  Giorgio 
compresi  un  lampo  d' ira  e  come  un  atto  di  met- 
ter mano.  Non  potei  tenermi  dal  gridare  :  —  Giù, 
e  botte  da  orbi,  o  fratello!  —  Un  classico  di  ro- 


LEVIA    GRAVIA.  I29 

magnolo  che  m'  era  li  al  fianco  senti  soltanto  1'  ul- 
tima parola^  e  se  la  prese  per  un  saluto.  Mi  ab- 
bracciò tutto  rossO;  mi  sbatacchiò  contro  il  muro 
urlando  quanto  n'  aveva  in  gola  —  Viva  V  Italia^ 
il  poeta  divino  e  il  veltro  ghibellino  !  —  Non  pre- 
tendeva mica  il  brav' uomo  dì  far  versi:  ma  la 
poesia  di  quegli  anni  era  su  per  giù  tutta  cosi. 

E  pure  io  avea  seguitato  un  po'  di  tempo  a  far 
del  mio  meglio  per  ispingere  punzecchiando  il 
rossinante  del  mio  idealismo  lungo  la  via  sacra 
in  coda  ai  palafreni  impennacchiati  e  alle  gual- 
drappate  alfane,  dietro  gli  effluvi  trionfali.  Ma 
non  ci  fu  versi:  la  magra  bestia  pur  zoppicando 
rignava  e  traeva  calci  e  giocava  di  morsi;  scappò 
di  traverso  a  scorticarsi  per  le  siepi  e  a  brucare 
i  cardi.  Io  finalmente,  lasciata  lei  a'  suoi  cattivi 
gusti  e  le  bestie  giudiziose  a'  loro  trionfi,  riparai 
nella  solitudine  co'  miei  pensieri,  traendo  un  so- 
spiro lungo  e  largo  che  parve  uno  sbadiglio.  Non 
ne  potevo  pili.  E  pure  un  vii  facchinaggio  quello 
di  dovere  o  volere  andar  d'  accordo  co'  molti!  Al- 
lora anche  proposi  di  metter  giù  ogni  ambizione 
di  poeta  e  dare  i  miei  studi  e  tutta  1'  operosità 
dell'  ingegno  alla  storia  letteraria  e  alla  filologia. 
Il  proposito  era  savio,  e  fu  male  non  durarvi. 


V. 


Io  credo  fermamente  che  oggigiorno  in  Italia, 
a  chi    voglia    mantenersi    quel  po'  di  reputazione 

Carducci.  4.  9 


130  LEVIA    GRAVI  A. 

che  possa  essersi  fatta  o  come  uomo  di  studi  o 
come  persona  seria,  non  convenga,  prima  di  tutto, 
scrivere.  Che  se  uno  non  può  resistere  alla  pue- 
rile abitudine  di  sporcarsi  le  dita  d' inchiostro  co  '1 
pretesto  d' illuminare  o  divertire  il  mondo,  scriva, 
se  vuole,  de'  cattivi  romanzi  e  de'  pessimi  drammi, 
ma  versi,  no.  Che  se  l' infelice  è  da  vero  inva- 
sato dal  fanaticus  error  dei  versi,  se  per  conge- 
nito cretinismo  la  sua  animalità  s'  è  ostinata  a 
quel  noioso  giuoco  di  pazienza  che  è  1'  accasel- 
lare  un  dato  numero  di  parole  in  un  dato  spa- 
zio di  linea,  se  per  un  intellettuale  ballo  di  San 
Vito  egli  è  condannato  a  pensar  balzellone  con 
quei  saltellini  che  si  chiamano  strofe,  non  voglia 
dare  spettacolo  pubblico  di  sé,  oibò!  si  riserbi 
per  gli  amici  e  per  la  serva,  o  a  spaventare  e 
volgere  in  fuga  i  creditori.  Perché,  badino  bene 
i  giovani  educati,  far  versi  in  Italia  è  un'  abietta 
vocazione  e  un  mestiere  vigliacco. 

L' italiano,  contro  un'  opinione  assai  superfi- 
ciale, non  è  popolo  poetico,  o  almeno  non  è  più 
tale  da  un  pezzo,  o  al  più  non  ama  in  versi  che 
le  gale,  non  gusta  che  gli  spumoni,  non  sente 
che  r  istrionia.  Il  popolo  italiano  può  darsi  ab- 
bia genio  per  le  arti  plastiche,  forse  ha  della 
passione  per  la  musica.  Ma  innanzi  alla  poesia, 
innanzi  a  quest'  arte  disinteressata  di  delineare 
fantasmi  superiori  o  interiori  simmetricamente 
nella  parola  armonica  e  pura,  il  popolo  italiano, 
pratico,  positivo,  machiavellico,  che  pur  nelle  più 


LEVIA    GRAVIA.  I3I 

calde  espansioni  mira  con  mente  fredda  all'  utile 
e  godibile  immediatamente  e  in  materia,  rimane 
di  ghiaccio. 

E  per  il  poeta  egli  sente  tra  la  compassione 
annoiata  e  V  avversione  paurosa  la  quale  si  ha 
per  un  essere  che  esca  dalle  norme  e  forme  con- 
suete dell'umano  organamento:  ciò,  quando  lo  ri- 
spetta. Ma  le  più  volte  lo  considera  come  un  che 
di  mezzo  tra  il  buffone  delle  antiche  corti  e  il 
pazzo  melanconico  dei  romanzi  sentimentali;  e 
tiene  sé  stesso  troppo  educato  e  civile  si  che  possa 
divertirsi  con  un  buffone  e  con  un  caso  di  patolo- 
gia. In  altre  occasioni  l'idea  che  dell'individuo  ver- 
seggiatore si  fa  il  popolo  italiano  è  sempre  quella 
del  poeta  delle  compagnie  comiche  d' una  volta, 
o  de'  vecchi  cantastorie  che  una  volta  annoiavano 
di  lor  nasali  declamazioni  accompagnate  da  un 
infernale  segar  di  violino  le  piazze  i  ponti  ed  i 
porti  rallegrati  dal  sole.  E  se  l' individuo  verseg- 
giatore veste,  per  esempio,  decente,  il  popolo  ita- 
liano ha  un  istintivo  timore  che  quell'  abito  non 
sia  suo,  e  che  nell'  individuo  ben  vestito  si  sma- 
scheri a  un  tratto  il  pitocco  a  chiedergli  un  po'  di 
soldi  per  rinfrescarsi  la  gola  o  per  isdigiunarsi. 
Ora  i  suoi  soldi  il  popolo  italiano,  rincivilito 
com'  è,  li  vuol  serbare  per  gli  orbini  di  Bologna 
che  suonano  il  violino  meglio  certamente  dei  vecchi 
rapsodi,  o  pe'  piccoli  calabresi,  non  redenti  ahimè  ! 
dall'  abate  Zanella,  i  quali  almeno  strimpellano 
una  chitarra  vera  in  vece  di  una  metaforica  cetra. 


132  LEVIA    GRAVIA. 

Finalmente  il  popolo  italiano,  per  essere  giu- 
sti anche  con  lui,  che  in  somma  è  carne  della  mia 
carne  e  sangue  del  sangue  mio  (salvo  la  trasmis- 
sione), nel  fòro  della  sua  conscienza  sta  sempre 
onestamente  su  la  guardia,  per  non  essere  una 
bella  volta  aggredito  e  preso  pe  '1  collo  dalla  vera 
poesia.  Ei  non  vuol  compromettere  la  sua  serietà: 
la  sua  commozione  lacrimosa,  i  suoi  raggianti  en- 
tusiasmi, la  fatica  delle  mani  e  magari  de'  piedi 
plaudenti,  ei  la  serba  tutta  per  la  frase,  per  la 
frase,  amor  suo,  in  fin  di  periodo,  là  ne'  teatri, 
ne'camposanti,  nelle  accademie,  nei  banchetti,  nelle 
università,  in  parlamento.  Là,  là,  in  quel  polverio 
di  ammirazioni  con  la  tosse,  in  quella  baldoria 
di  sventolati  entusiasmi,  in  quel  tanfo  di  patriot- 
tismo e  di  vino,  di  virtù  e  di  muschio,  di  este- 
tica e  di  sudore,  di  critica  e  d'  olio  da  lumi,  in 
quel  mercato  di  carne,  di  viltà  e  di  ciarlatane- 
ria; là,  là,  siede  e  troneggia  il  vostro  giudice,  o 
fantastici  superbi  e  metafore  ambulanti,  che  vi 
credete  avere  uno  sgorgo  di  armonie  intime  pe- 
riodico, che  credete  veder  salire  dai  vostri  cervelli 
solitari  de' fantasmi  pensosi  come  tanti  spazzaca- 
mini o  geni  del  commendator  Monteverde.  Rin- 
graziate co  '1  cappello  in  mano,  miserabili,  se 
alcuno  di  que'  gentiluomini,  sentendovi  declinare 
poeti,  vi  domanda  graziosamente:  A  quando  1'  ac- 
cademia ? 

E  tutto  questo  è  il  men  male. 


LEVIA    GRAVIA.  I33 

VI. 

Nella  vita  pratica  e  nel  maneggio  delle  fac- 
cende, che  r  individuo  verseggiatore,  essendo  per 
disgrazia  un  bipede,  dee  aver  comune  con  gli 
altri  bipedi  civili  ma  non  verseggiatori,  lo  scia- 
gurato ha  da  essere  necessariamente  un....  Come 
s' ha  a  dire?  Minchione,  è  poco.  Aiutiamoci  an- 
che noi  con  le  frasi.  Una  specie  di  fanciuUone 
sempre  sviato  dietro  le  farfalle  e  a  rischio  sem- 
pre di  battere  il  naso  nelle  cantonate,  un  lièvito 
sciocco  da  essere  rimpastato  ad  arbitrio  del  primo 
furfante  che  voglia  metterci  dentro  del  sale,  un 
organino  da  caricare  in  certe  occasioni  per  so- 
nare a  conto  di  questo  o  di  quello  queste  o  quelle 
arie  secondo  si  monta  il  registro. 

Uscite  di  casa  dopo  ore  di  lavoro  che  una 
volta  si  sarebbe  detto  benedettino,  e  il  primo 
che  vi  capita  tra'  piedi  è  buono  di  salutarvi 
cosi:  "  Beato  lei,  che  almeno  si  diverte!  Dica  la 
verità,  quanti  sonetti  ha  sfornati  oggi?  „  E  chi 
vi  abborda  cosi  sarà  un  avvocatino,  che  non  ha 
altra  faccenda  se  non  dì  portare  a  spasso  tutto 
il  giorno  la  sua  chiacchiera  politica.  —  Andate 
per  un  affar  di  denaro....  Ah,  un  poeta  a  fir- 
mare una  cambiale!  Vi  lascio  immaginare  i 
commenti,  e  ripenso  al  commentatore,  che  indi 
a  pochi  mesi  faUi  non  da  vero  per  frode,  po- 
ver'  uomo! 


134  LEVIA   GRAVIA. 

Andate  a  rendere  testimonianza  in  un  processo; 
e  il  pubblico  ministero  non  manca  di  avvertire 
i  signori  giurati  che  non  vi  diano  retta.  "  V  illu- 
stre poeta  avvezzo  a  cogliere  fiori  nei  giardini 
delle  Muse....  „  e  via  e  via  con  quella  processione 
di  tropi  che  suole  accompagnare  il  santissimo  sa- 
cramento della  giustizia  nell'  eloquenza  dei  pub- 
blici ministeri.  E  dire  che  quel  severo  sacerdote 
di  Temi  è  uomo  che  rallegra  poi  la  conversazione 
con  amenissime  spiritose  invenzioni.  Raccontava 
per  esempio,  una  volta,  che,  in  non  so  qual  bat- 
taglia della  campagna  di  Russia,  suo  padre,  o, 
salvo  il  vero,  un  suo  prossimo  parente,  avendo- 
gli un  cosacco  con  una  sciabolata  taghato  via  un 
pezzo  di  cranio  e  colando  per  la  grossa  fessura 
il  cervello,  si  chinò  presto  presto,  raccattò  del  cer- 
vello che  gemea  da  un  altro  cranio  spaccato  di 
cosacco  per  terra,  lo  soppresso  dentro  il  cranio 
suo  e  lo  rimpastò  co '1  cervello  suo;  e  così  visse 
molti  anni.  Tra  il  sacerdote  di  Temi  e  me  fio- 
rista delle  Muse  chi  più....  poeta? 

Sarete  uomo  di  poche  parole  e  di  pochissime 
amicizie;  difficile  a  dar  la  mano,  difficilissimo  a 
dare  e  ricevere  il  tu;  avrete  dato  invece  prove 
convincentissime  di  possedere  certe  virtù  il  cui 
fermo  e  continuo  esercizio  Y  uomo  ha  anche  bi- 
sogno d' imparare  da  certi  quadrupedi,  di  essere 
cioè,  indipendente  come  un  gatto,  costante  come 
un  mulo,  filosofo  come  un  orso.  Ciò  non  impe- 
dirà   che  un    imbecille,    con    la   scusa    di  farvi  il 


LEVIA   GRAVIA.  I35 

bozzetto;  dopo  misuratevi  a  centimetri  le  mani  e 
i  piedi  (tali  atavismi  guantai  e  ciabattineschi^ 
come  anche  la  gran  perizia  di  parrucchieria,  at- 
testano il  legittimismo  democratico  di  molta  cri- 
tica odierna  italiana)  esca  poi  a  far  sapere  alle 
persone  che  voi  credete  ancora  all'  onestà  e  alla 
amicizia  (certa  marinatura  di  scetticismo  mostra 
r  uom  navigato  nella  distinzione,  come  dice  quella 
gente),  e  che  credete  amici  tutti  gli  uomini,  e 
onesti  tutti  gli  amici,  e  che  questi  vi  menano 
ubbriacato  di  parole  a  recere  altre  parole;  ma  che 
voi  in  fatti  amate  i  banchetti  dove  si  beve  bene, 
gli  amate  in  qualunque  occasione,  per  qualunque 
pretesto,  con  qualunque  partito;  e  che  voi  in  fondo 
non  siete  né  rosso  né  verde  né  bianco,  e  che  por- 
reste il  berretto,  o  non  so  che  altra  cosa,  ai  pie 
d' una  donna  che  vi  sorridesse;  e  simili  ciance, 
le  quali,  con  quest'aria  di  spirito  e  di  morale  che 
tira  oggi  in  Italia,  possono  anche  parere  cose  gen- 
tili e  onorifiche,  e  che  voi  dobbiate  ringraziarne 
queir  onesto  e  intelligente  signore. 

In  verità,  a  sentirmi  chiamare  poeta,  il  mio 
primo  moto  istintivo  (lo  tengano  a  mente  i  miei 
ammiratori)  è  di  rispondere  con  uno  schiaffo. 

Ma  torniamo  a  parlare  di  cose  allegre,  cioè  di 
pazienza:  della  pazienza  alla  quale  è  condannato 
chi  ha  da  scontare  peccati  di  poesia.  Ecco  qui 
anche  due  bozzetti. 

Notino  i  lettori:  io  non  fo  come  certo  arcade 
cattivo  soggetto,  il  quale  rovescia  il  brodo  di  la- 


136  LEVIA    GRAVIA. 

sagne  de'  suoi  versi  sciolti  su  chi  gli  ha  fatto  del 
bene,  e  poi  protesta  che  la  sua  ribaldaggine  è 
poesia  e  della  poesia  non  rende  conto:  io  di- 
chiaro anzi  che  i  miei  bozzetti,  fatti  e  da  fare, 
sono  tutti  dal  vero. 

Primo  bozzetto.  Al  ristoratore.  "  Ah  1'  autore 
del  Satana  !  Dopo  tanti  anni,  chi  1'  avrebbe  detto?, 
ti  trovo  famoso.  Sono  tornato,  sai,  or  è  due  mesi, 
dall'America:  e  sento  parlare  di  te  da  vero  con 
molto  favore.  Ne  ho  piacere.  Beato  te  che  in  fondo 
credi  sempre  a  qualche  cosa  !  Perché  nel  Satana, 
vedi,  c'è  dell'idealismo:  oh  se  ce  n'è!  Bisogna 
aver  passato  la  linea  anche  nella  vita,  per  tro- 
vare e  fare  il  realismo  vero.  Io  non  scrivo  versi; 
ma,  se  avessi  tempo,  vorrei,  e  forse  potrei,  essere 
il  Byron  della  seconda  metà  del  secolo,  un  Byron 
italiano  costituzionale.  Sentiresti!  Tutto  ho  cono- 
sciuto, tutto  ho  provato,  tutto  ho  sofferto.  Ho 
fatto  il  mercante  di  schiavi,  ho  avuto  un'  amante 
hegra,  ora  ho  una  bambina  mulatta:  essa  è  il  mio 
poema.  Mi  son  dato  al  commercio,  e  giro  per 
affari.  Potresti  farmi  una  raccomandazione  per  il 
prestito  di  Bologna?  Questi  sono  i  miei  inni  a 
Satana.  Io  rimo  in  cambiali.  Cameriere,  il  conto! 
Settantacinque  centesimi  per  una  costoletta?  Eh, 
tirate  alla  pelle  voialtri.  „ 

Altro  bozzetto.  Per  istrada,  il  giorno  dopo  pub- 
blicata qualche  poesia.  "  Mi  rallegro,  sai,  di  cuore. 
Eh,  una  volta  mi  divertivo  anch'  io  coi  versi;  e, 
non  fo  per  dire,  ma  in  secondo  anno  di  rettorica 


LEVIA    GRAVIA.  I37 

agli  Scolopi  ero  sempre  io  che  leggevo  all'  acca- 
demia di  san  Luigi  Gonzaga.  Il  metro  del  mio 
cuore  erano  i  quinari:  che  gusto  a  farli! 

Palma  del  Libano! 
Rosa  d'Eng-addi! 
Giglio  di  Gerico! 
Fior  di  Saron! 

La  Gilda,  vedi,  serba  ancora  tuttq  le  romanze 
che  io  composi  per  lei  quando  si  faceva  al- 
l'amore.  Ma  ora,  che  vuoi?  non  ho  più  il  capo 
ai  versi.  La  politica,  figlio  mio!  quanti  fiori  e  frutti 
annebbia  la  politica!  Fortunato  te  e  benedetta  la 
sorte  che  ti  ha  salvato  nei  sereni  campi  dell'  ideale! 
Del  resto,  e  di  nuovo,  mi  rallegro  di  cuore.  Gran 
bella  cosa  queir  ode  !  Peccato  per  altro  che  tu  ti 
ostini  in  cotesto  genere  !  Oh,  se  tu  volessi  tornare 
alle  dolci  memorie  della  gioventù,  alla  poesia 
dove  c'è  affetto!  Ti  ricordi? 

Va  per  la  selva  bruna 
Solingo  il  trovator, 
Domato  dal  rigor 
Della  fortuna.  » 

Costui  della   poesia  "  dove  e'  è  affetto  „,  alle 
nuove  elezioni  sarà  deputato  di  certo. 


VII. 


Tale  essendo  il  concetto  che  s'  ha  in  Italia  della 
poesia,  cioè  quello  d'  un  giuoco  di  conversazione 
un  po'  noioso,  che  bisogna  sopportare  per  tradi- 


138  LEVIA    GRAVIA. 

zione  e  che  tutti  sanno  fare^  specialmente  i  più 
imbecilli;  è  naturale  che  la  gente  a  modo  creda 
di  onorarvi  comandandovi  in  certi  casi  versi  del 
tal  genere  per  la  tal  ora,  come  in  certi  pranzi 
si  ordina  una  pietanza  al  trattore. 

Direttori  o  presidenti  di  scuole  normali,  di  so- 
cietà ginnastiche,  di  clubs  alpinisti,  avendo  biso- 
gno dell'  inno  per  le  grandi  occasioni,  ed  essen- 
doci ancora  l' uso  che  per  gli  inni  occorrano 
parole  in  rima,  vi  chiedono  di  far  loro  quel  ser- 
vizio, di  mettere  insieme  tante  sillabe  in  ar  o  in 
or,  o  meglio  in  on,  quante  bastino  per  la  musica. 
E  in  vano  voi  cercate  di  far  capire  a  quegli 
egregi  signori  che  non  credete  di  aver  fatto  mai 
azioni  da  lasciare  altrui  il  diritto  di  tenervi  cosi 
scioperato  da  scrivere  sur   un   tema   per  musica. 

Batte  un  terremoto,  viene  a  settentrione  o  a 
mezzogiorno  un  diluvio  d' acqua  o  di  fuoco,  manca 
la  pappa  agli  asili  infantili  o  ci  vogliono  nuovi 
giocattoli  per  i  bambocci  dei  giardini  froebeliani, 
e'  è  degli  artisti  da  illudere  e  de'  lampionai  del- 
l'opinione  pubblica  da  soccorrere?  Ed  ecco  una 
congiura  di  tre,  di  cinque,  anche  d'  uno,  a  orga- 
nizzare una  strenna,  un  album,  un  giornale  straor- 
dinario, un  numero  unico.  E  socialismo  borghese, 
è  questua  filantropica:  se  non  che  i  cappuccini 
non  vi  chiedono  T  elemosina  del  pensiero,  e  i  so- 
cialisti rischiano  d'  andare  in  prigione;  e  a  cappuc- 
cini e  a  socialisti  potete  rispondere,  adesso  o  al- 
meno per  adesso,  —  Non  ne  ho  —  o  —  Non  voglio 


LEVIA    GRAVIA. 


139 


esser  dei  vostri  — .  Ma  provatevi  un  po'  a  dire  a 
quegli  altri  —  Intendo  le  veglie  di  beneficenza: 
a  ballare  e  mangiare  in  sale  calde  e  illuminate 
e  fiorite  per  consolare  quelli  che  han  fame  e 
ft-eddo  al  buio  la  gente  ci  si  gode,  anche  pe  '1 
tacito  raffronto;  ma  ai  danni,  per  esempio,  d'una 
innondazione  di  fiumi  aggiungere  una  innonda- 
zione  di  noia  in  prosa  e  in  rima,  seccare  una 
parte  del  prossimo  per  il  problema  di  asciugar 
l'altra,  non  la  intendo:  —  provatevi,  dico,  a  ri- 
sponder cosi;  e  vedrete  grinte  e  reputazione  che 
vi  faranno. 

Capisco  che  è  il  sommo  della  ingratitudine. 
Come  ?  la  borghesia  vi  tollera,  la  borghesia  mo- 
stra sentire  il  bisogno  di  darsi  l' aria  alla  Luigi  xiv, 
di  promovere  la  poesia  nazionale  come  la  col- 
tura delle  barbabietole  e  la  pollicoltura;  e  voi 
non  vi  credete  in  obbligo  di  comporre  madrigali 
a  ogni  sua  voglia,  empire  gli  albi  di  tutte  le 
Maintenon  ministresse  in  ritiro,  di  tutte  le  Pom- 
padour  generalesse  in  attività,  di  tutte  le  La  Val- 
lière  figliuole  di  borghesi  zoppe  o  guerce  e  dan- 
nate strimpellatrici  di  pianoforti? 


Vili. 


Essendo  da  tutte  queste  ragioni  costretto  a 
riputare  quel  della  poesia  un  mestiere  molto  pe- 
ricoloso e  un  tantino  infamante,  avverto  i  troppi 
signori    che    mi  onorano  di  eleggermi  per  lettera 


140  LEVIA   GRAVIA. 

giudice  de*  loro  versi  editi  ed  inediti,  com'  io 
sono  sempre  per  il  no  a  priori.  Lo  avverto  qui, 
appunto  per  rispondere  a  tutti  in  generale,  per- 
ché rispondere  a  ciascuno  in  particolare  riusci- 
rebbe impossibile:  quando  anche  concedessi  otto 
ore  della  giornata  a  spogliare  le  loro  corrispon- 
denze e  leggere  i' versi,  e  altre  otto  a  vergare  i 
miei  autorevoli  giudizi  e  le  mie  savie  osserva- 
zioni, mi  mancherebbe  poi,  giacché  mangiare  e 
dormire  un  poco  bisogna,  il  tempo  di  provvedere 
alla  spesa  dei  francobolli. 

Riconosco  che  è  un  fiorito  indizio  della  cul- 
tura del  bel  paese  vedersi  arrivare  tutti  i  giorni 
some  di  versi,  non  pur  d' autori  liceali  del  se- 
cond'  anno,  ma  di  ginnasiali  della  terza,  e  di  me- 
dici e  di  avvocati  e  di  soldati  di  terra  e  mare, 
e  di  guardie  di  pubblica  sicurezza  e  di  guardie 
del  dazio  e  di  guardie  di  finanza  e  di  preti,  e 
d' intendenti  e  di  prefetti  e  di  deputati  e  mogli 
di  deputati,  e  di  giornalisti  e  di  banchieri  e  di 
professori  d' idroterapia  e  d'  assistenti  di  chimica 
e  di  cameriere.  Capisco  che  e'  è  ragione  di  con- 
fortarsi quando  un  liceale  di  second'anno  vi  spe- 
disce una  poesia  e  vi  annunzia  una  commedia, 
che  gliele  mandiate  a  inserire  nel  Fanfulla  della 
Domenica,  e  vi  scrive  e  riscrive  e  telegrafa  che 
vi  affrettiate,  perché  quella  pubblicazione  gli  può 
essere  un  titolo  per  passare  agli  esami  di  mate- 
matica. Ammetto  eh'  è  un  gran  piacere  a  sentire 
un  moccicone  dirvi  su  '1  muso,  che   per  ora  vuol 


LEVIA    GRAVIA.  I4I 

fare  all'  amore  con  una  delle  solite  sgualdrine,  e 
che  ad  amar  la  patria  ci  penserà  da  vecchio. 
Ammetto  che  e'  è  da  far  buon  sangue  a  sentirne 
un  altro  spifferarvi  di  queste  confessioni:  "  Ho 
diciassette  anni,  son  triste  triste,  non  ho  voglia  di 
far  nulla,  non  credo  in  nulla,  nulla  mi  piace  se 
non  forse  le  donnine,  ma  in  fondo  mi  annoio  di 
tutto  :  i  servitori  di  casa  mi  dicono  che  ci  ho  un 
talentone  (  e  allega  le  prove  )  :  che  ho  da  fare  ?  „ 
(Impiccatevi,  risposi  per  cartolina  sùbito,  quella 
volta).  Confesso  che  a  sentirmi  sparare  a  bru- 
ciapelo certe  dichiarazioni,  come  per  esempio: 
"  Voi  non  siete  solamente  il  maestro  de'  bolo- 
gnesi, siete  il  maestro  di  tutti  gli  italiani  „,  mi 
devo  mettere  le  mani  su  '1  cuore  per  raffrenare  le 
troppo  dilatate  palpitazioni:  non  mi  ci  manche- 
rebbe proprio  altro,  per  Giove  Statore! 

Sento,  capisco,  ammetto,  confesso  tutto  cote- 
sto; ma  dichiaro  e  protesto  che  un  giovane  che 
fa  versi  mi  desta  il  ribrezzo  e  la  nausea,  e,  se 
lo  confortassi  e  consigliassi,,  mi  parrebbe  d' in- 
correre in  un  reato  previsto  dal  codice  penale, 
il  reato  di  eccitamento  e  d'  aiuto  alla  corruzione. 
Del  resto,  case  di  tolleranza  e  giornali  letterari 
non  ne  manca  in  Italia. 


IX. 


Per  queste  e  per  molte  altre  ragioni  era  stato 
savio   consiglio    quello    da  me  preso  dopo  il  '6i, 


142  LEVIA    GRAVIA. 

lasciar  da  parte  i  versi  e  darmi  tutto  agli  studi 
filologici  e  di  storia  letteraria.  E  fu  male  non 
perdurarvi.  Ma  allora  almeno,  quando  i  vecchi 
amori  mi  ritentavano  e  tornavo  a  peccare,  un 
po' di  pudore  mi  restava:  peccavo  travestito  da 
Enotrio  Romano,  per  non  scemarmi  co'  versi  quel 
po'  di  credito  che  mi  poteva  dare  la  prosa. 

In  tali  disposizioni  d' animo  e  di  tempi  e  d 
studi  furono  scritti  i  Levia  Gravia,  e  se  ne  ri 
sentono.  Dei  tempi  e'  è  la  leggerezza  pesante  e 
la  pretenzione  enfatica  e  figurata  che  si  dà  e  si 
tiene  per  concettosità  ed  eleganza.  Ci  si  vede  poi 
r  uomo  che  non  ha  fede  nella  poesia  né  in  sé 
e  pur  tenta;  tenta  la  novità,  e  non  ha  il  corag 
gio  di  rompere  con  le  vecchie  consuetudini;  di 
scorda  dalla  maggioranza,  e  la  segue;  scambia 
la  materia  per  1'  arte,  o  le  mette  in  urto  tra  loro 
si  balocca  facendo  su '1  serio;  gitta  un  grido,  e 
ha  paura  della  sua  voce  che  si  perde  nel  vuoto. 
Rileggendomi,  mi  giudico  come  un  morto;  e 
anche  di  questo  volumetto  che  do  a  ristampare 
veggo  e  sento  la  livida  screziatura  e  il  freddo, 
come  d'  un  pezzo  di  marmo  che  aggiungo  a 
murare  il  sepolcro  de'  miei  sogni  di  gioventù. 
Sparite  via  presto,  o  morticini:  io  non  ho  né 
il  tempo  né  la  voglia  di  farvi  né  meno  il  com- 
pianto. 

Una  volta  certo  diario  moderato  di  prima  bus- 
sola distingueva,  a  proposito  del  due  decembre, 
tra    delitti    utili    e    delitti  inutili,    A    tale   stregua 


LEVIA    GRAVIA.  I43 

l'inno  a  Satana  fu  una  birbonata  utile:  birbonata, 
non  nel  concetto,  che  per  me  è  ancor  vero  tutto 
o  quasi,  ma  per  l' esecuzione.  Non  mai  chitar- 
ronata  (salvo  cinque  o  sei  strofe)  mi  usci  dalle 
mani  tanto  volgare.  U  Italia  co  '1  tempo  dovrebbe 
innalzarmi  una  statua,  pe  '1  merito  civile  dell'  aver 
sacrificato  la  mia  conscienza  d'artista  al  deside- 
rio di  risvegliare  qualcuno  e  rinnovare  qualche 
cosa.  Mi  raccomando  che  la  statua  sia  brutta 
bene,  proprio  come  una  di  quelle  che  accennai 
più  a  dietro  e  come  a'  nostri  scultori  non  sarà 
difficile  farla.  Sia  brutta,  o  madre  Italia,  sia 
brutta;  perché  allora  io  fui  un  gran  vigliacco 
neir  arte. 

E  ne  porto  meritamente  le  pene  da  tutti  questi 
ragazzi  sgrammaticanti  che  non  cessano  invo- 
carmi poeta  di  Satana.  E  ne  porto  giustamente 
le  pene  nel  veder  messo  il  mio  nome  a  canto  a 
qualche  altro  nome  che  raffigura  e  risuona  quanto 
di  più  vano,  di  più  falso,  di  più  istrionico,  di 
più  basso  e  di  più  buffo  repeva  nei  fondacci 
della  vecchia  grafomania  italiana;  che  rappre- 
senta quanto  nella  nuova  si  denuda  più  vizza- 
mente sfacciato,  più  bolsamente  ciarlatano;  che 
raccoglie  tutte  le  infermità  le  viltà  le  bugie  di 
una  transizione  che  finisce  e  d' una  che  inco- 
mincia. I  nostri  vecchi  credevano,  e  crede  il 
popolo  ancora,  che  i  girini,  i  quali  saltellano 
bulicando  dal  polverone  d'  estate  non  a  pena  le 
prime  gocce  grosse,  fitte,  frementi  e  frescamente 


144 


LEVIA    GRAVIA. 


odoranti,  di  '  un  acquazzone  d'  agosto  V  abbiano 
immollato,  fossero  e  sieno  metà  fango  e  metà 
materia  organica  che  diventerà  ranocchio.  Tale 
qualche  nome:  fango  è  di  certo;  ranocchio,  ve- 
dremo. 


GIAMBI  ED  EPODI 


Carducci.  4.  10 


Prefazione  ai    Giambi   ed    Epodi   di  G,  C. 
Bolog-na,  Zanichelli,  1882; 
in  Confessioni  e  Battaglie  di  G.  C,   serie  2», 
Roma,  Sommaruga,  1884. 


PEZZI  in  versi  ristampati  nei  volu- 
metto COSI  intitolato  furono  com- 
posti dal  1867  a  tutto  il  '72;  e  ac- 
cusano ciascuno  con  le  sottoposte 
indicazioni  V  anno  il  mese  e  fino  il  giorno,  e  cosi 
gli  argomenti  e  i  motivi,  della  composizione.  Di- 
fenderne ancora  i  sentimenti  e  le  forme  noierebbe 
oramai  me  più  che  altri  :  troppo  già  V  ho  fatto. 
Ma  questa  nuova  edizione,  che  presenta  per  la 
prima  volta  raccolti  tutti  insieme  i  criminosi  giambi 
{ roba  da  procuratore  del  re,  affermava  a'  bei  tempi 
di  S.  E.  Cantelli  un  moderato,  letteratissimo  in 
crusca  e  in  leopardaggine),  mi  tenta  a  dir  qual- 
che cosa  dello  spirito  generale  che  li  animò,  e 
in  quale  ambiente  e  tra  quali  circostanze  furon 
prodotti. . 


148  GIAMBI    ED    EPODI. 


II. 


Io....  Chiedo  perdono  di  tanto  ripicchiare  del 
pronome  personale  in  questo  e  in  altri  miei 
scritti  di  prosa  a  quei  precettori  e  maestri  miei 
novellini^  i  quali  si  presero  il  carico  di  ammo- 
nirmi anche  per  la  posta  che  dovrei  smettere 
di  seccar  la  gente  con  l' io.  Veramente,  a  giu- 
dicare dalla  fortuna  mercantile  dei  libri  e  degli 
opuscoli  dove  la  mia  persona  prima  scorrazza  per 
ogni  pagina  come  un  bambino  ebro  di  primavera 
per  un  campo  di  baccelli  in  fiore,  che  la  gente 
si  secchi  non  si  direbbe.  Si  direbbe  anzi  che  ella 
senta  come  quel  pronome  personale,  per  chi  sa 
fare,  può  essere  pretesto  a  dare  il  volo  a  osser- 
vazioni, idee  e  concetti,  che  certo  valgono  meglio 
del  mio  povero  io,  e  forse  anche  più  del  noi 
sgrammaticato  de'  miei  precettori.... 

Io  dunque  era  dei  moltissimi  che  nel  '59  e 
nel  '60  accolsero  la  formola  garibaldina  Italia 
e  Vittorio  Emanuele,  senza  verun  entusiasmo 
per  la  parte  moderata  e  i  suoi  condottieri,  ma 
lealmente;  un  po' per  riconoscente  affetto  al  re  e 
al  Piemonte,  nella  cui  fermezza  aveva  trovato 
qualche  consolazione  la  miseria  del  decennio,  un 
po'  per  il  concetto  che  nella  fusione  dell'  ele- 
mento signorile  co  '1  cittadino,  dell'  esercito  co  '1 
popolo,  delle  memorie  monarchiche  d'  una  parte 
con  le  democratiche  di  altre  parti  del  paese,  nella 


GIAMBI    ED   EPODI.  I49 

cospirazione  della  fedeltà  e  della  libertà,  della  di- 
sciplina e  dell'entusiasmo,  della  tradizione  antica 
e  della  fede  nuova,  la  storia  d' Italia,  questa  isto- 
ria mirabilmente  complessa,  che  ha  in  sé  tutti  i 
semi,  tutti  li  svolgimenti,  tutte  le  fioriture  e  sfiori- 
ture di  tutte  le  idee,  di  tutte  le  forme  e  di  tutti  i 
fenomeni  politici,  troverebbe  alfine,  meglio  che 
non  avesse  fatto  la  greca,  il  suo  esplicamento  e 
complemento  necessario,  la  liberazione,  la  unione 
e  la  grandezza  di  tutta  la  patria  per  virtù  e  forza 
della  nazione,  senza  e  contro  ogni  ingerenza  stra- 
niera; esempio  nobilissimo,  e  utile  eccitamento 
alle  altre  genti  oppresse  dal  comune  inimico. 
E  che  tali  concetti  non  fossero  fuori  o  sopra  il 
possibile,  dimostrarono  i  miracoli  del  '60;  come 
di  certo  non  potevano  ravvicinare  e  conciliare 
noi  alla  parte  moderata  gì'  indegni  procedimenti 
dopo  l'acquisto  delle  Due  Sicilie  usati  con  l'eser- 
cito meridionale  e  il  suo  gran  capitano,  la  poli- 
tica violenta  insieme  e  corruttrice,  tirannica  in- 
sieme ed  anarchica,  incerta,  debole,  inetta,  che 
sgovernò  le  province  del  mezzogiorno,  la  mise- 
rabile soggezione  a  tutti  gli  imperi  di  Francia, 
r  agguato  di  Aspromonte,  la  sguinzagHata  licenza 
a  tristi  vanterie  e  rappresaglie  crudeli,  la  conven- 
zione di  settembre  vantata  con  le  sue  bilaterali 
dissimulazioni  come  un  trionfo  dai  nepotuncoli  del 
Machiavelli,  i  quali,  rinnovando  i  pericoli  del  muni- 
cipalismo, essi  che  non  avevano  voluto  le  regioni, 
insanguinarono  freddamente  e  ferocemente  Torino. 


150  GIAMBI   ED    EPODI. 

E  pure  sopportammo  cotesto,  e  altro  avremmo 
sopportato,  se,  dopo  tanta  affermazione  di  forze, 
dopo  tanta  magnificenza  di  promesse,  dopo  tanta 
esigenza  di  aspettazioni,  dopo  tanta  istantanea  e 
misteriosa  digestione  di  milioni  assorbiti  a  ondate 
di  respiro  dalla  voraginosa  ingluvie  della  Guerra 
e  della  Marineria,  se  dopo  una  dittatura  di  cinque 
anni  i  moderati  ci  avessero  dato  nel  1866  la  vit- 
toria. Ma  i  vincitori  di  Castelfidardo  ci  diedero 
Custoza,  i  trionfatori  di  Gaeta  ci  diedero  Lissa. 
E  il  duca  di  Gaeta,  già  donato  d' una  corona 
aurea,  non  so  se  merlata  o  rostrata,  dal  gran 
partito  che  si  credè  scolorare  a  furia  di  chinca- 
glieria lo  splendore  della  camicia  rossa,  l' epistolo- 
grafo del  21  aprile  1861,  che  senza  pur  rimovere 
dalle  labbra  la  sigaretta  stiè  a  guardare  il  ferito 
d' Aspromonte  salutante  in  vano  con  gentilezza 
serena  mentre  era  trasportato  a  bordo  della  Stella 
d' Italia,  il  generale  Cialdini,  dico,  dopo  ottenuto 
libero  il  campo  alla  sua  azione  fin  dalF  ombra  del 
comando  reale  e  dal?  impiccio  dei  principi,  iion 
seppe,  la  dimane  di  Custoza,  far  meglio  che  cor- 
rer su  e  giù  per  la  riva  del  Po  come  una  rondine. 
La  similitudine  è  d'  un  corrispondente  di  giornali 
d*  allora;  e,  cosi  leggiadretta,  grava  nella  memo- 
ria, e  più  su  *1  cuore,  co'l  peso  di  cento  anni  per- 
duti per  la  storia  d*  Italia. 

E  pure,  come  ogni  male  non  vien  per  nuocere, 
massimamente  nelle  vicende  delle  nazioni,  cosi 
le  vergogne   del  '66    non   ci   recarono    tutti    quei 


GIAMBI    ED    EPODI.  I5I 

maggiori  danni  che  potevano,  in  quanto  la  spada 
dell'  arciduca  Alberto  tagliò  netta  la  cresta  alla 
galloria  del  partito  moderato,  il  quale  oramai  cre- 
deva d'  esser  proprio  lui  che  la  mattina  co  '1  suo 
chicchirichì  ordinasse  a  Domeneddio  di  mandar 
fuori  il  sole.  Il  gran  partito  fu  accapponato,  e,  se 
schiamazzò  ancora,  dove,  pure  schiamazzando, 
vedersi  attorno  su  V  aia  i  partitini  galletti  a  con- 
tendergli il  becchime  e  a  montargh  sotto  gli  oc- 
chi suoi  le  galline  sue.  Il  che  del  resto,  secondo 
le  buone  tradizioni  costituzionali,  fu  un  bene  per 
r  avvenire  del  pollaio  parlamentare.  E  con  la  di- 
minuzione del  gran  partito  fini  d' imbozzacchire 
anche  la  famosa  letteratura  dei  quindici  o  diciotto 
anni.  Povera  letteratura  di  cuor  contenti  a  pancia 
liscia,  con  1'  aureola  dell'  ideale  su  la  scriminatura 
romantica  della  grande  chioma  spiovente  alla 
tempia  destra!  Come  potremmo  noi  consolarci 
della  sua  disparizione,  se  qualche  saggio  non  ce 
ne  restasse  nei  pavoncelli  spennacchiati  di  Milano, 
nei  tacchini  male  inghebbiati  di  Torino,  in  qual- 
che gazza  ladra  (proprio  ladra)  a  Firenze,  in  qual- 
che putta  scodata  a  Venezia? 

Ma  che!  non  mi  credete,  o  lettori,  faccio  per 
ridere.  Che  importava,  e  che  importerebbe  a  me, 
che  r  oligarchia  dei  moderati,  imbaldanzita  dalla 
vittoria  e  rafforzata  dal  conseguente  militarismo, 
avesse  seguitato  a  trattare  il  paese  anche  peggio 
di  prima?  che  importava  e  che  importerebbe, 
pur  che  l' Italia  avesse  vinto  a  Custoza  e  a  Lissa  ? 


152  GIAMBI    ED    EPODI. 

A  tutto  si  rimedia,  fuor  che  al  disonore.  E  in 
queli'  anno  1'  Italia  ebbe  inoculato  il  disonore: 
cioè  la  diffidenza  e  il  disprezzo  fremente  di  sé 
stessa,  il  discredito  e  il  disprezzo  sogghignante 
delle  altre  nazioni.  Sono  acerbe  parole  queste 
eh'  io  scrivo,  lo  so.  Ma  anche  so  che  per  un  po- 
polo che  ha  nome  dall'  Italia  non  è  vita  1'  esser 
materialmente  raccolto  e  su  '1  rifarsi  economica- 
mente, e  non  avere  né  un'  idea  né  un  valore  po- 
litico, non  rappresentare  nulla,  non  contar  nulla, 
essere  in  Europa  quello  che  è  il  matto  nel  giuoco 
de'  tarocchi  :  peggio,  essere  un  mendicante,  non 
più  fantastico  né  pittoresco,  che  di  quando  in 
quando  sporge  una  nota  diplomatica  ai  passanti 
su '1  mercato  politico,  e  quelli  ridono:  essere  un 
cameriere  che  chiede  la  mancia  a  quelli  che  si 
levano  satolli  dal  famoso  banchetto  delle  nazioni, 
e  quasi  sempre,  con  la  scusa  del  mal  garbo,  la 
mancia  gli  è  scontata  in  ischiaffi.  Quando  sarà 
promosso  a  sensale  o  mezzano?  La  gloria  delle 
storiche  città  è  sostenuta  dai  ciceroni  e  da  gente 
di  peggior  conio.  Le  più  belle  tra  esse  sospirano 
al  titolo  e  alla  fama  di  locande  e  di  postriboli 
dell'  Europa.  E  la  plebe  contadina  e  cafona  muore 
di  fame,  o  imbestia  di  pellagra  e  di  superstizione, 
o  emigra.  Oh  menatela  almeno  a  morire  di  gloria 
contro  i  cannoni  dell'  Austria  o  della  Francia  o 
del  diavolo  che  vi  porti! 

Mi  ricordo  ancora  di  una  dimostrazione  in  cui 
m' abbattei    per    le    vie    di  Bologna,  quando  Ve- 


GIAMBI    ED    EPODI.  I53 

nezia  fu  restituita  all'  Italia^  cioè  per  magnanimità 
di  Napoleone  iii  legittimo  donatario  fu  da  un  ge- 
nerale Leboeuf  consegnata  non  so  più  a  qual  ge- 
nerale italiano.  Aveva  pioviscolato  tutto  il  giorno, 
e  una  tristezza  d'  autunno  tingeva  di  bigia  noia  i 
palazzi  in  mattone.  Il  sole  calava  tra  certi  nuvo- 
lacci  di  pece,  mandando  lungo  il  cielo  su  i  cam- 
panili su  le  torri  su'  bei  cornicioni  di  terra  cotta 
uno  sprazzo  o  uno  sputo  d' un  rossastro  crudo 
di  rame.  Un  centinaio  di  sciamannati  portavano 
attorno  una  bandiera  tricolore  gridando  i  soliti 
viva.  La  tinta  rossa  e  la  verde  stemperate  dalla 
pioggia  in  quei  cambrì  di  pochi  soldi  colavano  a 
rigagnoli  sucidi  su'l  bianco  un  porcume  indistinto, 
ove  il  rossore  della  vergogna  si  mescolava  al  li- 
vidore della  colpa.  Non  potetti  tenermi,  e  urtai 
del  gomito  e  un  po'  della  spalla  uno  di  quei  di- 
mostranti eh'  io  conosceva.  —  Chetati,  sciaurato,  — 
gli  dissi  —  :  voi  cantate  1'  esequie  all'  onore  d'Ita- 
lia — .  Intanto  rincominciò  a  piovere:  un'  acqueru- 
giola fina  fina  e  fitta  fitta  mi  forava  i  nervi  del 
cranio,  del  collo  e  del  petto  come  un  mazzetto 
d' aghi  avvelenati  :  mi  pareva  di  soffrire  in  me 
stesso  il  tatuaggio  dell'infamia.  E  non  fu  tutto. 
Che  poi  venne  Mentana,  e  la  cacciata  dei  nostri 
soldati  dai  confini  pontificii,  e  gli  scandali  parla- 
mentari e  r  acquisto  di  Roma.  Oh  l' entrata  in 
Roma  !  H  governo  d' Italia  sali  per  la  via  trion- 
fale come  fosse  la  scala  santa,  ginocchioni,  con 
la  fune  al   collo,    facendo    delle    braccia    croce   a 


154  GIAMBI    ED    EPODI. 

destra  e  sinistra,  e  gridando  mercè  —  Non  posso 
fare  a  meno,  non  posso  fare  a  meno  :  mi  ci  hanno 
spinto  a  calci  di  dietro  — .  O  moderati,  non  siate 
voi  mai  a  metter  fuori  parole  ammonitrici  di  al- 
terezza e  dignità  nazionale! 

Ecco  sotto  quali  impressioni,  in  quale  ambiente 
e  con  che  sangue  furono  scritti  i  giambi  e  gli 
epodi. 

Ahi,  come  punto  da  mortifer  angue, 
Ahi  di  veleno  il  cuor  ferve  e  ribolle! 

Era  proprio  cosi. 

III. 

Cosi  nei  sentimenti  di  cittadino.  Come  uomo, 
ero  a  bastanza  tranquillo. 

Nel  marzo  del  '67,  delegato  dall'  Università  a 
partecipare  a  un  comitato  generale  per  le  ele- 
zioni politiche  nella  città  e  provincia  di  Bologna, 
combattei  francamente  la  candidatura  dell'  onore- 
vole Minghetti,  e  fui  principale  autore  che  un 
nuovo  comitato  si  constituisse  a  propugnare  le 
elezioni  di  uomini  d'  altri  principii  di  governo  da 
quelli  di  destra.  Ciò  senza  odii  e  furori.  Ecco 
due  fatti. 

Quando  con  i  particolari  della  battaglia  di  Cu- 
stoza  venne  la  notizia  delle  prove  sostenute  in 
quella  fiera  giornata  dal  principe  di  Piemonte  e 
dal  duca  d' Aosta,  io  e  il  professor  Teza,  allora  or- 
namento e  ora  onorata  memoria  della  Facoltà  di 


GIAMBI    ED    EPODI.  I55 

lettere  dì  Bologna,  ci  riscontrammo  in  un  subi- 
taneo pensiero  di  mandare  a'  due  principi  parole 
di  plauso  e  di  saluto.  E  scrivemmo  tutt' e  due 
d'  accordo,  non  certo  co  '1  bello  stile  cortigiano, 
quello  che  si  dice  un  indirizzo.  Sparsa  la  cosa 
per  la  città,  i  soscrittori,  figuratevi,  non  manca- 
rono. Mancarono  i  nomi  nostri:  venuti  al  sotto- 
scrivere, io  per  ragioni  mie  democratiche  pensai 
meglio  di  non  farne  nulla;  e  il  Teza,  moderato 
di  tre  cotte,  ma  cottura  e  pasta  a  modo  suo,  per 
timore  di  volgarità  fece  lo  stesso.  Ancora.  Dopo 
che  a  nuove  elezioni  le  urne  del  primo  collegio 
di  Bologna  risposero  no  alla  candidatura  dell'ono- 
revole Minghetti,  fu  nella  Facoltà  di  lettere  di 
Bologna  chi  lo  propose  a  dottore  collegiato  eme- 
rito: io  sostenni  la  proposta,  e  l'onorevole  Minghetti 
riusci  eletto  a  vóti  unanimi  collega  nostro  d'onore. 
Ed  egli  poi  ci  fu  valido  sostenitore  in  Comune 
contro  certe  economie  progressiste,  e  da  ultimo 
dotò  la  Facoltà  d'  un  premio  annuale  agli  alunni 
migliori. 

Fazioso  dunque,  no,  mai:  non  affermerei  ugual- 
mente di  essere  stato  un  modello  di  temperanza 
neir  esprimere  le  mie  opinioni  e  le  mie  passioni, 
massime  dopo  Mentana.  Ma  erano  eglino  tem- 
perati gli  avversari?  A  ogni  modo  io  non  discesi 
mai  a  tali  parole  contro  gì'  italiani  parteggiatori 
degli  zuavi  pontificii,  quali  ne  udii  con  queste 
orecchie  uscire  contro  Vittorio  Emanuele  da  boc- 
che moderate    fiorentine    negli    ultimi    giorni  del 


156  GIAMBI   ED   EPODI. 

ministero  Rattazzi.  Oh,  certi  moderati,  i  quali 
nella  loro  ignoranza  pigliano  a  prestito  dalle  acca- 
demie r  aggiunto  di  plebeo  a  chi  scrivendo  ado- 
pera i  termini  di  Dante,  certi  moderati,  se  sorpresi 
nei  momenti  che  la  natura  loro  dilaghi,  oh  come 
accusano  nel  furore  dei  pettegolezzi  cianeschi  e 
nella  triviahtà  delle  idee  e  del  linguaggio  la  bas- 
sezza della  educazione  ed  estrazione  loro  e  la 
volgarità  degl'  istinti  e  delle  passioni  !  Già,  basta 
dire  che  ammirarono  il  Civinini  rimmachiavellito 
e  gustano  del  Yorick. 

Nel  '67  feci  anche  parte  del  Comitato  diret- 
tivo d'  un'  associazione  democratica  di  Bologna, 
e  cooperai  alla  spedizione  garibaldina  nell'  agro 
romano.  Ma,  prevalendo  su  la  fine  dell'  anno  nelle 
tornate  la  eloquenza,  della  quale  e  segnatamente 
della  popolare  io  mi  confesso  scarsissimo  ammi- 
ratore, mi  ritirai  dal  Comitato,  per  occuparmi  a 
ordinare  e  illustrare  una  grande  raccolta  di  can- 
zoni a  ballo,  di  canti  carnescialeschi  e  di  poesie 
popolari  antiche,  che  in  quegli  anni  di  estrava- 
gazioni  anarchiche  avevo  ricercate  e  copiate  quasi 
tutte  di  mia  mano  per  le  biblioteche  di  Firenze 
e  d' altrove;  raccolta  che  prima  o  poi  pubblicherò 
ordinata  in  più  volumi  meglio  che  non  facessi  nel 
saggio  uscito  del  '71. 

IV. 

Imperava  intanto  con  propositi  spiegatissimi 
di  repressione  il  ministero  Menabrea. 


GIAMBI   ED    EPODI.  I57 

E  un  bel  giorno  di  novembre  mi  vidi  arrivare 
una  bellissima  lettera  dell'onorevole  Broglio  mini- 
stro per  la  pubblica  istruzione,  con  la  quale  esso 
signor  ministro,  lodandosi,  per  bontà  sua,  della 
mia  operosità  letteraria,  per  aprire  un  più  largo 
campo  al  mio  ingegno  e  rendere  più  utile  al  ser- 
vizio pubblico  il  mio  insegnamento,  mi  destinava 
alla  cattedra  di  letteratura  latina  nella  Università 
di  Napoli.  Certissimo  di  non  aver  merito  nessuno 
presso  il  Ministero  della  repressione,  rimasi  dì 
stucco,  e  chiedevo  a  me  stesso  —  Onde  tanta 
benignità  e  questa  sollecitudine  di  premiazioni 
a'  miei  lavori  d' italiano  con  una  cattedra  di  la- 
tino? —  A  Firenze  e  a  Bologna  i  moderati  affer- 
mavano apertamente,  come  la  cosa  più  naturale 
e  più  giusta  del  mondo,  che  la  nuova  destinazione 
sotto  forma  di  promozione  era  punizione  e  remo- 
zione: punizione  per  aver  fatto  contro  alla  can- 
didatura dell'  onorevole  Minghetti,  remózione  per 
levarmi  dal  caso  di  provarmici  un'  altra  volta. 

Io  invece  pensava  —  L'  onorevole  Broglio  ha 
due  idee  fisse,  rialzare  la  musica  italiana  e  creare 
la  lingua  italiana.  Quanto  alla  musica,  io  lascio  so- 
nare, non  me  ne  intendo;  e,  più  sonan  forte,  più 
mi  piace:  sono  tedesco.  Quanto  alla  lingua,  io 
credo  che  esista  da  settecento  anni,  o  almeno 
almeno  da  quando  scrisse  Dante,  e  non  vedo  il 
bisogno  di  crearne  una  nuova.  Ecco  perché  l'ono- 
revole Broglio  non  mi  vuole  a  insegnare  l' italiano 
e  mi  vuole  paralizzare  nel  latino.  Furbo  l'onore- 


158  GIAMBI    ED    EPODI. 

vole  economista!  Ma  io  più  furbo  di  lui!  non 
mordo  all'  amo  :  a  Napoli  non  vado,  resto  a  Bo- 
logna a  insegnare  che  la  lingua  italiana  e'  è.  — 
Cosi  la  discorrevo  tra  me  e  me;  e  seguitavo  — 
Vedete  a  che  un'  idea  fìssa,  un'  allucinazione,  può 
condurre  anche  uomini  di  valore  e  di  proposito, 
quale  e  quanto  1'  onorevole  Broglio.  Egli,  uomo 
d'ordine,  membro  d'un  ministero  il  cui  termine: 
fisso  è  rendere  e  aggiungere  forza  alle  leggi  dèlio 
stato,  ora,  per  quell' ubbia  della  lingua,  volen- 
domi rimosso  da  una  cattedra  ove  il  mio  inse- 
gnamento non  converrebbe  alla  sua  filologia,  urta 
in  una  legge  dello  stato  che  sancisce  inamovibili 
i  professori.  Egh,  ministro  dell'  istruzione  pubblica, 
pe  '1  quale  tutte  le  università  primarie  han  da 
essere  eguali;  egli,  che  sa  l'università  di  Bologna 
non  pure  primaria  ma  la  più  antica  d'Europa,  e, 
ove  qualche  mancamento  avesse  riscontrato  nel- 
r  ordine  degl'  insegnamenti  impartitivi,  dovrebbe 
riparare  al  difetto  riducendola  in  quelle  condizioni 
che  sono  da  lei;  egli,  l'onorevole  ministro,  viene 
a  darle  mala  voce,  giudicandola  troppo  ristretto 
campo  a  un  pover  uomo  come  sono  io.  E  sempre 
per  quella  maledetta  lingua.  Egli  di  certo  odia 
Bologna  e  la  sua  università,  perché  Dante  vi  pose 
il  nido  del  volgare  aulico,  e  l'onorevole  ministro 
vuole  che  gì'  italiani  pariino  e  scrivano  come  i 
nuovi  fiorentini  di  Sondrio  e  come  lui  — . 

Cosi  io  pensavo  e  dicevo;  ma  amici  €  nemici 
sorridevano  o  sogghignavano,  insistendo  che  era 


GIAMBI    ED    EPODI.  I59 

per  la  questione  delle  elezioni.  E  io  di  rincontro 
—  Ma,  se  Dio  guardi  voi  dalle  questioni  su  l'unità 
della  lingua  e  dai  libri  in  fiorentino  lombardo, 
come  volete  che  l'onorevole  Minghetti,  potentissimo 
in  Bologna,  e  il  sua  partito,  onnipotente  in  Italia, 
si  dieno  pensiero  di  me  nuovo  in  Bologna  e  poco 
noto  all'Italia?  E  chi  ha  dato  a  voi  il  diritto  di  solo 
imaginare  che  1'  onorevole  Broglio,  che  un  mini- 
stero come  questo,  della  più  pura  acqua  costitu- 
zionale, per  interessi  di  partito  no,  che  non  è  il 
caso,  ma  per  risentimenti  e  per  gusti  cosi  piccini 
che  parrebbero  di  femminucce,  voglia  urtare  le 
leggi,  sommettere  alla  passione  privata  1'  utile 
pubblico,  sovvertire  il  pubblico  servizio,  conta- 
minare della  più  dannosa  partigianeria  il  magi- 
strato più  nobile,  quello  dell'  istruzione,  trasmu- 
tando un  professore  da  insegnare  quello  che  sa 
a  insegnare  quello  che  non  sa?  Perché  può  darsi 
che  di  latino  io  ne  sappia  un  po'  più  di  prete 
Pero;  ma  quali  titoli  ho  io  di  latinista,  quali  opere 
ho  scritto  nella  lingua  di  Cicerone,  quali  ricerche 
o  lavori  di  filologia  e  critica  romana  ho  composto, 
per  mandarmi  così  su  due  piedi  a  professare  let- 
teratura latina  da  una  cattedra  dell'  università  di 
Napoli?  E  badate  che  un  po' di  latino  in  fondo 
in  fondo  lo  so,  e,  quel  che  vai  più,  so  studiare, 
e  sono  ancor  giovine,  e  in  pochi  anni  potrei  met- 
termi al  corrente,  perché  la  letteratura  latina  non 
è  poi  un  campo  troppo  vasto.  In  somma,  potrei 
andare   a   Napoli.    Bell'  accorgimento    dell'  onore- 


l6o  GIAMBI    ED    EPODI. 

vole  ministro  !  Oh  non  vede  egli  il  brav'  uomo, 
che  tutti  i  giovani  professori,  i  quali  credano  aver 
diritto  air  apertura  d' un  più  largo  campo,  egli 
con  r  esempio  mio  gì'  inuzzolisce  a  far  contro  il 
ministero  e  metter  su  da  per  tutto  comitati  contro 
i  candidati  di  destra?  No,  no,  la  stizza  non  può 
far  perder  fino  a  tal  segno  il  lume  degli  occhi  a 
un  galantuomo.  Non  è  questione  di  lotta  eletto- 
rale, vi  ripeto,  è  la  questione  della  lingua.  E  io 
voglio  rimaner  qui,  e  qui  rimarrò,  a  insegnare  che 
la  lingua  italiana  e'  è,  che  la  prosa  itahana  e'  è,  e 
e'  è  bella,  viva,  nobile,  agile,  ricca,  flessuosa,  po- 
tente, variatissima,  sebbene  non  sia  la  prosa  fran- 
cese o  la  prosa  inglese.  E  cosi  ha  da  essere; 
perché  la  prosa  italiana  ha  da  essere  itahana  e 
non  francese  o  inglese;  e  ciò  per  una  semplicis- 
sima ragione,  svolta  stupendamente  in  una  canti- 
lena di  bambini,  che  dovrebbe  dare  argomento 
di  profonda  e  utile  meditazione  a  certi  filologi  ed 
estetici  e  critici  di  mia  conoscenza.  Nelle  belle 
sere  di  primavera  o  di  autunno,  o  ne'  mezzogiorni 
d' inverno,  ho  veduto  grandetti  e  piccolini,  maschi 
e  femmine,  occhi  neri  e  celesti  e  grigi  e  perla, 
capelli  scuri  e  castagni  e  biondi  e  canapini  e  ce- 
nerini, pigliarsi  tutti  per  mano,  intrecciarsi,  con- 
fondersi e  ballare  in  tondo.  E  guardandosi  fissi 
in  viso  gli  uni  gli  altri  e  poi  guardando  nel  cielo, 
con  voce  e  accento  già  bronzino  i  maschiotti,  ar- 
gentino le  femmine,  bleso  i  piccolini,  cantavano. 
Ballavano  e  cantavano  ;  e  i  grandi  alberi  guarda- 


GIAMBI    ED    EPODI.  l6l 

vano  il  dolce  ballo  ricoprendolo  e  accompagnan- 
dolo della  compiacenza  dell'  ombre  e  d' mi  mor- 
morio sommesso;  e  il  sole  baciava  le  fronti  serene 
e  incoronava  d'  aureole  le  capigliature  sciolte  o 
ricciute;  innamorato  di  coteste  più  leggiadre  e 
soavi  emanazioni  della  sua  benignità.  Cantavano 
e  ballavano;  e  nelle  movenze  dei  corpicini  gentili 
scorreva  tutta  la  gioia  della  vita,  e  nei  grandi 
occhi  aperti  seri  e  lucenti  splendeva  la  intuizione 
inconscia  e  tranquilla  dei  misteri  dell'  essere  e 
della  divinità.  Ballavano  e  cantavano  cosi:  Uno 
due  e  tre,  Il  papa  non  è  il  re,  Il  re  non  è  il  papa, 
La  chiocciola  non  è  lumaca,  La  lumaca  non  è  chioc- 
ciola. Il  palèo  non  è  la  trottola.  La  trottola  non  è 
il  palèo.  Il  cristiano  non  è  V  ebreo.  E  il  lombardo, 
onorevole  Broglio,  non  è  il  fiorentino.  Cotesta  del- 
l' unità  della  lingua  o  dell'  accentramento  dei  fa- 
vellari  di  milioni  di  pensanti  italiani  dentro  una 
città  sola  anzi  forse  dentro  i  salotti  d' un  solo 
quartiere  di  quella  sola  città;  è;  onorevole  Broglio, 
una  fissazione  giacobina.  Si;  in  queir  ampia  orga- 
natura  della  testa  di  Alessandro  Manzoni  il  razio- 
nalismo giacobino  de'  primi  suoi  anni  seguitò  à 
ramificare  per  entro  la  superedificazione  cattolica 
scalzandola  e  fendendo  qua  e  là  di  crepacci  la 
incrostatura  o  intonacatura  rosminiana.  Ora  il  ra- 
zionalismo giacobino,  mova  o  da  Montesquieu  o 
da  Rousseau;  mira  in  teorica  a  rifoggiare  la  so- 
cietà, senza  tener  verun  contO;  anzi  con  un  gran 
disprezzo;  delle  cose  e   dei   fatti,  della  geografia; 

Carducci.  4,  11 


l62  GIAMBI   ED   EPODI. 

della  etnologia,  della  antropologìa,  della  storia, 
sur  un  suo  modello  rigido  e  stecchito,  eh*  esso 
imbotti  a  priori  dei  postulati  d'  una  filosofia  tutta 
tra  soggettiva  ed  empirica  e  tutta  cervellotica; 
tende  poi  nell'  azione  con  smaniosa  e  malaticcia 
impazienza,  e  con  un  feroce  odio  dei  vigori  della 
varietà,  ad  appianare,  a  potare,  a  unificare,  a  con- 
centrare. Cosi  distrusse  i  diversi  stati  e  perseguitò 
i  dialetti;  abolì  i  parlamenti  provinciali  e  i  cap- 
pelli a  piuma;  fece  la  costituzione  e  la  giubba  a 
coda  di  rondine,  la  codificazione  e  il  cappello 
tondo,  il  sistema  delle  imposizioni  e  la  cravatta 
bianca,  la  capitale  e  la  burocrazia;  die  Napoleone 
e  monsieur  Travet.  E  ispirò  —  aggiungo  —  la 
dottrina  dell'  unità  della  lingua.  Già,  posto  che  lo 
stato  è  strettamente  uno,  e  s' imperna  e  circola  e 
respira  e  digerisce  e  pensa  e  ordina  e  disordina 
e  vomita  soltanto  nella  capitale,  deve  anche  par- 
lare soltanto  nella  capitale  e  con  la  capitale. 
Quindi  concentramento  e  domicilio  coatto  della 
lingua  a  Parigi,  e,  subordinatamente,  a  Firenze; 
a  Firenze  capitale  designata  da  Massimo  d'  Aze- 
glio e  da  Napoleone  iii.  E,  per  mantenere  la 
capitale  a  Firenze  dopo  la  convenzione  e  dopo 
Mentana,  anche  l'aggéggio  (parlo  bene,  onore- 
vole Broglio  ?  )  dell'  unità  della  lingua  potea  gio- 
vare a  qualche  cosa.  Ma  ora  che  la  capitale  è  a 
Roma  —  aggiungo  chiosando  nel  '82  —  e  il  di- 
zionario dell'  uso  fiorentino  vien  compilato  da  un 
lucchese  e  da  un  lombardo,    non    sarà    egli  per- 


GIAMBI   ED    EPODI.  163 

messo  di  pensare  che  la  Grecia  ebbe  e  che  la 
Germania  ha  una  letteratura  (e  che  letterature!), 
e  noi  avemmo  il  Cinquecento,  senza,  anzi  contro, 
la  teorica  manzoniana?  Lascio  V  onorevole  Bro- 
glio co  '1  berretto  di  giacobino  —  in  filologia  — ■ 
a'  suoi  studi  del  dizionario  fiorentino  (  condotto, 
del  resto,  con  giudizio  e  con  garbo,  e  utilissimo 
—  lo  dico  da  leale  avversario  e  anche  per  un 
argomento  di  più  contro  il  purismo  peruzziano 
del  Manzoni  — ),  e  torno  all'  onorevole  Broglio 
ministro  persecutore  dei  professori  di  Bologna. 

Professor  di  latino  dunque  non  fui.  A  Ga- 
spare Barbèra,  che  s'  era  per  bontà  sua  proposto 
intermediario  tra  me  e  l'onorevole  Broglio,  scrissi: 
dicesse  al  ministro:  che  a  Napoli  non  andavo; 
mi  sospendesse  pure  lo  stipendio;  avrei  ricorso 
al  Consiglio  superiore,  al  Consiglio  di  stato,  al 
Parlamento;  avrei  rinunziato  all'onore  della  cat- 
tedra; ma  non  avrei  mai  patito  si  offendesse  in 
me  una  legge  dello  stato  e  i  diritti  di  tutti  i  pro- 
fessori delle  università  italiane;  non  avrei  mai 
commesso  io  l' immoralità  d' insegnare  quel  che 
credevo  non  potere.  E  il  Barbèra  —  Bene,  il  mi- 
nistro chiede  che  almeno  Ella  gli  prometta  di  non 
lasciarsi  più  andare  ad  esorbitanze  politiche  — . 
E  io  —  Ma  che  esorbitanze  politiche?  Non  ne 
ho  mai  fatte.  E  ora  mi  occupo  di  ballate  del  Tre- 
cento. —  Cosi  avvenne  che  io  non  fossi  premiato 
della  mia  operosità  letteraria  dal  ministero  Mena- 
brea  con  la  dischiusione  di  un  più  largo   campo. 


164  GIAMBI    ED    EPODI. 


V. 


Venne  poi  a  Bologna  nel  febbraio  del  '68  una 
commissione  composta  degli  onorevoli  Brioschi, 
Bertrando  Spaventa  e  Messedaglia^  per  inquirere 
e  riferire  al  Ministero  su  le  condizioni  dell'  Uni- 
versità, specialmente,  si  diceva,  economiche:  trat- 
tavasi  in  fondo  di  levar  di  mezzo  il  senator  Mon- 
tanari che  il  Governo  dell'Emilia  avea  nominato 
rettore  a  vita,  e  allora  gli  armeggioni  de'  moderati 
non  volevano  più  né  meno  a  tempo.  Io  conoscevo 
di  persona  Bertrando  Spaventa,  che  ho  sempre 
stimato  e  riverito  filosofo  e  uomo;  conoscevo  il 
senatore  Brioschi,  co  *1  quale,  anzi,  nonostante  la 
inimicizia  politica,  ho  V  onore  di  essere  in  qualche 
famigliarità;  avevo  scambiato  qualche  lettera,  a 
proposito  di  versi,  con  V  onorevole  Messedaglia. 
Ma  né  io  né  altri  dei  professori  sospetti  —  dico 
i  nomi,  gì'  illustri  e  cari  miei  colleghi  Ceneri  e 
Piazza  —  non  ci  facemmo  vivi,  per  evitare  ogni 
taccia  di  ricercata  o  sottomissione  o  benignità, 
con  gli  onorevoli  commissari.  Quando  un  venerdì 
(vedete  casi!)  uscendo  di  far  lezione  dopo  mez- 
zogiorno, e  accompagnatomi  con  V  amico  Piazza, 
c'imbattiamo,  proprio  sotto  l' Asinella  (vedete 
altri  casi  ),  co  '1  Brioschi.  —  Ehi  —  fa  il  Brioschi 
a  me  —  non  si  viene  nemmeno  più  a  salutar  gli 
amici?  —  Si  figuri!  dico  io,  ma  non  a  disturbare 
i  commissari.  —  Via  —  ripiglia  lui  —  non  siamo 


GIAMBI   ED   EPODI.  Ì65 

mica  gli  inquisitori  di  stato.  Venite  a  vederci 
questa  sera  all'Hotel  Brun:  faremo  un  po'  di 
chiacchiere.  —  E  la  sera  io  e  l' amico  Piazza 
fummo  air  Hotel  Brun,  e  facemmo  un  po'  di  chiac- 
chiere. Si  parlò  del  più  e  del  meno:  il  Brioschi 
mi  disse  che  il  ministro  non  poteva  mandarmi  a 
Napoli;  e  che  io  aveva  ragione,  e  il  Consiglio 
superiore  me  l'avrebbe  data:  lo  Spaventa  mi  disse 
che  a  Napoli  non  mi  voleva,  e  che  mettessi  giu- 
dizio: il  Messedaglia  mi  disse  che  avevo  ogni  di- 
ritto di  pensare  come  meglio  volevo.  Intorno  al 
qual  mio  diritto  il  Brioschi  osservò  come  io  l'avessi 
esercitato  francamente  anche  quel  giorno  stesso 
o  il  giorno  innanzi,  e  alludeva  alla  pubblicazione 
delF  epodo  in  morte  di  Eduardo  Corazzine  Insi- 
stendo io  a  dichiarare  le  mie  idee  in  proposito, 
il  Brioschi  fini  ammonendomi  a  essere  un  po'  più 
calmo  e  prudente.  Queste  furono  le  chiacchiere 
coi  commissari  del  febbraio  '68,  chiacchiere  nelle 
quali  e  con  le  quali  nessuna  promessa  fu  né  ri- 
chiesta né  data;  e  se  il  contrario  si  leggesse  in 
qualche  atto  del  Consiglio  di  pubblica  istruzione, 
chi  scrisse  errò.  Uomini  d' onore  non  poterono 
né  doverono  parlare  di  promesse,  che,  ripeto,  non 
furono  né  richieste  né  date.  Ma  che?  un  uomo 
cosi  recente  di  fedeltà  austriaca,  come  1'  onore- 
vole Messedaglia,  avrebbe  avuto  egli  il  coraggio 
di  venire  a  chiedere  limitazioni  neh'  uso  de'  diritti 
di  cittadino  italiano  a  me,  che  quei  diritti  eserci- 
tavo per  tenere  alti  gli  spiriti   del   mio   popolo  a 


l66  GIAMBI   ED   EPODI. 

racquistare,  come  il  parlamento  italiano  aveva  pro- 
clamato, la  sua  capitale  in  Roma?  All'  onorevole 
Broglio  o  a  tutto  il  ministero  Menabrea,  se  mai, 
il  coraggio  di  aver  commesso  all'  onorevole  Mes- 
sedaglia  un  tale  officio:  all'  onorevole  Messedaglia 
resta  l'onore  o  il  pudore  di  non  averlo  eseguito. 
Non  sarei  tornato  su  queste  miserie,  se  tra  le 
accuse  mossemi  dall'  onorevole  Broglio,  accuse 
che  mi  recarono  la  sospensione  dall'  ufficio,  non 
ve  ne  fosse  stata  una,  la  quale,  allora,  per  rispetto 
di  persona  or  non  più  viva,  non  potei  ribattere 
a  modo  mio;  ed  era  di  promesse  fatte,  e  man- 
cate, ai  signori  membri  della  Commissione.  Non 
è  del  mio  temperamento  mancar  di  parola  mai. 

Ed  eccoci  finalmente  alla  sospensione  lancia- 
tami dal  ministero  con  decreto  del  febbraio  o  del 
marzo  per  titolo  d' aver  partecipato  a  un  ban- 
chetto commemorativo  della  repubblica  romana 
del  '49  e  di  aver  sottoscritto  un  indirizzo  a  Giu- 
seppe Mazzini  :  sospensione,  s' intende,  cosi  dal- 
l' officio  come  dallo  stipendio.  Intorno  al  doppio 
effetto  non  ci  fu  allora  nessuno  che  trovasse  da 
ridire:  i  moderati  non  erano  anche  all'opposizione. 
Sicuro,  io  per  me  sarei  del  parere  di  fra'  Cristo- 
foro, non  ci  fossero  né  sospensori  né  sospesi  né 
sospensioni.  Ma,  giacché  ci  hanno  a  essere,  io 
ricordo  che  sospensione  nel  linguaggio  latino  delle 
vecchie  leggi  sonava  impiccagione.  Ora  si  può 
egli  dare  buona  impiccagione  senza  che  sia  tolto 
il  fiato  al  paziente  fin  che  morte  ne  segua?  E  si 


GIAMBI   ED   EPODI.  167 

può  egli  dare  sospensione  di  un  funzionario  dal- 
l'officio  soltanto  e  non  dallo  stipendio?  dall'onere 
e  non  dall'  onorario  ?  Oh  quanti  professori  allora 
si  metterebbero  all'  opposizione  di  sinistra  o  di 
destra!  Io  dunque,  nessunq  contraddicendo,  fui 
sospeso  per  bene  in  tutte  le  forme  e  in  tutte  le 
regole  sotto  i  due  aspetti. 

Io  né  mi  era  presentato  al  Consiglio  supe- 
riore né  mi  difesi  con  altro  che  poche  note, 
mandate  per  iscritto  al  Consiglio  e  pubblicate 
lo  stesso  giorno  del  processo  neW Amico  del  Po- 
polo  di  Bologna.  Nelle  quaH  non  mi  riscaldai 
troppo,  né  anche,  per  quel  che  ricordo,  nello 
stile.  E  non  mi  riscaldai,  perché  sicuro  si  del 
fatto  mio,  si  della  condanna.  Sicuro  del  fatto 
mio  era  tanto,  che  a  uno  dei  colleghi  mandato 
dalla  Facoltà  tra  i  giudici  del  Consiglio  conse- 
gnai io  stesso,  acciò  lo  mostrasse,  "  il  corpo  del 
delitto  ;  cioè  1'  indirizzo  a  Giuseppe  Mazzini  scritto 
di  mia  mano.  E  quando  un  anno  di  poi  di  cotesto 
indirizzo  un  giornale  bolognese  volle  servirsi 
come  d' arma  leggera  contro  la  candidatura  del 
mio  illustre  collega  professor  Ceneri  opposto  con 
fortunati  auspicii  all'  onorevole  Minghetti,  io  ne  ri- 
vendicai a  me  la  colpa  o  l' onore  con  lettera  pub- 
blicata in  un  giornale  della  città. 

"  Nel  primo  articolo  della  Gazzetta  dell'Emilia 
d'  oggi  leggo  rispetto  all'  avvocato  Ceneri  :  —  Tra- 
scorreva al  famoso  brindisi  a  Mazzini,   a  motivo 


l68  GIAMBI   ED   EPODI. 

del  quale  ha  poscia  rinunziato  al  posto  di  pro- 
fessore dell'  Università.  —  Il  professor  Giuseppe 
Ceneri  la  sera  del  12  febbraio  1868  non  faceva 
brindisi  alcuno  a  Giuseppe  Mazzini,  non  che  tra- 
scorresse a  un  brindisi  enfaticamente  famoso.  Un 
indirizzo  al  Mazzini  fu  scritto,  e  lo  scrissi  io:  non 
però  quello  che  novamente  foggiato  fu  corpo  di 
delitto  in  un  giudizio  meschinamente  famoso.  Per 
il  qual  giudizio,  anzi  in  conseguenza  di  esso  e 
non  a  motivo  di  brindisi,  V  avvocato  Ceneri  ri- 
nunziò alla  cattedra.  „  (  Indipendente,  .  anno  in, 
n.  155). 

La  condanna  mi  trovò  che  commentavo  il  Pe- 
trarca: seguitai.  E  la  sola  domanda  che  feci  al 
signor  ministro  fu,  si  compiacesse  farmi  passare 
in  prestito  dalla  Magliabechiana  di  Firenze  la  rara 
edizione  d' un  commento  al  canzoniere  stampata 
in  Napoli  nel  1532.  L'anno  innanzi  il  ministro  Berti 
mi  aveva  non  pur  mandato  manoscritti  delle  bi- 
blioteche fiorentine  ma  ottenuto  dalla  Imperiale 
di  Parigi  un  prezioso  codice  di  poesie  musicali 
del  secolo  decimoquinto.  Il  ministro  Broglio  nel- 
r  aprile  del  '68  mi  faceva  rispondere  non  potersi 
dar  luogo  alla  mia  domanda.  Replicai  —  Sta 
bene:  io  preparo  una  edizione  e  un  commentario 
del  Canzoniere  in  servizio  della  critica  e  delle 
scuole:  nei  luoghi  ove  avrei  potuto  e  dovuto  gio- 
varmi del  tal  commento  annunzierò  che  il  Governo 
italiano  me  lo  negò  in  prestito.  —  Cinque  giorni 


GIAMBI   ED    EPODI.  169 

di  poi,  il  ministro  Broglio  mandava  il  libro.  Mi- 
serie tutte  e  ridicolaggini;  più  ancora  che  ini- 
quità! Non  si  fa  i  martiri  per  cosi  poco.  Né  io 
avrei  pensato  a  riscalducciare  questi  cavoli  marci, 
se  non  fosse  stato  per  mandarne  il  profumo  a'  nasi 
di  quei  moderati,  che  nella  gabbia  dell'  opposizione 
sollevarono  e  fomentarono  pur  ieri  tanta  vergogna 
di  scandali  intorno  un  disgraziato  processo,  per 
provare  forse  anche  una  volta  di  più  che  partito 
d*  ordine  siano  essi  e  come  intendano  il  rispetto 
all'  autorità  quando  V  autorità  non  son  loro. 

Ma  i  cavoli  riscaldati,  cioè  i  rancori  o  le  bizze 
personali,  non  entrarono  per  nulla  nella  forma- 
zione dei  Giambi  ed  Epodi.  Piano!  qualche 
cosa  di  personale  e'  entrò  pure.  Ecco.  Quando 
più  ferveano  le  ciarle  intorno  a'  sospesi,  un  diario 
moderato  di  Torino  osò  titolarmi  di  "  scrittore 
elegante  „.  Ora  bisogna  sapere  che  dose  di  com- 
patimento e  disprezzo  un  farmacista  di  politica 
addensi,  o  addensasse  una  volta,  in  tali  un  sog- 
getto e  un  attributo.  A  me,  "  scrittore  elegante  „  ? 
Ve  la  darò  io,  carini,  V  eleganza.  E  in  questi 
quattordici  anni  ho  fatto  quel  più  che  potevo  per 
dimostrare  a'  miei  dolci  nemici  tutta  la  mia  ele- 
ganza. Un  d'  essi  in  un  giornale  del  '69  mi  ren- 
deva giustizia,  scrivendo  —  Dopo  la  sospensione 
è  peggio  di  prima.  —  Era  naturale. 


lyo  GIAMBI    ED    EPODI. 


VI. 


Tra  tali  vicende  di  fatto  e  di  sentimenti  fu- 
rono composte  le  rime  contenute  in  questo  vo- 
lume,  e  non  vanno  oltre  il  1872.  E  di  comporne 
ancora  di  simili  non  mi  sento  più  in  vena.  Per 
tre  ragioni,  i)  Con  la  rivendicazione  di  Roma 
air  Italia,  comunque  andasse,  il  supremo  ideale 
della  mia  politica  nazionale  fu  raggiunto,  e  fini  la 
bella  età  leggendaria  della  democrazia  italiana. 
2)  Con  la  riforma  elettorale  è  quasi  raggiunto,  o 
si  può  agevolmente  finir  di  raggiungere,  l' altro 
ideale'  della  mia  politica  democratica,  il  suffragio 
universale  ;  e  con  questo  la  democrazia,  anzi  tutta 
la  nazione  entra  in  una  fase  d*  agitazione  e  d' evo- 
luzione, che  avrà  bisogno,  e  abondanza,  di  prosa, 
magari  brutta,  e  niente  affatto  di  poesia.  3)  Poesia 
come  quella  degli  epodi  e  dei  giambi  non  è  che 
d*  un  periodo,  e  d'  un  breve  periodo,  della  vita, 
nel  quale  Y  artista  sente  e  rende  un  momento 
storico  rapido  e  sfuggente  che  gli  è  antipatico  o 
simpatico  :  passato  quel  momento,  se  1'  artista  sì 
ostinasse  a  vestire  delle  stesse  forme  quello  che 
nella  mobile  evoluzione  dei  fatti  e  dei  sentimenti 
non  è  più  lo  stesso  fenomeno  e  eh'  egli  non  per- 
cepisce più  con  la  stessa  energia,  V  artista  non 
sarebbe  più  nella  vera  condizione  d'  artista  ma 
nella  posa,  e  finirebbe  imitatore  e  caricaturista  di 
sé  stesso:  ecco  perché  Augusto  Barbier  non  lanciò 


GIAMBI   ED    EPODI.  I7I 

i  suoi  giambi  oltre  il  termine  di  tre  anni,  e  gli 
ultimi  accusano  già  V  arco  rilassato  ;  e  perché 
Giovanni  Berchet  compose  le  sue  romanze  tutte 
tra  il  '21  e  il  '28,  e  il  canto  per  la  rivoluzione 
del  '31  non  è  più  un  gran  che.  U  artista,  lo  dissi 
altra  volta,  non  è  un  formatore  di  mattoni  o  di 
tegole,  e  non  riceve,  o  non  dovrebbe  ricevere, 
ordinazioni  o  mandati  imperativi  da  nessuno,  né 
meno  dalla  democrazia:  come,  del  resto,  ha  ra- 
gione di  ridere  di  quelli  che  nel  fervore  dell'opera 
vengono  ad  ammonirlo  —  Ma  no,  tu  non  hai  da 
far  questo,  hai  anzi  da  far  quest'  altro  —  No,  tu 
non  sei  nato  per  far  cosi,  devi  invece  far  cosà 
—  No,  tu  non  sei  questo,  sei  quello. 

Di  tali  giocondità  e  sollievi  nella  tristezza  io 
sono  debitore  a  molti,  e  più  di  fresco  a  un  gio- 
vine professore  non  so  se  di  ginnasio  o  di  liceo, 
il  quale  in  una  prefazione  a  certe  sue  traduzioni 
dair  inglese  sorse  ad  annunziarmi  che  io  son  re- 
pubblicano soltanto  per  imitazione  dello  Shelley, 
del  Heine,  dell'  Hugo,  del  Swinburne.  Capisco 
che,  tutto  affannato  a  instupidire  i  lettori  con  le 
sue  esibizioni  di  letteratura  straniera,  egli  non  si 
accorse  di  dirmi  ingiuria.  E  (da  poi  che  è  di 
prammatica  che  ogni  truccone  di  qual  si  voglia 
sbercia  tedesca  o  inglese  o  francese,  prefazionando 
alla  rinnovatrice  opera  sua,  abbia  a  dir  corna  di 
ogni  cosa  italiana  antica  e  moderna),  tutto  affan- 
nato anch'  egli  il  mio  correggidore  a  riveder  le 
bucce  a  tutta  la  lingua  e  letteratura  d' Italia    dal- 


172  GIAMBI   ED    EPODI. 

r  alto  della  sua  manzonerìa  e  a  giudicare  con 
autorità  ed  esperienza  di  traduttore  in  versi  sciolti 
più  o  meno  maffeiani  i  morti  ed  i  vivi,  non  ebbe 
poi  tempo  a  sincerarsi  se  almeno  V  ombra  di  un 
fatto  lontano  si  riflettesse  nelle  visioni  della  sua 
agile  estetica.  Egli,  per  esempio,  anche  afferma 
che  la  materia  delle  Odi  Barbare  proviene  da 
Swinburne.  E  io  di  Swinburne  non  conoscevo 
che  la  Fedra  tradotta  in  versi  da  Giuseppe  Chia- 
rini e  r  ode  in  morte  del  Mazzini  tradotta  in 
prosa  non  so  da  chi,  delle  quali  che  attenenza 
offrano  con  le  odi  barbare  altri  giudichi.  Solo 
nel  passato  agosto  lessi  nell'  originale  T  inno  a 
Proserpina  in  compagnia  di  due  figliuoli  del  Chia- 
rini che  mi  facean  da  maestri  :  "  dolce  n'  è  la 
memoria  „,  per  amore  di  que'  due  bravi  ragazzi, 
Cino  e  Piero,  e  per  amore  anche  d'  un  certo  vi- 
netto di  Chianti,  de'  cui  sorseggiamenti  io  inter- 
pungeva in  quelle  calde  e  care  serate  livornesi  il 
difficile,  testo.  \J  affermazione  dunque  della  pro- 
venienza delle  Odi  Barbare  dalla  poesia  del- 
l'illustre  inglese  non  è  fondata  altrove  che  nel- 
r.  alata  visione  del  mio  correggidore.  Né  più  saldo 
fondaménto  ha  il  giudizio  su'l  mio  importato  re- 
pubblicanesimo. Io  non  debbo  né  voglio  far  qui 
la  storia  della  mia  fede  e  la  storia  delle  tradizioni 
repubblicane  nella  letteratura  e  nella  educazione 
politica  degF  italiani.  Io,  imitando  il  procedimento 
affermativo  del  mio  correggidore,  dico  soltanto 
che  in  Italia,  dopo  Cesare  Balbo,  Camillo  di  Ca- 


GIAMBI   ED    EPODI. 


173 


vouF;  Alfonso  La  Marmora;  Vittorio  Emanuele, 
non  conosco  monarchici  altro  che  sentimentali  e 
opportunisti;  opportunisti,  per  amore  dell'unità  e 
per  timore  del  mutamento  :  io  dico  (  e  lo  dico  con 
tutto  il  rispetto  che  devo  al  capo  dello  stato  e  ad 
un  nobilissimo  gentiluomo)  che  né  anche  la  Maestà 
del  re  Umberto  non  è  un  vero  e  proprio  mo- 
narchico. 

Lucca  (Matilina),  12  sett.  1882. 


CRITICA  E  ARTE 


Dalla   Voce   del   Popolo    di  Bologna 

numeri  di  febbraio  e  marzo  1874: 

in   Bozzetti   critici   e   discorsi   letterari   di   G.  C. 

Livorno,  Vigo,  1883, 

e  in  Confessioni   e   Battaglie   diG.  C.  serie  2.» 

Roma,  Sommaruga,  1883. 


L  signor  Giuseppe  Guerzoni  è  pia- 
ciuto intrattenersi  di  me  e  delle  cose 
mie  a  pie  della  Gazzetta  Ufficiale 
del  regno  d'  Italia  (  12  dicembre 
1873).  Egli  ha  detto,  tra  le  altre,  che  io  mi 
sento  dio  e  da  dio  mi  atteggio:  ancora,  mi  ha 
esortato  ad  "  accogliere  la  critica  cortese  ed 
onesta  come  un'  amica,  a  disputar  seco  ma  ad 
ascoltarla  „.  Ascoltiamo  dunque  il  signor  Guer- 
zoni, rappresentante  della  critica  onesta  e  cor- 
tese: diamogli  una  prova  della  nostra  umanità: 
disputiamo. 

Disputiamo?  Non  vorrei  promettere  troppo. 
^'  L' orgoglio  dei  piccoli  —  scriveva  il  Voltaire  — 
sta  nel  parlar  sempre  di  sé,  1'  orgoglio  dei  grandi 
nel  non  parlar  di  sé  mai.  Quest'  ultimo  orgoglio 
è  senza  fine  più   nobile,   ma   talora   un   po'  insul- 

Carducci.  4.  12 


178  CRITICA   E'  ARTE. 

tante  per  la  brigata;  vuol  dire:  Signori,  non  vai 
la  pena  eh'  io  cerchi  di  essere  stimato  da  voi.  „ 
Per  me,  rinunzio  volentieri  all'orgoglio  dei  grandi; 
ma  dorrebbemi  assai,  se,  per  liberarmi  dalla  rag- 
giera postami  intorno  dal  signor  Guerzoni,  do- 
vessi incorrere  nelF  orgoglio  dei  piccoli.  Se  non 
che  per  avventura  io  mi  lusingo  di  mascherare 
il  mio  amor  proprio  con  V  intendimento  di  dir 
qualche  cosa  non  del  tutto  inutile  intorno  a  ciò 
che  in  Italia  chiamasi  critica  e  all'  arte  dirimpetto 
d' essa. 

Ma  badi  anzi  tutto  il  signor  Guerzoni.  Egli 
parve  avere  usurpato  alla  mia  tavolozza  di  poeta, 
quando  è,  come  la  qualifica  egli,  più  sanguigna, 
quei  troppo  accesi  e  lussureggianti  colori  che  non 
forse  senza  ragione  lo  offendono  ne'  miei  versi 
più  d'  una  volta  :  cotesti  colori,  dico,  ei  pare  averli 
usurpati  per  la  sua  prosa  là  dove  dipinge  l' ac- 
canimento mio  contro  i  miei  critici.  A  sentir  lui, 
"  qualunque  cenàura  più  onesta  e  ragionata  mi 
fa  dare  in  smanie  e  furori  „;  io  tratto  il  critico 
come  Roma  il  nemico.  Contra  (cosi  scrive  il 
signor  Guerzoni,  ma  il  testo  delle  dodici  tavole 
porta  più  latinamente  adverstts),  Contra  hostem 
aeterna  auctoritas  :  scaravento  addosso  al  critica 
corone  di  vituperii,  che  in  paragone  è  di  rose  la 
corona  di  sonetti  d' Annibal  Caro  contro  il  Ca- 
stelvetro;  e  poi  lo  scortico,  come  Apollo  fece  a 
Marsia;  e  in  fine  me  lo  mangio:  sono  dunque  ac- 
cademico, dio  e  bestia  tutto  ad  un  tempo.   Il  che 


CRITICA   E    ARTE.  I79 

è  trovato,  retoricamente,  bene.  Ma  rimettiamo  le 
cose  e  le  parole  al  posto. 

Annibal  Caro  titolava  il  Castelvetro  cosi: 

....  un  antropofago,  un  Lestrigone, 
Un  mostro  cosf  rozzo  e  cosi  fero, 
Un  eh'  è  di  lingua  e  d'  opre  e  dì  pensiero 
Una  sfinge  un  Busiri  un  Licaone. 

Anche  lo  dipingeva  in  questa  guisa: 

Di  più  lingue  aspe  e  scorpio  di  più  code; 
Idra  di  mille  teste,  e  d'una  tale 
Che  latra  e  morde,  e  come  sferza  o  strale 
Incontr'a  Dio  par  che  s'avventi  e  snodo: 

Chimera  di  bugie;  volpe  di  frode; 
Corvo  nunzio  e  ministro  d'ogni  male; 
Verme  che  fila  e  tesse  opra  si  frale 
Che  l'aura  e  '1  fumo  la  disperge  e  rode: 

Scimia  di  sangue  putrido  e  di  seme 
D'orgogliosi  giganti;  e  verp  e  vivo 
Crocòdilo  che  1' uom  divora  e  geme; 

E  quanto  aborre  e  quanto  ha '1  mondo -a  schivo 
Sembra,  ed  è  veramente,  accolto  insieme 
Il  mostro  di  ch'io  parlo  e  di  ch'io  scrivo, 

E  lo  accusava  a  chiare  note  di  avere  ucciso  un 
figliolo,  e  finiva  accomandandolo  agli  inquisitori, 
al  bargello  ed  al  grandissimo  diavolo.  Ora  dove 
ha  letto  il  signor  Guerzoni  qualche  cosa  di  mio 
contro  i  miei  critici  che  arieggi  alle  invettive  ri- 
mate dell'  elegantissimo  Caro  ?  O,  più  largamente 
ancora,  dove  ha  egli  letto  qualche  cosa  di  mio 
contro  i  miei  critici?  E  m' han  detto,  e  per  molti 
anni,  ben  altro  che  il  Castelvetro  al  Caro. 


l8o  CRITICA   E   ARTE. 

Da  ragazzo  cominciai  certa  risposta  a  un  le- 
pido dittatore  letterario  d' allora,  ma  ben  presto 
lasciai  per  annoiato  l' impresa,  accortomi  che  a 
disputar  di  stile  poetico  con  chi  non  sapeva  né 
latino  né  italiano  era  tempo  perduto.  Nel  '68  difesi 
tenacemente,  ma  onestamente,  l'idea  del  Satana; 
l'idea  e  non  la  poesia:  però  ch'io  credo  che  un 
calzolaio  o  un  sarto  possa,  anzi  debba,  dimostrare 
per  belle  e  fatte  bene  le  opere  sue  ai  compratori 
e  ordinatori,  ma  non  le  sue  un  poeta  al  pubblico. 
Il  signor  Guerzoni  mi  rinfaccia  Fucci  filologo  : 
ma  contro  il  Fucci  filologo  ed  uomo  insorsi  ven- 
dicatore dell'  onestà  letteraria  e  della  dignità  ci- 
vile, tacendo  tutti,  o  quasi,  anche  quelli  che  di 
poi  mi  han  dato  ragione,  io  primo,  solo,  e  ancor 
ragazzo,  avanti  che  egli  avesse  parlato  di  me, 
avanti  di  aver  pubblicato  io  versi.  Egli  mi  raf- 
faccia  Mena  buffone  e  altre  figure  o  figuri  del- 
l'epodo intitolato  A  certi  censori',  ma  quelli  non 
sono  critici,  quelli  son  tipi  della  ipocrisia  e  falsità 
italiana  verniciata  a  fuoco  d' idealismo  o  di  ci, 
vismo,  dei  quali  io  con  estetico  soddisfacimento  e 
serenità  artistica  trascelsi  le  linee  elementari  dai 
mostacci  di  certa  gente  che  formicola,  ribolle, 
barbotta,  e  Hscia  e  striscia  e  zufola  negli  offici 
dei  giornali  e  nelle  sale  di  conversazione:  sa- 
rebbe lo  stesso  che  nelle  caricature  del  Ballo  di 
Giuseppe  Giusti  si  volesse  vedere  una  vendetta 
del  poeta  su  persone  alle  quali  non  fosser  pia- 
ciuti  i    suoi    versi.   Dunque   che   rimane    di   vero 


CRITICA   E   ARTE.  l8l 

nella  ipotiposi  che  il  signor  Guerzoni  fa  de' miei 
disdegni  olimpici,  dei  furori  apollinei,  delle  mie 
smanie  accademiche  e  bestiali  contro  la  critica  e 
i  critici?  Rimane  la  opportunità. 

Faceva  comodo  all'  egotismo,  che  per  lo  più 
distingue  tra  gli  altri  i  critici  italiani,  e  che  tra  i 
critici  italiani  pare  distingua  specialissimamente 
il  signor  Giuseppe  Guerzoni  ;  faceva  comodo,  dico, 
air  egotismo  del  signor  Guerzoni  di  rappresentar 
me  sùbito  nelle  prime  linee  come  un  lioncello 
ferito,  per  presentar  poi  sé  stesso  al  cólto  pub- 
blico, e  dire:  —  Signore  e  signori,  vedete  voi 
questa  belva  indigena  del  Senegal?  vedete  come 
arriccia  la  giubba,  come  balza,  come  sgretola  i 
denti  contro  i  ferri  della  gabbia,  quasi  qiiaerens 
quem  devoreP.  Ora  ecco,  signore  e  signori:  io 
Giuseppe  Guerzoni,  cittadino  benemerito,  amico 
della  virtù  e  della  fede,  e  libero  ingegno,  io  che 
negli  onorati  riposi  dalle  cure  politiche  maneggio 
la  penna  d' oca  con  quella  intrepidezza  con  la 
quale  un  giorno  maneggiavo  la  spada,  vedete, 
signore  e  signori,  come  io  lo  tratto  questo  lion- 
cello? Io  gli  fisso  il  mio  ferreo  sguardo  negli 
occhi,  ed  egli  brontolando  si  rincantuccia  e  ac- 
covaccia. Io  con  la  punta  incandescente  del  mio 
stile  gli  accenno,  ed  egli  si  dimostra  e  si  atteggia 
in  tutte  le  selvagge  sue  forme  e  qualità  dinanzi 
a  voi,  signore  e  signori.  Io  lo  domerò:  io  l'ha 
domato.  Va,  accuccia,  Enotrio:  "  la  tua  potenza 
come  la  tua  miseria  non  mi  tange  „. 


l82  CRITICA   E   ARTE. 

Questo  è  r  intimo  senso  dell'esordio  che  apre 
r  articolo  del  signor  Guerzoni:  il  quale  esordio 
può  anche  darsi  che  sia  cortese  ;  certo  è  sapiente. 
La  messa  in  scena  dell*  io  guerzoniano  non  po- 
teva essere  più  solenne.  Di  certe  cose  pare  che 
il  signor  Guerzoni  s' intenda. 


II. 


Ripeto  che  fino  ad  ora  io  non  ho  avuto  che  dire 
con  i  miei  critici.  Ho  per  altro  osservato  attenta- 
mente e  studiato  le  produzioni  e  i  produttori  di 
quella  critica  che  oggi  in  Italia  è  più  usuale,  più 
di  consumo,  più  popolare,  per  adoperare  un  voca- 
bolo che  tutti  adoperano  pur  sapendo  che  è  una 
menzogna  ma  convenendo  di  ritenerlo  per  vero. 
•Cotesta  critica  compie  le  sue  furfeioni  per  mezzo 
della  stampa  quotidiana  o  periodica,  e  conta  va- 
lenti e  modesti  scrittori:  ma  i  propri  cultori  di 
•essa,  i  caratteri,  i  tipi,  sono  diversi  e  di  più  guise. 

Primo  vien  quello  a  cui  fu  aggiustato  cosi  bene 
il  nome  di  chierichino:  il  redattore,  cioè,  di  terzo 
o  quarto  ordine  dei  giornali  che  sono  o  tengonsi 
grandi  e  accreditati,  un  che  di  mezzo  tra  il  rap- 
portatore e  il  cronista,  che  fa  appendici,  secondo 
il  bisogno,  teatrali  o  artistiche  o  letterarie,  che 
oggi  discorre  di  un  quadro  o  di  una  statua  o 
d' un  romanzo  o  d'  un  atlante  geografico  o  d*  un 
libro  di  metafisica,  come  domani  parlerà  d'ima 
mostra  agricola  o   d' una   fiera   di   beneficenza  o 


CRITICA   E   ARTE.  ^[83 

dei  fratelli  siamesi  o  dell'  usignolo  a  due  teste  o 
dello  scià  di  Persia  o  delle  vostre  poesie.  Il  chie- 
richino  può  essere  giovine  e  parere  già  vecchio, 
può  battere  alla  porta  della  cinquantina  ed  essere 
sempre  giovine.  Nel  primo  caso  è  per  lo  più  uno 
scolare  di  liceo  che  falli  alle  prove  di  greco  o 
di  matematica,  o  un  antico  studente  universitario 
che  non  trova  i  soddisfacimenti  del  genio  nelle 
pandette  o  nella  geodesia:  in  vece,  scrittore  di 
giornali,  egli  parla  del  suo  "  lungo  studio  e  grande 
amore  „  alla  filosofia  della  storia,  alla  filosofia 
deir  arte,  alla  filosofia  della  critica,  a  tutto  quello, 
cioè,  che  non  è  proprio  arte  o  storia  o  critica, 
perché  procedendo  nelle  sue  divagazioni  geniali 
s'  è  accorto  come  1'  arte  la  storia  e  la  critica  pura 
gli  assomigliano  un  po'  troppo  al  greco,  alle  ma- 
tematiche, alle  pandette  e  alla  geodesia.  Nel  se- 
condo caso  può  essere  un  avvocato  a  cui  fallirono 
i  clienti;  onde  egli  per  dispetto  fece  una  o  più 
commedie,  e  fu  fischiato;  e,  a  conforto,  scrisse  o 
scrive  romanzi  che  distraggono  gli  sbadigli  delle 
cameriere  cosi  sentimentali  quando  aspettano  la 
signora. 

Con  tali  intendimenti,  -con  tali  avviamenti,  il 
chierichino  non  potè  mai  salire  nel  giornale  al 
sancia  sanctorum  degli  articoli  di  fondo,  del  primo 
Roma  o  del  primo  Milano:  per  i  suoi  colleghi, 
uomini  seri,  egli  è  sempre  un  po'  artista,  secondo 
il  rfl^bile  concetto  che  i  consumatori  di  politica 
hanno  e   si   fanno   dell'arte.   Povero  chierichino! 


184  CRITICA   E   ARTE. 

E  dire  eh'  egli  non  ha  né  pur  V  ombra  della  labe 
di  cotesto  peccato  dell' arte^  solo  peccato  per  il 
quale  nella  società  moderna;  e  specialmente  in  certi 
paesi;  non  vi  sia  né  redenzione  religiosa  né  riabi- 
litazione civile!  Povero  chierichino!  E  dire  che  egli 
è  proprio  nato  chierichino  !  se  per  essere  tale  bi- 
sogna,  come  io  credo  e  molti  credono,  che  l'uomo 
sia  stato  benedetto  dalla  natura  con  tale  uno  sca- 
paccione, cTie,  schiacciato  l' osso  frontale,  il  colpo 
abbia  rimbalzato  fino  al  cuore.  Cosi  egli,  leggero 
e  libero  d' ogni  peso,  può  diportare  a  suo  beli'  agio 
per  i  filari  del  giornale  la  sua  testicciuola  e  la 
personcina  con  la  procacia  saltellante  del  mon- 
toncino  di  madamigella  Silvia  e  con  gì'  impetti- 
menti  del  cagnolo  di  madama  Amaranta;  può  con 
la  indifferenza  irresponsabile  del  montone  brucare 
le  erbette  che  spuntano  a  pie  dell'  albero  della 
scienza  e  dell'  ignoranza,  del  bene  e  del  male,  e 
con  la  petulanza  innocua  del  pomero  de'  barroc- 
ciai può  abbaiare  a  chi  va  per  la  sua  strada  di 
su  '1  carico  di  fieno  o  strame  o  frumento,  o  delle 
brocche,  delle  pignatte  e  dei  vasi  da  notte  del- 
l' opinion  pubblica,  che  il  suo  giornale  trasporta 
e  il  redattore  capo  guida  e  governa  schioc- 
cando lentamente  la  lunga  frusta  a  diritta  e  a  si- 
nistra intorno  agU  orecchi  delle  sue  bestie,  che 
se  ne  vanno  co  '1  solito  alzare  e  abbassare  della 
testa  e  co  '1  solito  squillar  dei  sonaglieli. 

Ma  lasciamo  da   parte   le   simihtudini   bestiaH. 
L'  officio    principale;    la  incumbenza  solenne  del 


CRITICA   E    ARTE.  185 

chierichìno  è  di  portare  il  turibolo,  T  aspersorio- 
e  la  catinella  dell'acqua  santa  innanzi  o  dietra 
agli  arcipreti  della  libera  stampa,  cioè  ai  giorna- 
listi di  questo  o  di  quel  partito.  E  quando  V  ar> 
ciprete  brontola  dall'  alto  del  primo  articolo  Do- 
mmus  vobiscum,  il  chierichino  dagli  ultimi  gradini 
risponde  Et  cum  spiritu  tuo)  e  incensa  a  mana 
a  mano  gli  altri  preti  che  cantano  la  messa  in- 
sieme con  l'arciprete  suo;  e  grida  raka  a  chi 
non  crede  che  essi  posseggano  soli  la  verità  e 
la  bellezza,  come  quelli  che  ogni  giorno  1'  attin- 
gono alla  fonte  viva,  e  ogni  mattina  dopo  il  caffè 
e  ogni  sera  dopo  il  rosolio  risciacquandosene  la 
bocca  la  spruzzano  su  '1  popolo.  Ma,  come  il 
chierichino,  salvo  un  po'  d' intontimento  malestrua 
rimastogli  per  quello  scapaccione  di  madre  natura,, 
non  è  in  fondo  in  fondo  cattivo  ragazzo,  cosi  egli  è 
contento  come  una  pasqua  quando  T  arciprete  gli 
ordina  di  fare  il  panegirico  di  qualche  santo  della 
collegiata  o  di  rammemorare  o  commemorare 
qualche  fedele;  quando  cioè  ha  da  parlare  di  quei 
libri  che  portano  certi  nomi,  certi  titoli,  certe 
dedicatorie,  certe  raccomandazioni.  Oh  come  rag- 
gia allora  seraficamente  il  chierichino  nel  bel 
roccetto  dello  stile  del  di  delle  feste,  con  le  falde 
e  le  crespe  tutte  stridenti  «e  sgargianti  nella  az- 
zurrastra e  rigida  inamidatura  della  accademia 
nazionale,  costituzionale,  progressista,  democra- 
tica! Con  che  quilia  di  voce  intona  i  mottetti! 
Tale  doveva  essere,   dalla   voce   accapponata   al- 


l86  CRITICA   E   ARTE. 

r  infuori^    il    sere    da    Varlungo    quando    cantava 
r  Ite  mìssa  est  guardando  alla  Belcolpre. 

Se  non  che  il  chierichino  in  fine  in  fine  è  un 
uomo  anche  lui  come  un  altro;  ed  ha  i  suoi  bi- 
sogni cosi  fisiologici  come  letterari,  i  suoi  gusti 
cosi  gastronomici  come  estetici.  V*è  dunque  una 
poesia  ch'egli  ama  proprio  d'  amore  e  per  sé:  la 
poesia  da  parrucchiere.  Quei  versi,  quelle  strofe, 
quelle  imagini,  quei  pensieri,  quei  personaggi  che 
stanno  li  nella  vetrina  del  componimento  tutti  im- 
pettiti, e  bianchi  e  rossi,  ed  acconciati,  a  guar- 
darvi co  '1  loro  lucido  immobile  sorriso  imbecille 
di  stucco  e  di  biacca  :  ecco  il  suo  ideale.  Ci  scam- 
pino sempre  le  muse  dalla  indulgenza  del  chie- 
richino !  egli  è  tanto  buon  diavolo  da  crocifiggerci, 
in  un  momento  di  lieto  umore,  su  '1  calvario  di 
un'  appendice,  con  i  chiodi  della  sua  compiacenza, 
tra  due  testiere. 


III. 


Fu  detto  che  in.  Italia  una  volta  i  giovini  esor- 
divano coi  sonetti  nelle  raccolte  e  oggi  esordiscono 
con  le  critiche  nei  giornali;  e  fia  anche  dimandato 
—  Qual  delle  due  è  peggio?  —  A  me  pare  che 
l'una  e  l'altra  bruttura  facciano  oggi  pur  troppo 
i  giovini;  e  delle  due  è  più  fastidiosa  la  seconda. 

Il  crìtico  giovinetto,  altro  dei  tipi  della  lettera- 
tura corrente,  differisce  dal  chierichino  in  molte 
cose,  e  massime   in   questa:    che   egli   non   si   ri- 


CRITICA   E   ARTE.  187 

Stringe  ai  giornali  politici;  su  i  quali,  del  resto, 
senza  badare  a'  colori,  lascia,  come  le  mosche,  i 
segni  del  suo  passaggio;  ma  aspira  alle  riviste 
ed  al  libro.  E  in  tanto  cammina,  cammina,  per  il 
deserto,  saltellando  affannoso  di  articolo  in  arti- 
colo, verso  una  terra  che  nessuno  gli  ha  promesso, 
con  gli  occhi  fissi  alla  colonna  di  fuoco,  cioè  alla 
futura  edizione  de'  suoi  Saggi  critici  o  estetici, 
destinata  a  illuminare  il  mondo.  Anch'  egli  usci 
<ial  liceo  con  un  odio  cordiale  al  greco  e  alle 
matematiche,  ma  anche,  siamo  giusti,  con  una 
venerazione  e  una  passione  da  non  si  dire  per 
la  critica.  —  La  critica  —  egli  andava  ripetendo 
—  oggi  informa  e  compenetra  e  rinnova  tutto: 
la  critica  oggi  è  tutto  :  l' ItaHa  ha  bisogno  di  cri- 
tica quanto  e  più  che  del  pareggio  e  dell'  aboli- 
zione del  corso  forzoso.  Non  dico  ;  il  mio  genio 
sarebbe  per  V  arte,  per  la  grande  arte  ;  cominciai 
a  scriver  drammi  fin  dalla  quarta  elementare:  ma 
la  nostra  è  1'  età  della  crìtica,  e  l' Italia  ha  bisogno 
di  critica.  Sacrifichiamo  alla  età  e  alla  patria  la 
nostra  potenza  creatrice  :  siamo  critici.  —  E  scrisse, 
magnanimamente  scrisse,  per  rafforzarsi  e  mu- 
nirsi contro  le  lascivie  e  le  tentazioni  dell'arte, 
in  lingua  e  in  sintassi  indipendente.  Se  non  che 
■di  quando  in  quando,  specialmente  discorrendo 
di  cose  poetiche,  egli  ripensa  con  un  sospiro  del- 
l' anima  ai  rosei  sogni,  alle  animose  speranze 
de' begU  anni;  e  una  forte  pietà  e  una  ineffabile 
tenerezza  di  sé  stesso  lo  assalgono;  e  il  rimorso 


l88  CRITICA    E    ARTE. 

del  procurato  aborto  dei  romanzi^  dei  poemi,  dei 
drammi,  che  gli  palpitavano  già  tenerelli  nelle 
poetiche  viscere,  gli  riga  di  sudore  la  fronte  chi- 
nata nelle  serie  elucubrazioni;  ed  è  capace  di 
finire  una  rassegna  d' un  fascicoletto  di  quattro 
versioni  metriche  dal  tedesco  cosi:  —  Felice  lui 
{ il  traduttore  ),  a  cui  sono  dischiusi  i  larghi  e 
sereni  campi  dell'arte!  Noi  siamo  condannati  a 
fare  saggi,  bozzetti,  rassegne  — .  Ma  a  poco  a 
poco  il  mestiere  lo  vìnce.  E  poi  quel  parlare  in 
prima  persona  plurale,  quel  figurarsi  di  avere,, 
appoggiata  a  un  colonnino  di  giornale,  la  sua 
cattedruzza,  dalla  quale  guidare  un  po'  po'  1'  opi- 
nione, e  forse,  chi  sa?,  illuminarla,  e  incutere 
anche,  perché  no?,  un'idea  bizzarra,  un  vago 
terrore  di  sé,  sono  imagini  teatrali  queste  che 
rapiscono  l'innocente,  uscito  pur  ora  dai  confini 
di  quella  età,  che  è,  come  sappiamo,  istintiva- 
mente comica  e  imitatrice.  E  poi  la  malattia  del 
secolo,  di  questo  secolo  grande  ma  pedante;  la 
malattia,  dico,  di  fare  il  maestro,  d' avere  a  in- 
segnare qualche  cosa  e  tutto  a  qualcheduno  e  a 
tutti,  per  la  quale  trecento  milioni  d' europei  saran 
ridotti  a  momenti  a  farsi  lezione  l' un  con  1'  altro 
schierati  su  tanti  panchetti  l' uno  in  faccia  all'  altro 
su  per  monti  e  per  piani;  cotesta  malattia  ha 
menato  già  orribili  guasti  nel  giovinetto,  e  gli 
sale  su  su  dal  cuore  al  viso  e  alla  testa.  Bel  sen- 
nino d' oro  !  ha  venti  anni,  e  vi  vien  voglia  di 
pigliarlo  pe  '1  ganascino,  e  adagiargli  la  faccia  su- 


CRITICA   E    ARTE.  189 

pina,  a  vedere  se  ha  più  denti  in  bocca  e  se 
sotto  il  labbro  imberbe  gli  sbiechi  aguzza  e  vez- 
zosetta  la  bazza  calcolatrice.  E  per  ciò  forse  egli 
in  ogni  congiuntura  declina  la  qualità  sua  di  gio- 
vine; e  nelle  sue  giornate  letterarie  procede  alla 
scoperta  oggi  d'  un  romanziere  giovine,  domani 
d' un  drammaturgo  giovine,  dopo  dimani  d' un 
poeta  giovine.  E  poi  tutti  d'  accordo  si  sbaciuc- 
chiano r  un  con  r  altro  per  le  appendici,  con  le 
dedicatorie,  nelle  rassegne;  e  denudano  in  con- 
spetto del  pubblico  le  loro  pubertà,  cantando  in 
coro:  Noi  siamo  i  giovini,  i  giovini,  i  giovini. 

Ciò  non  vuol  dire  che  il  critico  giovinetto  non 
corteggi  quelli  che  scrivono  da  qualche  anno.  Vi 
manda,  per  esempio,  una  sua  appendice  di  gior- 
nal  teatrale,  con  un  segno  di  lapis  verde  o  rosso 
alla  linea  dove  vi  ha  fatto  l'onore  di  nominarvi. 
Voi  non  gli  rispondete;  o,  per  dir  meglio,  io  non 
gli  rispondo.  Ed  eccovi  poco  di  poi  un  altro  gior- 
nale, più  grande,  più  serio,  nel  quale  il  giovinetto 
vi  ha  consacrato  un  periodo;  e  con  una  nota 
manoscritta  in  calce  o  al  margine,  a  costo  di 
farvi  pagare  la  multa  postale,  vi  avvisa  che  aspetta 
il  vostro  giudizio.  Voi  non  gli  rispondete:  o,  me- 
glio, voi  lettore  gli  rispondete,  se  vi  piace,  ma 
io  no.  Ed  ecco  che  un  bel  giorno  mi  veggo  ca- 
pitare un  fascicoletto,  intitolato  Studio,  o  Saggio, 
o  Impressione,  o  Ritratto,  o  Bozzetto,  o  Profilo; 
una  impiccagione  in  somma  alle  forche  della  pub- 
blicità, fatta  in  tutte  le  regole  dall'  accanito  critico 


190  CRITICA    E    ARTE. 

giovinetto  a  danno  della  vita  di  qualche  sciagu- 
rato, magari  d' un  altro  critico  giovinetto  :  sono 
gente  quella  da  inferocire  e  mangiar  V  un  del- 
l' altro  in  famiglia,  per  disperazione.  E  al  fascicola 
si  accompagna  una  lettera  del  critico,  che  inter- 
pellandovi co  1  voi  vi  si  offre  paratissimo  a  con- 
ciare a  quel  modo  anche  voi,  se  gli  mandiate  il 
vostro  ultimo  libro.  Allora  poi  sarebbe  il  caso  di 
rispondere,  chi  ne  avesse  voglia,  a  un  di  presso 
cosi: 

—  Un  critico  deve  anzi  tutto  conoscere  per- 
fettamente la  lingua,  la  letteratura,  la  storia  del 
suo  paese,  da  quanto  uno  che  abbia  il  dovere 
d' insegnarle.  Ciò  pare  semplicemente  naturale, 
non  è  vero?,  se  bene  non  sia  comune:  voi,  si- 
gnore, per  esempio,  non  sapete  la  grammatica. 
Ma  non  basta.  Come,  volere  o  non  volere,  i  modi 
e  le  forme  del  concetto  e  del  lavoro  artistico  a 
noi,  per  le  tradizioni  e  per  la  educazion  nostra, 
procedono  in  gran  parte  dagli  studi  classici,  cosi 
il  critico  per  me  dee  avere  più  che  sufficiente 
cognizione  d' una  almeno  delle  due  lingue  clas- 
siche e  conoscenza  ampissima  poi  della  storia  e 
dei  modelli  di  ambedue  le  classiche  letterature. 
E  non  basta.  Noi  siamo  e  vogliamo  essere  mo- 
derni: ora  la  letteratura  che  da  due  secoU  ha 
dato  e  dà  le  forme  più  logiche,  più  spigliate,  più 
facili  al  pensiero  moderno  è  senza  dubbio  la 
francese,  e  per  la  letteratura  di  Francia  son  pas- 
sate e   sonosi  mescolate  le   diverse  correnti    del 


A 

k 


CRITICA    E    ARTE.  1.91 

genio  moderno  :  per  ciò  il  critico  deve  conoscere 
di  quella  letteratura  assai  oltre  ai  romanzi  e  ai 
libri  politici  e  di  lettura  comune^  e  molto  più  che 
non  serva  alla  elegante  conversazione.  E  non 
basta.  Della  letteratura  tedesca  e  della  inglese 
che  ne  pensa  il  critico?  Egli  sa  di  certo  per 
quanta  parte  l' elemento  germanico  entrò*  nelle 
nostre  letterature  da  antico,  e  come  Inghilterra 
e  Germania  poi  intendano  da  oltre  un  secolo  a 
modificare  incessantemente  la  politica  la  filosofia 
e  r  arte  moderna.  Una  almeno  delle  due  lettera- 
ture gli  convien  dunque  conoscere,  e  un  po'  più 
in  là  della  superficie.  E  con  tutto  questo  il  critico 
deve  possedere  V  instrumento  della  filosofia  e 
l'uso  della  storia  tanto  da  rendersi  ragione  degli 
svolgimenti  e  delle  trasformazioni  interiori  ed 
esteriori  della  letteratura  rispetto  agli  svolgimenti 
e  alle  trasformazioni  degli  spiriti  dell'individuo  e 
della  civiltà.  E  di  tutto  questo  dee  avere  avuto 
tempo  e  forza  per  essersene  fatto  con  la  medi- 
tazione una  sintesi  propria.  E  con  tutto  questo 
non  sarà  critico  intero,  piacevole,  utile,  se  non 
abbia  ingegno  o  facoltà  veruna  di  artista.  La  crì- 
tica letteraria,  del  resto,  ai  giorni  nostri  non  può. 
né  deve  consistere  in  altro  che  nelF  applicare  a 
un  fatto  nuovo,  o  ad  una  serie  di  fatti  apparen* 
temente  nuovi,  l'osservazione  storica  ed  estetica, 
individuale  a  ogni  modo  e  relativa,  ma  che  pure 
acquista  valore  da  chi  la  faccia  e  dal  fondamento 
che  ella  abbia  in  una  lunga  e  razionale  esperienza 


192  CRITICA    E    ARTE. 

di  esami  e  raffronti  tra  più  fatti  consimili  e  di- 
versi in  tempi;  in  luoghi,  in  condizioni  consimili 
€  diverse.  Stando  cosi  le  cose,  voi  capite  bene, 
signor  miO;  che  il  pubblicar  voi  sotto  il  titolo  di 
critica  le  vostre  impressioni,  o  le  reminiscenze 
dei  vostri  imparaticci  di  scuola,  o  il  formulario 
dell'  ultimo  libro  che  avete  letto,  o  i  piccoli  amori 
€  i  piccoli  odii  di  una  combriccola  di  brave  per- 
sone, è  cosa  che  può  piacere  a  voi  e  fino  a  un 
certo  segno  anche  a  me,  ma  che  non  giova  a 
nulla,  non  porta  a  nulla,  non  significa  e  non  at- 
testa nulla,  se  non  forse  la  vanità  dei  nostri  studi 
€  questa  eterna  frega  accademica  che  in  Italia 
ci  rode  e  ci  mangia  tutti.  Ma  v'  è  di  peggio.  A  ve- 
dere come  voi,  ragazzo,  tirate  via  a  spacciare 
una  dottrina  che  non  avete;  a  vedere  le  vostre 
citazioni  di  seconda  mano,  nelle  quali  sbagliate 
fino  i  nomi  degli  autori,  da  tanto  che  li  cono- 
scete; a  vedere  come  non  pure  spogliate  i  libri, 
ma  togliete  da  giornali  recenti  e  prossimi  articoli 
di  amici  e  nemici  e  li  mettete  tra  *1  vostro  lavoro, 
senza  né  anche  un  cencio  di  citazione  pur  ne*  luo- 
ghi meno  in  vista;  a  sentire  come,  con  la  mano 
ancora  su  la  roba  degli  altri,  ingrossate  la  voce 
per  farci  una  lezione  magari  di  morale,  e  ci  sbat- 
tete su  la  faccia  i  vostri  consigli  e  i  suggerimenti 
€  le  ammonizioni;  a  considerare  per  un'  altra 
parte  come  sapete  anche  giocar  destro  nel  far 
comparire  e  scomparire,  staccati  e  riattaccati  op- 
portunamente, i  pensieri  e  i  luoghi  e  le  frasi  del- 


CRITICA   E    ARTE.  I93 

r  autore  che  biasimate  o  lodate;  e  come  dai 
vituperii  trapassate  alle  lodi,  o  dall'  ardenza  alla 
freddezza,  sempre  opportunamente;  e  come  in 
fine  di  fì-onte  all'  imputabilità  di  tali  peccatuzzi 
sgattaiolate  sotto  il  privilegio  della  gioventù;  a 
vedere,  dico,  questa  specie  di  tela  del  Nigetti 
con  r  ordito  di  goffo  e  il  ripieno  di  furfante,  vien 
voglia  di  domandare:  —  Ma  tutto  cotesto  è  leg- 
gerezza soltanto,  o  la  malattia  cutanea  della  lette- 
ratura non  accuserebbe  ella  qualche  vizio  più 
profondo,  e  il  disfacimento  dei  tessuti  organici, 
e  la  mancanza  di  un  vital  nutrimento  dell'anima? 
Ma  come?  Sarà  permesso  a  uno  di  darsi  per 
quel  che  non  è,  di  affermare  quel  che  non  sa, 
di  mostrare  una  cosa  per  un'  altra,  senza  taccia 
di  disonestà,  solo  perché  dice  di  scrivere  ar- 
ticoli di  critica?  E  quel  che  non  si  farebbe, 
o  non  si  farebbe  senza  qualche  pencolo,  nel 
conversare  civile,  si  potrà  fare,  con  solo  il  pe- 
ricolo di  esser  lodato,  nella  stampa?  E  la  impo- 
stura e  la  ciarlataneria,  e  le  ruberie  e  le  mario- 
lerie, non  saranno  più  impostura  e  ciarlataneria, 
ruberie  e  mariolerie,  perché  esercitate,  perpetrate 
e  commesse  nel  territorio  della  letteratura?  E  que- 
sto abito  della  menzogna,  questa  consuetudine 
della  falsità,  questi  sdruccioli  nella  vigliaccheri?, 
non  guasteranno  né  pervertiranno  poi  1'  uomo  e 
il  cittadino,  perché  si  mostrano  nello  scrittore 
principiante?  Ammettiamo  che  no:  il  caso  vostro 
sia  soltanto  una  ragazzata.  Ah,  dunque  voi  avete 

Carducci.  4,  13 


194  CRITICA   E   ARTE. 

proprio  voglia  di  scrivere?  Ma  non  vedete  quanta 
folla  in  Italia  di  gente  che  scrive  e  qual  rarezza 
di  gente  che  legga^  tanto  che  gli  scriventi,  i  più 
almeno,  si  riducono  a  riconoscersi  e  gabellarsi 
tra  loro  senza  che  il  vero  pubblico  si  accorga  né 
meno  che  ci  sieno?  Del  resto,  anche  se  T  Italia 
non  avesse  più  per  cinquanta  o  sessanta  anni  né 
un  artista  né  un  poeta  né  quel  che  si  dice  co- 
munemente uno  scrittore,  o  ne  avesse  uno  o  due 
soltanto,  a  me  e  a  qualche  altro  non  parrebbe 
mica  la  fine  del  mondo.  Siamo  tanto  stufi,  caro 
mio,  di  questa  eterna  e  infinita  e  universale  acca- 
demia che  tien  seduta  tutti  i  giorni  dair  Alpi  al- 
l' Oreto  su  i  temi  della  lingua  parlata  e  della 
lingua  scritta,  della  letteratura  giovine  e  della 
letteratura  vecchia,  dell'idealismo  e  del  realismo; 
siamo  tanto  ristucchi  delle  tenzoni  arcadiche  su 
i  motivi  —  Eir  è,  non  è  —  È  viva,  è  morta  — 
È  dentro,  è  fiiori  — ;  abbiamo,  dico,  tanto  rintronato 
gli  orecchi  di  tutto  ciò,  che,  ora  come  ora,  vedete, 
pcBbriremmo  un  po'  di  silenzio  anche  al  rinno- 
^^■ento  del  teatro  italiano  e  all'  apparizione  del 
i^Banzo  italiano.  Ma,  scusate  :  o  non  facciam  tutti 
i  giorni  le  querimonie  grandi  su  i  tanti  milioni 
d'analfabeti?  Aspettiamo  dunque  che  la  maggio- 
ranza degl'  italiani  imparino  a  leggere;  e  poi  scri- 
veremo, o  scriverete.  Che  se  intanto  gì'  italiani 
imparassero  a  leggere  da  vero  ;  se  l' Italia  intanto 
mettesse  insieme  quel  che  le  manca,  cioè  una 
coltura  superiore  e  generale,  profonda  e  propria; 


CRITICA    E    ARTE.  195 

se  finisse  Y  inventario  del  suo  passato  per  poi 
procedere  avvisata  e  sicura  ai  lavori  e  agli  acqui- 
sti neir  avvenire;  se  scrutando  severamente  il 
proprio  petto  vedesse  di  ritrovarvi  o  di  svegliarvi 
quel  sentimento  della  vita  moderna,  che  ora  non 
ha  o  malamente  affètta  imitando;  oh  a  cotesti 
patti  potremmo  bene  aspettare!  E  che?  e*  è  la 
critica  storica  da  portare  intorno  ai  nostri  clas- 
sici, e*  è  la  storia  di  tutta  la  nostra  letteratura 
antica  e  moderna  da  fare,  e'  è  da  fare  la  storia 
del  nostro  popolo,  questa  sublime  e  drammatica 
storia,  piena  di  tante  glorie,  di  tante  sventure,  di 
tanti  insegnamenti,  e*  è,  innanzi  a  noi,  tutto  que- 
sto lavoro  necessario  a  una  nazione  che  intende 
rinnovarsi;  e  ci  perdiamo  a  studiare  il  gettito 
delle  ova  delle  formiche?  E  badate;  che  per  fare 
compiuta  e  vera  la  nostra  storia  nazionale  ci  bi- 
sogna rifar  prima  o  finir  di  rifare  le  storie  parti- 
colari, raccogliere  o  finir  di  raccogliere  tutti  i 
monumenti  dei  noslri  comuni  ognun  dei  quali  fu 
uno  stato;  e  per  fare  utile  e  vera  la  storia  della 
nazional  letteratura  ci  conviene  prima  rifare  cri- 
ticamente le  storie  dei  secoli  e  dei  generi  lette- 
rari, che  tutti  hanno  un  loro  portato  e  diversi 
gradi  di  svolgimento,  le  storie  delle  letterature 
provinciali  e  di  dialetto,  ognuna  delle  quali  ha  il 
suo  momento,  la  sua  scuola,  i  suoi  tipi;  e  per 
r  una  cosa  e  per  Y  altra  ci  conviene  raunare,  di- 
scutere, raffrontare,  ricomporre  le  leggi  e  le  forme 
dei  dialetti,  e  i  canti  e   i   proverbi    e    le    novelle 


196  CRITICA    E    ARTE. 

popolari^  e  le  tradizioni  e  le  leggende  italiche  e 
romane,  pagane,  cristiane,  del  medio  evo.  Voi 
potreste,  o  giovani,  andar  cogliendo  di  su  la 
bocca  del  popolo,  da  provincia  a  provincia,  la 
parola,  il  motto,  la  imagine,  il  fantasma  che  è  te- 
stimonianza alla  storia  di  tanti  secoli;  potreste 
cogliere  a  volo  la  leggenda  che  da  tanti  secoli 
aleggia  per  entro  le  caverne  preistoriche  e  i  se- 
polcreti etruschi,  intorno  alle  mura  ciclopiche  e 
ai  templi  greci,  su  gli  archi  romani  e  le  torri 
feudali;  voi  potreste  ricomporre  cosi  la  demopsi- 
cologia deir  Italia,  e  dai  monti  alle  valli,  lungo  i 
fiumi  e  su  i  mari  della  patria,  cooperante  la  na- 
tura, ritessere  per  tutto  il  bel  paese  la  poesia 
eterna,  e  non  più  cantata,  del  popolo;  e  preferite 
la  muffa  dei  piccoli  cerchi,  i  pettegolezzi  delle 
combriccole,  la  letteratura  delle  fredde  arguzie  e 
dello  stento  ?  Provate  gli  studi  severi  ;  e  sentirete 
il  disinteressato  conforto  dello  scoprire  un  fatto 
o  un  monumento  ancor  nuovo  della  nostra  storia, 
una  legge  o  una  forma  incognita  della  nostra 
antica  arte,  di  quanto  avanzi  le  misere  e  maligne 
soddisfazioni  d'  una  troppo  facile  diagnosi  intorno 
a  un  romanzo  nato  male  o  a  una  manatella  di 
versi  scrofolosi.  Entrate  nelle  biblioteche  e  negli 
archivi  d'Italia,  tanto  frugati  dagli  stranieri;  e 
sentirete  alla  prova  come  anche  quella  aria  e 
quella  solitudine,  per  chi  gli  frequenti  co  '1  desi- 
derio puro  del  conoscere,  con  1'  amore  del  nome 
della  patria,    con    la    conscienza    dell'  immanente 


CRITICA    E    ARTE.  197 

vita  del  genere  umano,  siano  sane  e  piene  di  vi- 
sioni da  quanto  V  aria  e  V  orror  sacro  delle  vec- 
chie foreste:  sentirete  come  gli  studi  fatti  in  si- 
lenzio, con  la  quieta  fatica  di  tutti  i  giorni,  con 
la  feconda  pazienza  di  chi  sa  aspettare,  con  la 
serenità  di  chi  vede  in  fine  d'  ogni  intenzione  la 
scienza  e  la  verità,  rafforzino,  sollevino,  miglio- 
rino r  ingegno  e  V  animo.  1  giovini  non  possono 
generalmente  esser  critici;  e,  per  due  o  tre  che 
riescano,  cento  lasciano  ai  rovi  della  via  i  bran- 
delli del  loro  ingegno  o  ne  vengon  fuori  tutti  in- 
zaccherati di  pedanteria  e  tutti  irti  le  vesti  di 
pugnitopi:  la  critica  è  per  gli  anni  maturi.  Per  i 
giovani  è  la  storia  letteraria  e  civile,  specialmente 
trattata  per  monografie:  essi  portando  nelle  ri- 
cerche r  alacrità  delle  forze,  nei  raffronti  1'  agilità 
dell'  ingegno,  nella  erudizione  la  fantasia  degli 
anni  loro,  possono  infondere  nell'  opera  storica 
un'  anima  di  poesia  che  alla  scuola  antica  per 
avventura  mancava.  Peccato  che  prescelgano  di 
andare  nel  numero  dei  più!  — 

Cosi  io  risponderei  al  critico  giovinetto,  se  il 
far  prèdiche  e  lo  scriver  lettere  non  mi  noiasse; 
invece  scelgo  la  via  per  me  più  comoda  alla  sua 
nimicizia,  non  gli  rispondo.  Tanti  altri  del  resto 
gli  rispondono,  e  nell'  interesse  loro  lo  proseguono 
e  lo  circondano  di  conforti,  di  lodi,  di  lusinghe 
e  d' insidie,  se  bene  il  codice  punisce  1'  eccita- 
mento alla  corruzione. 


198  CRITICA   E   ARTE. 

IV. 

Tra  i  produttori  di  critica  periodica  un  bel 
tipo  è  anche  il  professore.  Intendiamoci  bene.  Non 
che  alle  scuole  italiane  (dico  specialmente  delle 
secondarie;  che  forniscono  un  certo  numero  di 
tali  scrittori)  manchino  gl'insegnanti  dotti  e  seri: 
vi  abondano  anzi,  e  attempati  che  onoratamente 
conservano  le  tradizioni  dell'  arte,  e  giovini  che 
animosamente  propagano  gli  acquisti  della  scienza*, 
vi  abondano,  e  laboriosi,  modesti,  obHati  adem- 
piono il  nobile  officio  con  una  intelligenza  di  amore 
e  una  religione  del  dovere  degna  di  maggior 
premio  che  la  nazione  oggi  non  dia.  Ma  ci  furono 
anni  pur  troppo  che  chiunque  avesse  stampato 
due  strofe  o  avesse  perpetrato  una  tragedia  o  un 
romanzo  o  buttato  giù  per  un  giornale  gli  an- 
nunzi dei  libri  nuovi  d' una  società  editrice  o  dato 
segno  di  saper  leggere  nei  salotti  delle  signore  di 
parte  governativa,  faceva  valere  i  suoi  diritti  a 
una  cattedra;  e  il  Governo  prima  o  poi  lo  man- 
dava a  insegnare  letteratura  o  storia  o  qualche 
cosa  di  simile  in  un  liceo  o  in  altri  instituti.  Ora, 
in  Italia,  il  letterato  puro,  uno  cioè  il  quale  pro- 
fessi di  non  sapere  fare  altro  che  scrivere  e  di- 
scorrere più  o  meno  male  di  letteratura  più  o 
meno  amena  senza  che  abbia  nulla  di  suo  né  un 
ufficio  né  un  esercizio  civile,  in  ItaHa,  dico,  un 
tale  uomo  è   novantanove    per    cento    un    cattivo 


CRITICA   E   ARTE.  199 

arnese,  o  almeno  un  ozioso,  che,  passata  senz'  arte 
né  parte  la  gioventù,  cerca  di  sgabellarsela  pe  *1 
resto  a  spese  del  pubblico,  e  non  vuole  ricorrere 
a  mestieri  più  faticosi  e  difficili  ma  più  onorati, 
come  sarebbe  il  professore  di  salti  mortali  o  il 
dimostratore  di  bestie  feroci.  Ancora:  ammesso 
pure  che  uno  faccia  delle  strofe  belle,  cioè  ben 
colorite  e  sonanti,  e  di  be'  periodi,  cioè  con  molte 
belle  frasi,  quel  tale  a  ogni  modo  e  per  ciò  a 
punto  è  quel  che  v'  ha  al  mondo  di  più  inetto  e 
di  meno  idoneo  all'  insegnamento.  Un  facitore  di 
strofe  e  di  periodi,  preso  anche  in  grande  e  in 
bello,  ha  sempre  qualche  cosa,  che  dico  qualche 
cosa?,  ha  sempre  molto,  molto  assai,  della  donna 
civetta:  fatto  maestro,  si  mette  allo  specchio  e  si 
raggiusta  i  capelli  a  ogni  minuto  dinanzi  alle  in- 
telligenze degli  scolari.  E  invece  di  leggere  e  in- 
terpretare Dante,  legge  e  interpreta  sé  stesso. 
E  gli  scolari  lo  abbordano  cosi:  —  Professore, 
per  oggi  ci  faccia  lezione  su  quel  suo  dramma 
di  cui  ci  parlò  l' altro  giorno.  —  Professore,  ci 
spieghi  un  po'  quel  suo  articolo  stampato,  sa?, 
nel  giornale  di  ier  1'  altro.  —  Professore,  ci  rac- 
conti un  po'  di  quando  era  a  Milano  o  a  Torino 
€  che  conobbe  il  Manzoni  o  il  Guerrazzi.  —  Gli 
scolari,  s' intende,  sónosi  addomesticati  con  lui  da 
che  egli  tenne  con  loro  questi  o  simili  propositi: 
—  Cari  miei,  oggigiorno  non  si  fa  più  scuola 
come  una  volta.  Con  quattro  chiacchiere  cosi  alla 
buona,  vedete,  s' impara  più  che  da  dieci  libri  di 


200  CRITICA    E    ARTE. 

testo.  Quel  pedante  dello  scrittor  tale!  ha  cosi 
poco  cervello  costui,  che  in  questo  calamaio  sguaz- 
zerebbe. I  grandi  autori  bisogna  sentirli,  ecco 
tutto  ;  e  Dante  si  commenta  co  ^1  cuore.  —  E  in- 
tanto cavava  fuori  una  sigaretta,  e  V  accendeva, 
E  —  Volete  delle  sigarette  • —  ripigliava  —  e  il 
precetto  più  sicuro  per  far  bene  la  prosa?  Scri- 
vete come  parlate,  co  '1  vostro  cuore  su  la  penna,, 
con  la  vostra  lingua  su  la  carta:  siate  immediati 
come  il  profeta  in  conspetto  di  Dio,  quando  apriva 
la  bocca  e  faceva  ah  ah  ah.  Volete  intendere  la 
poesia  o  farne?  Eccovi  la  ricetta,  la  vera,  la  sola, 
la  immensa'_^ricetta  :  Amate,  amate,  amate.  A  pro- 
posito, vedeste  l' Ernestina  ieri  al  passeggio? 
Carina,  non  è  vero?  Oh  sentite  questi  versi  che 
ho  fatti  per  lei  —.E  cosi  le  speranze  della  patria 
imparano,  o  imparavano,  letteratura. 

Ma,  se  il  professore  fa  lezioni  come  altri  fa- 
rebbe un'  appendice  di  giornale  umoristica,  per 
converso  poi  e  per  compenso  fa  gli  articoli  di 
critica  nei  giornali  come  farebbe  una  lezione.  In 
generale  1'  abitudine  della  cattedra  nuoce  agli 
scrittori  e  li  vizia,  o  li  rilassa  ed  esaurisce.  Ca- 
pisco che  r  Italia,  la  quale  vuole  darsi  il  lusso 
d'  una  letteratura  moderna  per  la  stessa  ragione 
che  un  nobile  spiantato  vuol  tenere  carrozza,  i 
suoi  scrittori  buoni  o  cattivi  finisca  con  farli  pro- 
fessori. I  Medici  li  facevano  canonici,  gli  Estensi, 
per  quel  che  ne  dice  V  Ariosto,  cavallari;  e  forse 
che  questo  era  il  meglio,  almen  per  V  igiene.  Ma 


CRITICA   E    ARTE.  201 

in  tanta  abondanza  di  gente  che  si  ostina  a  scri- 
vere per  un  popolo  che  si  ostina  a  non  leggere 
il  Governo  italiano  non  può  fare  tanto  sottili  di- 
squisizioni; e  infastidito  da  certi  sbadigli  che  tra 
la  noia  e  V  appetito  si  prolungano  come  guaiti, 
afferra  di  quando  in  quando  pe '1  bavero  dell'abito 
qualcuno  degli  sciagurati^  e  lo  scaraventa  in  qual- 
cuna delle  scuole  italiane,  e  gli  grida  dietro  —  Va 
là,  insegna  qualche  cosa  anche  tu,  se  non  altro 
la  prosa  dei  giornali  illustrati  e  la  poesia  dei  li- 
bretti d'opera.  O  che  lo  stato  non  deve  entrarci 
per  nulla  nel  rinnovamento  della  letteratura  e  del- 
l' arte  ?  —  Ora  figuratevi  un  librettista  o  un  faci- 
tore di  barcarole  e  di  rispetti  divenuto  professore: 
è  il  mio  personaggio,  del  quale  vi  disegnai  un 
aspetto  :  eccovi  1'  altro.  —  Se  mi  han  fatto  pro- 
fessore —  egli  ragiona  — ,  vuol  dire  che  io  devo 
esser  maestro  di  qualche  cosa:  ma  professore  mi 
han  nominato  per  quelle  mie  strofe  e  per  quei 
versi:  dunque  quelle  strofe  e  quei  versi  sono  un 
canone  dell'arte  — ;  e  conchiude  delimitando  il 
regno  dell'  arte  dall'  orizzonte  della  sua  cattedra 
ai  termini  delle  sue  strofe.  D' allora  in  poi  l' ul- 
tima età  gloriosa  della  poesia  è  per  lui  il  bene- 
detto anno  che  egli  compose  quelle  sue  strofe;  e 
chi  ha  fatto  strofe  dopo  di  lui  è  per  lo  meno 
sospetto.  Che  se  per  caso  quel  sospetto  fosse 
tanto  sfacciato  da  piacere  a  più  d'  uno,  il  profes- 
sore lo  riguarda  e  lo  tiene  per  suo  personale 
nemico.  E  la  sua  ragion  critica,  tutti  se  ne  accor- 


202  CRITICA    E    ARTE. 

^ono,  in  somma  è  questa:  —  Voi  avete  il  torto 
di  esser  letto  più  di  me,  e  il  peccato  di  esser  lo- 
dato più  di  me;  e  aveste  l'impudenza  di  pensare 
€  di  fare  diverso  da  me.  Certe  idee  io  le  conce- 
pisco cosi;  certe  elaborazioni  io  le  eseguisco  cosi, 
certe  cose  io  le  dico  cosi;  e  voi  le  concepite,  le 
eseguite,  le  dite  a  modo  vostro:  pedante!  Io  ho 
il  gusto  di  certi  generi  e  di  certe  forme,  e  voi 
no:  dottrinario!  Io  sono  arrivato  a  questo  punto, 
e  qui  ho  chiuso  il  mio  mondo  ;  e  voi  volete  andar 
fuori  e  oltre  di  qui:  codino!  —  Tutto  ciò  con 
molti  discorsi  di  estetica  e  di  storia.  Dai  quali 
apparisce  portentosa  non  tanto  la  pochezza  di 
quello  che  il  professore  sa  quanto  la  sicurezza 
con  cui  ignora  V  immensità  dell'  ignoranza  sua. 
Egli,  per  esempio,  avrà  finito  di  leggere  ieri  un 
libro  sufficientemente  vecchio  di  teoriche  nuove: 
come  di  quelle  teoriche  ieri  egli  non  ne  cono- 
sceva nulla,  oggi  non  può  dare  a  credersi  che 
gli  altri  ne  sapessero  qualche  cosa;  e  cosi  do- 
mani ve  le  serve  in  tavola  nell'  articolo  che  scrive 
intorno  al  vostro  ultimo  libro,  ammiccando  alla 
gente  su  V  inscienza  e  la  semplicità  vostra.  E  cosi 
egli,  che  non  fa  mai  la  lezione  agli  alunni,  la  fa 
sempre  agli  scrittori;  e  i  suoi  articoli  sono  stufa- 
tini  di  pedanteria  alla  moderna  con  le  cipolline 
dello  spirito.  No,  v'  è  di  peggio.  Come  i  re  di 
Francia  ammettevano  i  cortigiani  all'  onore  di 
vederli  a  desinare,  cosi  il  professore,  dopo  una 
strippata  di  letture  eterogenee,  convita  il  pubblico 


CRITICA   E    ARTE.  203 

allo  sfogo  del  suo  stomaco  letterario.  E  non  trova 
nessuno  che  gli  dica  —  Professore,  oh  ci  faccia 
un  po'  il  piacere  di  digerire  in  famiglia  — . 


V. 


Or  dunque,  ritornando  a  lui,  il  signor  Guer- 
zonì  capirà  perché  fino  a  oggi  io  non  abbia  avuto 
che  dire  con  i  miei  critici.  Degli  ingiuriatori  e  dei 
calunniatori  non  si  parla  né  meno:  avendo  io 
detto  male,  a  modo  mio,  di  molte  persone  e  di 
molte  cose,  è  naturale  che  molti  dicano,  a  modo 
loro,  male  di  me.  Ma,  giacché  oggi  mi  si  fa  in- 
nanzi il  signor  Guerzoni  con  quella  sua  aria  e 
mi  esorta  ad  "  accogliere  la  critica  cortese  ed 
onesta  come  un'  amica,  a  disputar  seco  ma  ad 
ascoltarla  „,  ecco  io  ascoltandolo  (a  disputare  non 
m'impegno  ancora)  mi  proverò  a  studiare  anche 
lui.  E  lo  classifico  sùbito. 

Del  genere  critico  italiano  la  varietà  più  nuova 
è  quella  che  io  vorrei  chiamare  il  meraviglioso, 
per  certa  sua  ideal  somighanza  agli  eleganti  fran- 
cesi che  nel  tempo  del  Direttorio  acquistaronsi 
<:otesta  denominazione  con  lo  sfoggio  dei  discorsi, 
dei  baveri,  degli  ornamenti  barocchi  e  con  la 
morbida  ostentazione  d' una  boriosa  contentezza 
di  sé  e  di  certa  avventataggine  né  aristocratica 
né  repubblicana  ma  di  risaliti.  A  rappresentare  il 
critico  meraviglioso  non  ho  bisogno  di  raffrontare 
e  di  astrarre,  prendo  il  signor  Guerzoni  e  il  suo 


204  *  CRITICA   E    ARTE. 

articolo  della  Gazzetta  ufficiale  intorno  alle  mie 
Nuove  poesie:  articolo  che  egli  intitolò  Nota 
nella  stampa  a  parte,  di  cui  volle  favorirmi. 


VI. 


Il  signor  Guerzoni  entra  in  campo  come  un 
uomo  troppo  superiore  alle  piccole  questioni  e  al 
tecnicismo  letterario:  indipendente,  liberale,  anche, 
a  detta  sua,  anarchico,  egli  non  è  stato  mai,  e 
non  è,  né  un  classicista  né  un  romantico^  non  ha 
capito  mai  nulla,  egli  lo  dice,  delle  definizioni  e 
distinzioni  e  classificazioni  che  tanta  brava  gente 
ha  voluto  fare  di  queste  due  parole  (pag.  5).  Ora, 
che  il  signor  Guerzoni  non  sia  né  classicista  né 
romantico,  egli  intende  bene  che  a  me  non  im- 
porta più  di  tanto  e  non  importerà  di  molto 
né  meno  ai  seguaci  che  possano  tuttora  avere 
quelle  due  scuole.  Ma  che  non  abbia  capito  nulla 
a  certe  distinzioni  (lasciamo  andare  le  defini- 
zioni e  le  classificazioni) f  ciò  fa  male  a  dirlo 
uno  che  professa  critica.  Il  "  giovine  depu- 
tato „  (è  la  circonlocuzione  con  cui  lo  vezzeggia 
il  Fanfulla)  mi  rassomiglia  un  po'  a  un  lione  di 
calva  e  ritinta  eleganza,  il  quale  corteggiasse  oggi 
una  signora  con  le  frasi  delle  Meditazioni 
del  Lamartine.  Quelle  cose  stava  bene  dirle  circa 
il  1831;  tiriamo  via,  anche  avanti  il  quarant'otto, 
quando  V  Italia,  ristucca  d'  una  questione  che  tra 
noi  fu  sempre  dibattuta  molto   superficialmente   e 


CRITICA    E    ARTE.  205 

per  lo  più  da  puri  retori,  preparavasi  a  ben  altre 
questioni  :  allora  il  dire  quelle  cose  poteva  essere 
indizio  d' ingegno  indipendente  ed  acquistar  fama 
di  saputo  a  un  ragazzo  che  uscisse  dalle  scuole 
dei  barnabiti  o  degli  scolopii.  Ma  oggi,  dopo  che 
la  questione  è  passata  dal  campo  letterario  allo 
scientifico,  dopo  che  storici  solenni  han  creduto 
dover  disaminare  cotesti  indirizzi  e  contrasti  ar- 
tistici che  rispondevano  si  intimamente  agli  indi- 
rizzi e  ai  contrasti  filosofici  e  politici  della  gene- 
razione intercessa  tra  la  sosta  della  rivoluzione 
fi-ancese  e  i  cominciamenti  della  rivoluzione  eu- 
ropea, oggi,  dopo  che  la  critica  germanica  e 
francese  si  è  tanto  affaccendata  intorno  la  scuola 
romantica  e  la  classica,  vantarsi  oggi  di  non  ca- 
pirne nulla,  è  tale  una  ingenuità  quale  non  può 
permetterla  a  sé  stesso  altri  che  V  appendicista 
d' una  Gazzetta  Ufficiale  italiana.  Un  si  fatto  cri- 
tico ha  rinunziato  a  capire  molte  cose,  e  special- 
mente la  diversità  dei  tre  momenti  razionali  ed 
estetici  della  odierna  società  europea,  dal  '15  al  '30, 
dal  '30  al  '48,  dal  '48  al  '70  :  dopo  di  che  fa  sorridere 
quando  dimanda  a  me  come  dovrebbe  egli  ca- 
pire perché  io  abbia  fatto  classico  il  sole  e  ro- 
mantica la  luna  (pag.  6).  Uno  scrittore  dell' Al/ge- 
meine  Zcitiing  ha  invece  capito  benissimo,  in 
que'  miei  versi  intitolati  Classicismo  e  Romanti- 
cismo a'  quali  il  signor  Guerzoni  allude,  ciò  che 
altri  nato  nella  terra  del  sole,  ove  i  critici  vengon 
su  ispirati  come  gì'  improvvisatori  e   i   cantori  di 


2o6  CRITICA   E    ARTE. 

barcarole,  non  ha  capito  e  difficilmente  capirebbe 
anche  spiegandoglielo.  L' italiano,  con  quella  pra- 
tica arguzia  che  fiorisce  sotto  lo  stile  dei  giorna- 
listi del  bel  paese,  scherza  su  '1  mio  repubblica- 
nizzare  il  sole:  al  che  io  non  ho  veramente  pensato 
mai,  ma  ci  ha  pensato  ben  egli,  per  ammonirmi 
che  "  il  più  bel  sole  della  terra  splendeva  tanto 
sui  cesarei  misfatti  di  Farsaglia  e  di  Austerlitz  che 
sulle  repubblicane  epopee  di  Valmy  e  di  Jemmap- 
pes  „.  Tanti  complimenti  al  "  sole  della  terra  „l 
Il  signor  Guerzoni  seguita  concedendomi  di 
molte  cose.  —  Spiritus  fiat  ubi  vult,  egli  scrive  ; 
venga  il  poeta  donde  vuole,  vada  dove  gli  piace  — 
(pag.  6).  La  generosità  del  critico  è  grande  quanto 
la  inesperienza:  ei  non  sa  misurare  coli'  occhio 
del  pensiero  i  termini  prevedibili  delle  sue  lar- 
ghezze. E  cosi  a  pagina  sei  mi  permette,  quasi  mi 
fossi  confessato  a  lui  de'  miei  peccati  di  gusto,  di 
preferire  il  Heine  a  Giovenale,  Vittore  Hugo  al- 
l'Ariosto,  il  Goethe  al  Manzoni;  e  a  pagina  dicia- 
sette  mi  rimprovera  del  ricorrere  che  fo  alle  lettera- 
ture straniere  e  del  chieder  loro  in  prestito  storia, 
soggetti  ed  imagini,  quasi  che  lo  Shakespeare  non 
avesse  messo  in  dramma  storie  greche  e  romane, 
leggende  italiane  e  danesi,  quasi  che  l'Ariosto  e 
il  Tasso  non  avessero  fatto  due  poemi  di  materia 
francese  ed  europea,  quasi  che  Dante  fosse  na- 
zionale come  un  cinese  e  come  il  signor  Guerzoni. 
A  pagina  sei  mi  permette  di  preferire  Omero  allo 
Shakespeare;  e  a  pagina  ventuno  mi  avverte  che 


CRITICA   E   ARTE.  207 

r  Italia  ha  scacciato  da  tempo  dalla  sua  letteratura 
ogni  elemento  pagano  e  mitologico.  A  pagina  sei  mi 
permette  di  scegliere  i  maestri  e  i  materiali  dove  mi 
pare,  e  a  pagina  ventuno  mi  ammonisce  che  fo  male 
a  tornare  al  Rinascimento  e  non  seguitare  la  scuola 
del  Parini,  del  Manzoni,  del  Giusti.  Povero  signor 
Guerzoni  !,  mi  rassomiglia  un  maestro  di  villaggio, 
il  quale  abbia  da  fare  con  una  di  quelle  tante 
birbe  che  anche  senza  la  legge  dell*  istruzione 
obbligatoria  popolano  le  scuole  elementari.  Mi 
par  di  vederlo  su  le  tracce  d'un  ragazzo  che  gli 
è  scappato  di  scuola:  figuratevi  sia  il  figliolo  del 
sindaco,  verso  il  quale  debba  il  maestro  rispon- 
dere di  tutte  le  possibili  capestrerie  del  mariòlo. 
E  il  vecchio  si  scalmana  a  chiamarlo  e  cercarlo 
per  r  orto  o  pe'  campi  vicini  alla  scuola:  quand'  a 
un  tratto  odesi  dietro  su  dall'  alto  uno  sbercio 
della  nota  voce  :  si  volta,  e  te  lo  vede  passeg- 
giare con  atteggiamento  napoleonico  su  le  gron- 
daie del  tetto.  Ed  egli  via  alle  scale;  si  ferma, 
per  ripigliar  fiato,  a  una  finestra  del  secondo 
piano  :  to',  eccotelo  là  su  '1  fico,  che  tempesta  di 
ficuzzi  acerbi  il  vecchio  cane  di  casa,  il  quale  si 
contenta  di  guardarlo  con  queir  occhio  tranquillo, 
tollerante,  bonario,  quasi  paterno,  che  i  vecchi 
cani  hanno  per  i  ragazzi,  come  ammonendo  il 
padrone:  Lascialo  fare,  li  scavezzacolli  han  sempre 
un  santo  che  li  protegge.  Cosi  avviene  al  signor 
Guerzoni  con  me.  Egli,  che  del  classicismo  e  del 
romanticismo  non  ha,  come   afferma,    capito    mai 


208  CRITICA   E    ARTE. 

nulla^  ma  che  viceversa  poi  ritiene  su'l  classicismo 
€  il  romanticismo  le  teoriche  del  suo  vecchio 
maestro  di  retorica^  egli  mi  cerca  a  ponente  e 
mi  trova  a  levante,  mi  persegue  rivoluzionario  e 
mi  raggiunge  tradizionale,  mi  rincorre  classico  e 
mi  riscontra  romantico.  E  allora,  "  Oh,  egli 
■"  esclama,  non  ostento  di  certo  per  Aristotile  ed 
■"  Orazio  il  sovrano  disprezzo  che  affètta  la  scuola 
*'  da  cui  sembra  derivare  il  mio  poeta  „  —  (pag.  7). 
Ma  quale  scuola  di  grazia?  quella  del  sole  clas- 
sico (pag.  6)?  quella  dell' elemento  pagano  e  mi- 
tologico (pag.  21)?  quella  delle  forme  illustri  ma 
immobili  del  quattrocento  e  del  cinquecento  (ivi)?, 
alle  quali  scuole  il  mio  critico  si  compiange  che 
io  voglia  ricondurre  il  popolo  italiano.  Oh  via, 
egli  non  sa  a  qual  santo  votarsi.  E  come  devo 
disprezzare  Orazio  io,  il  quale,  sempre  secondo 
il  signor  Guerzoni  a  pagina  quindici,  "  marito 
su  '1  mio  plettro  al  riso  di  Orazio  il  caustico  di 
Heine  „? 

E  qui  mi  fo  lecito  di  avvertire  il  signor  Guer- 
zoni che  io  non  ho  fatto  mai  il  cozzone  di  matri- 
moni, e  specialmente  tra  maschi  :  accompagni  pur 
egli,  paraninfo  leggiadro,  il  "  caustico  „  e  il  "  riso  „, 
sposi  di  un  solo  sesso  e  di  cosi  diversa  natura; 
ma  scelga  altro  letto  che  il  plettro.  Far  consu- 
mare un  matrimonio  neroniano  sopra  un  pettine? 
ohibò,  né  meno  in  metafora  !  Ma  il  signor  Guerzoni 
loda  a  pagina  ventuno  il  popolo  itaHano,  che  "  a 
poco  a  poco  vada  giubbilando  le  barbogie  autorità 


CRITICA    E    ARTE.  209 

dei  rettori  (sic)  e  dei  dizionari  „,  e  a  pagina  sette 
dichiara  eh'  ei  non  vuol  "  noie  né  dispute  retto- 
riche  ed  estetiche,  né  ripeschi  di  definizioni  e  ca- 
tegorie, che  accetta  tutto  e  ingoia  tutto  „.  E  non 
teme  che  qualcheduno  gU  osservi  —  Ecco.  Ella, 
signor  Guerzoni,  può  ingoiare  tutto  quello  che 
vuole.  Ma  tanta  altura  di  disprezzi  e  di  sufficienze 
con  tanta  bassura  di  fondi  e  tanta  povertà  di 
coltura,  cotesto  non  lo  ingoieremo  noi.  Imperoc- 
ché veda,  signor  Guerzoni:  altro  è  che  il  critico 
non  ostenti  e  anzi  dissimuli  sotto  il  panneggia- 
mento dello  stile  gì'  impalcamenti  dell'  estetica  e 
i  materiaU  dell'  erudizione  letteraria,  altro  è  che 
lo  scrittore  di  gusto  raschi  d'  attorno  l' opera  sua 
i  trucioli  che  vi  può  aver  lasciato  il  maneggio 
della  pialla  retorica,  altro  è  eh'  e'  non  impolveri 
i  lettori  sfogliando  loro  tuttavia  su '1  viso  la  gram- 
matica e  il  dizionario;  ed  altro  è  che  il  critico  e 
lo  scrittore  si  glorino  d' ignorare  la  storia  lette- 
raria, di  non  capire  le  questioni  e  le  teoriche 
estetiche,  di  disprezzare  la  retorica  la  gramma- 
tica e  i  dizionari.  Per  esempio.  Che  Ella,  signor 
Guerzoni,  disprezzi  tanto  la  retorica,  quando  Ella 
sa  "  maritare  il  riso  e  il  caustico  sul  plettro  „, 
quando  la  sua  cosi  detta  Jtota  è  piena  zeppa 
non  già  della  retorica  d'  Aristotile  ma  di  luoghi 
comuni  che  le  scusano  la  dottrina  e  di  brutte 
metafore  che  le  scusano  le  ragioni;  questo  non 
lo  ingoieremo  noi.  Che  Ella  vada  giubilando  le 
grammatiche  e  i    dizionari,    e   intanto   scriva   ref- 

Carducci.  4.  14 


2IO  CRITICA   E    ARTE. 

tori  (pag.  21  ),  con  due  t,  per  retori,  paleggiare 
con  una  sola  /  (pag.  5)  e  con  sola  una  t  atos- 
sicata  (pag.  4);  e  cavi  dal  suo  arsenale  i  freni 
arzenti  (pag.  io)  e  le  parole  che  risonano  dalle 
camene  (pag.  7)  e  le  ricette  che  si  propinano  (pag.  11); 
che  Ella  possegga  tale  una  prosodia  da  rifare  a 
Enotrio  i  versi  cosi 

Voliamo,  voliam  insieme,  fiera  gentile  (pag.  10), 

e 

Levano  le  strofe  d'intorno  alla  mia  fronte  (pag.  14), 

e  tale  un  senso  della  sintassi  da  scrivere  un  pe- 
riodo come  questo  "  \J  Italia  nostra  non  è  un 
"  portento  di  salute,  ma  daW  essere  ammorbata 
"  e  incancherita  come  la  sogna  Enotrio  Romano 
"  ci  corre  „  ;  questo,  signor  Guerzoni,  non  lo  in- 
goieremo  noi.  Il  Sainte-Beuve,  che  era  il  Sainte- 
Beuve,  soleva  dire  che  molto  in  letteratura  di- 
pende dall'  aver  fatto  un  buon  corso  di  retorica. 
Noi  non  chiediamo  tanto  per  il  signor  Guerzoni; 
ma  un  po'  di  grammatica  e  un  po'  di  dizionario 
non  gli  farà  male.  Nella  repubblica  delle  lettere 
uno  può  essere  quel  che  vuole,  ma  educato  ha 
da  essere:  ora  chi  professando  critica  maltratta 
la  sua  lingua,  bastona  i  versi,  manda  innanzi  i 
periodi  a  calci  di  dietro,  quegli  nella  repubblica- 
delie  lettere  non  è  uomo  educato;  e  noi  nella 
repubblica  delle  lettere  siamo  aristocratici. 


CRITICA   E    ARTE.  211 


VII. 


Se  non   che   il   signor   Guerzoni   nella  vanità 
sua    meravigliosa    non    bada    a    queste    minuzie. 

I  critici  italiani  moderni  abusano  un  po'  tutti  del- 
l' io  ;  ma  1'  egotismo  del  signor  Guerzoni  è  unico 
anche  in  Italia.  Egli  è  capace  di  citare  1'  autorità 
sua  cosi  :  "  L' ho  scritto  anch'  io  tante  volte  „ 
(pag.  6).  È  capace  di  presentarsi  da  sé  cosi: 
"  Anzitutto,  perché  conosca  subito  con  chi  hai  a 
"  fare,  io  sono  di  quei  critici,  come  il  tuo  Vittor 
"  Hugo  che  ami  tanto  e  il  mio  Manzoni  che  non 
"  ami  punto  „  ecc.  ecc.  (pag.  5).  E  capace  di 
fare,  come  dicesi  oggi,  il  suo  programma  cosi: 
"  Quanto  a  me,  te  l' annunzio  fin  d'  ora,  la  tua 
"  potenza  come  la  tua  miseria  non  mi  tange  „. 
"  Io  son  deciso  a  dirti  tutto,  tutto  quello  "che 
"  non  i  libri,  le  teorie  e  le  rettoriche,  ma  la  testa 
"  mia  e  il  cuore  mio  son  venuti  bisbigliandomi  da 
"  loro  dacché  ti  leggo  „.  Il  Lessing,  il  Macaulay, 
il  Sainte-Beuve,  il  Foscolo  e  il  Tommaseo  non 
osarono  mai  di  essere   tanto   primitivi   e   ispirati. 

II  signor  Guerzoni  par  Dante: 

Io  mi  son  un  che,  quando 

Amore  spira,  noto,  ed,  a  quel  modo 

Ch'ei  detta  dentro,  vo  significando. 

Per  vero  egU  ci  presenta  il  suo  io  un  po'  meglio 
che  non  facesse  Dante;  ce  lo  presenta  pettinato 
con  la  scriminatura  nel  mezzo  e   le  ciocche   rac- 


212  CRITICA    E    ARTE. 

colte  e  sbuffanti  dall'  una  parte  e  l' altra  su  le 
tempie.  Le  ciocche  sbuffanti  sono  :  "  la  testa  mia 
e  il  cuore  mio  „.  Le  semplici  espressioni  "  la 
mia  testa  e  il  mio  cuore  „  non  avrebbero  suffi- 
cientemente rilevato  V  importanza  dell'  individua- 
lità guerzoniana.  Que'  possessivi  in  fondo  furono 
r  ultimo  colpo  di  pettine,  co  '1  quale  e  con  una 
leggiera  voltatina  di  capo  e  con  un  sorriso  di 
compiacenza  il  signor  Guerzoni  si  congedò  dallo 
specchio  osannandosi  nel  cuore  suo  e  nella  testa 
sua.  E  cosi  acconciato  venne  a  drappeggiarsi  in 
quel  gran  lenzuolo  con  la  Croce  di  Savoia  in  cima 
che  è  la  Gazzetta  ufficiale,  per  prestare  all'  au- 
scultazione degl'  impiegati  del  regno  i  palpiti  del 
cuore  suo;  o,  se  vi  piace  meglio,  venne  ad  assi- 
dersi tra  le  colonne  dell'  appendice  come  in  con- 
fessionale, e  credè  di  aver  ricevuto  la  mia  con- 
fessione e  datami  la  penitenza,  scambiando  per 
la  mia  voce  viva  l'eco  delle  Nuove  poesie  al- 
terata e  confusa  nelle  caverne  della  testa  sua.  Io 
veramente  potrei  fargli  osservare  :  come  egli  non 
sia  precisamente  l' Alighieri  da  parlar  cosi  alto 
del  "  cuore  suo  „  e  della  "  testa  sua  „,  ma  si  un 
appendicista  della  Gazzetta  ufficiale:  come,  appen- 
dicista della  Gazzetta  ufficiale  qual  è,  egli  non 
abbia  detto  nulla  che  altri  non  abbiano  detto  e 
meglio  di  lui,  con  più  garbo  il  critico  dell'  Opi- 
nione, con  più  franca  e  addottrinata  malignità 
quel  del  Corriere  di  Milano:  come,  stando  così 
le  cose,  il  venirci  il   signor  Guerzoni   ad   annun- 


CRITICA   E    ARTE.  213 

ziare  nella  Gazzetta  ufficiale  che  egli  "  pensa  con 
la  testa  e  sente  col  cuore  „,  ciò  che  ogni  essere 
umanamente  organizzato  fa,  può  sembrare  un'  in- 
genuità strana.  Io  potrei  fargli  osservare  tutto  co- 
testO;  ed  altro;  ma  sarebbe  tempo  perduto.  Egli, 
sago  togaque  inclytus,  come  lo  salutano  i  suoi  nuovi 
amici,  è  troppo  sicuro  di  avermi  reso  un  grandis- 
simo onore  degnandosi  di  farmi  cosi  liberalmente 
parte  di  quello  che  i  due  rispettabili  organi  della 
testa  sua  e  del  cuore  suo  si  bisbigliavan  tra  loro 
su  *1  conto  mio.  Ringraziamolo  dunque,  e  contrac- 
cambiamo, possibilmente. 

Io  non  conosco  il  signor  Guerzoni  ;  ma  ei  deve 
essere  un  bravo  e  beli'  uomo.  Se  non  che  i  suoi 
amici  gli  danno  a  tutto  pasto  del  giovine  veterano 
e  del  deputato  giovine,  gli  ripetono  tuttavia  eh'  ei 
serba  dell'  ardenza  militare  anche  scrivendo.  Ed 
ei,  pare,  ci  tiene  un  poco  a  fare  il  tenentino  di 
cavalleria  della  letteratura  giornalistica;  e  a  quando 
a  quando  con  la  giannetta  della  figura  di  senti- 
mento percuote  o  carezza  la  coscia  del  suo  io, 
per  farne  rilevare  le  rotondità  e  la  impostatura. 
Redentore  dei  piccoli  calabresi,  ispiratore  dell'  il- 
lustre Zanella.,  fa  piangere  le  giovani  madri  e 
spuntare  i  luccioloni  a  Fanfulla\  e  questa  è  la 
parte  soave  del  giovine  veterano,  è  il  favo  del 
mele  nella  bocca  del  leone.  Vindice  delle  tradi- 
zioni nazionali  e  civili.  Michele  arcangelo  del- 
l' Italia,  della  virtù,  della  fede,  e  un  po'  po'  anche 
del  vecchio    Geova,   discende,   nella  potenza    del 


214  CRITICA   E   ARTE. 

SUO  nome,  con  la  spada  lingueggiante  del  suo 
stile,  dal  cielo  della  Gazzetta  ufficiale  su  '1  cantore 
di  Satana:  e  questa  è  la  parte  militare  del  gio- 
vine deputato.  Del  resto,  è  un  arcangelo  mo- 
derno, un  arcangelo  klopstochiano,  di  quelli  che 
svolgono  in  lunghissimi  inni  le  risposte  ai  discorsi 
della  corona  e  le  mozioni  e  le  interpellanze  del 
paradiso  parlamentare,  ma  che  non  caricano  a 
fondo  come  gli  arcangeli  cromwelliani  del  Milton. 
In  fatti,  che  v'  è  di  militare  nella  critica  del 
signor  Guerzoni?  La  franchezza  forse  di  citare 
mozzo  un  passo  di  certo  mio  discorso  su  '1  Giusti 
(pag.  19),  quasi  testimonianza  delle  mie  idee  di 
una  volta  intorno  la  poesia  satirica,  quando  io 
non  intendevo  in  quel  passo  che  a  render  mani- 
festi i  concetti  del  poeta  toscano  con  le  parole 
di  lui?  La  franchezza  dell'  enumerare  le  stragi 
che  io  ho  menate  tra' miei  critici  (pag.  3),  quando 
egli  è  il  primo  o,  tutt'  al  più,  il  secondo  a  cui  io 
risponda?  La  franchezza  dell'esporre  le  ragioni  e 
le  cause  della  mia  vita  affettiva  e  del  ritrattarmi 
con  sallustiana  romanticità,  quand'  egli  non  mi 
conosce?  Non  che  a  me  dispiaccia  di  esser  rap- 
presentato come  un  lioncello  ferito  che  balza 
arricciando  la  giubba,  come  un  Apollo  musagete 
e  scorticatore,  come  un  Heine  italiano,  come  un 
Byron  maremmano  il  quale  porti  dalla  prima  gio- 
vinezza nel  core  la  piaga  immarginabile  di  un 
disinganno  :  se  bene  io  sono  sano,  riboccante 
anzi  di  salute,  come  giudicavami  il  bravo  tedesco 


CRITICA   E   ARTE.  215 

dell'  Allgemeìne  Zeitung,  se  bene  minaccio  di  cam- 
pare ancora  di  molti  anni  senza  servirmi  delle 
ricette  propinatemi  dal  mio  critico,  alla  fin  fine 
nella  leggenda  guerzoniana  io  ci  guadagno  un 
tanto  per  la  plastica:  il  mio  arcangelo  mi  fa,  come 
dicon  oggi,  posare  innanzi  alle  dame,  le  quali 
amano  l' accademia  e  le  piaghe  al  cuore.  Non 
dunque  per  me,  ma  per  la  critica,  mi  permetto 
di  far  considerare  al  signor  Guerzoni  che  vera- 
mente non  è  franchezza  militare  cotesta,  ma  si 
quel  che  dicevasi  leggerezza  una  volta,  quando 
la  leggerezza  e  V  avventataggine  del  riferire,  del 
narrare,  del  rappresentare  erano  reputate  difetto 
in  qualsivoglia  scrittura  e  tanto  più  in  una  critica. 
O  v'  ha  egli  forse  dell'  austerità  soldatesca  in 
queir  esortarmi  ad  "  accogliere  la  critica  cortese 
ed  onesta  come  un'amica  „  (pag.  4),  e  poi  dirmi 
"  bilioso  „  (pag.  3),  "  scervellato  e  selvatico  „ 
(pag.  4),  parlare  della  mia  "  atrabile  „  (pag.  io), 
e  delle  mie  "  morbose  rancure  „  e  "  stizze  im- 
potenti „  (pag.  15),  e  del  mio  "  sciagurato  tem- 
peramento „  e  del  "  tormento  del  cistifele  „  e 
dei  "  morsi  dell'orgoglio  „  (pag.  11),  e  del  "  pa- 
rosismo  cronico  di  sdegno  „  e  del  "  priapismo 
intellettuale  „  (pag.  17)  che  mi  offendono,  e  degli 
"  urli  di  furore  „  (pag.  16)  e  dei  "  gridi  di  rabbia 
fehna  „  (pag.  17)  che  gitto  all'aria  nel  "  tumulto 
anarchico  de*  miei  errori  „  (pag.  16)?  Per  mili- 
tare, mi  par  soverchia  la  loquacità  del  diverbio» 
Od  è  egli  in  fine  una   rimembranza   della  vita  di 


21  6         -^\  CRITICA    E    ARTE. 

caserma  e  del  modo  dì  trattare  i  gregari  quel- 
r  uso  delle  lunghe  apostrofi  in  seconda  persona 
singolare  che  il  signor  Guerzoni  predilige?  E  qui 
da  verO;  da  poi  che  in  caserma  non  siamo  e 
siamo  lontani  dai  tempi  di  Grecia  e  di  Roma  e 
dalle  costumanze  repubblicane^  di  primo  tratto,  al 
sentirsi  fermare  e  concionare  con  tanto  di  tu,  vien 
subito  pensato  —  Chi  è  questo  cocchiere?  — ,  e 
vien  fatto  di  recarsi  con  le  mani  in  guardia  ne 
dubbio  che  il  franco  concionatore  s' avanzi  di 
momento  in  momento  a  tamburinarvi  con  le  dita 
il  ventre.  Ma  non  v'  è  pericolo.  E  tutto  affare  di 
stile.  Il  signor  Guerzoni  crede  di  procedere  un 
po' dal  Foscolo  e  un  po' più  dal  Manzoni.  E  dal 
Foscolo  accatta  1'  entusiasmo  civile,  e  parla  co  '1  tu 
fatidico,  co  '1  classico  tu,  agli  accòliti  del  sacerdozio 
delle  Muse:  piglia  dal  Manzoni  la  elevazione  mo- 
rale di  padre  Cristoforo,  e  parla  co  '1  tu  evange- 
lico ai  fedeli  ed  ai  penitenti.  Il  militare  in  fondo 
in  fondo  è  scolastico  e  frate. 

Già:  il  signor  Guerzoni  ha,  come  i  frati  e  i 
preti,  la  intuizione  privilegiata  di  una  verità  og- 
gettiva fatta  a  conto  suo  e  de'  suoi  e  concepita  e 
imposta  come  necessariamente  universale.  Quante 
volte  ritornino  in  quelle  poche  sue  pagine  le  pa- 
role verità  e  vero,  non  l' ho  contato  ;  ma  sono 
molte;  e  ogni  volta  la  verità  e  il  vero  è  quello 
che  il  signor  Guerzoni  sente  o  pensa  o  crede  o 
scrive  egli,  e  questa  sua  verità  e  questo  suo  vero 
egli  lo  consuma  per  sé  e  lo   comunica   agli    altri 


CRITICA   E    ARTE.  21 7 

come  i  sacerdoti  cattolici  il  corpo  di  Gesù.  Egli,  per 
esempio,  mi  ammonisce  a  pagina  quattro  che  tra  le 
voci  levatemisi  da  torno  ve  ne  ha  tale  che  "  scende 
dair  alto,  forte  di  verità  ed  ispirata  d'  amore  „  ; 
e  cotesta  voce  è,  s' intende,  la  sua.  E,  dopo  che 
cotesta  voce  fu  stampata  nella  Gazzetta  Ufficiale 
(  r  alto  ),  poi  tirata  a  parte  e  rilegata  in  fascicoli, 
egli  m' indirizzò  con  amore  un  di  quei  .  fascicoli, 
"  certo,  com*  ei  vi  scriveva  su,  eh'  io  non  temessi 
anzi  desiderassi  la  verità  onestamente  e  schietta- 
mente detta  „.  Io  gli  risposi  cosi: 

Mio  signore.  Ella,  che  inclina  al  cristianesimo,  avrà  pro- 
babilmente letto  l'evangelio  di  Nicodemo:  giova  conoscere 
anche  li  evangeli  apocrifi.  Ora  in  quell'evangelio  si  legge: 
—  Disse  Pilato  a  Gesù  «  Che  cosa  è  verità?  »  Disse  Gesù  «  La 
verità  è  dal  cielo  »  —  Cotali- parole  dell'evangelio  di  Nicodemo 
mi  son  rifiorite  nella  memoria,  scorrendo  quelle  con  le  quali 
Ella  mi  indirizza  la  sua  nota  circa  le  Nuove  poesie,  «  certo 
che  io  non  tema  anzi  desideri  la  verità  onestamente  e  schiet- 
tamente detta  »,  e  rileggendo  in  essa  nota  queste  altre,  «  Credi 
a  me:  fra  quelle  voci  taluna,  lo  so,  striscia  dal  basso....  ma 
tal  altra  ti  scende  dall'  alto,  forte  di  verità  e  ispirata  d'amore  ». 
E  anche  vedo  come  in  Lei  parli,  non  il  critico,  ma  il  veggente, 
l'apostolo,  0,  per  lo  meno,  il  predicatore.  E  per  ciò  mi  concedo 
risponderle  co  'l  sacro  testo,  Obdtirattiin  est  cor  Pharaonis\ 
da  poi  che  non  oserei  riprendere  io,  per  rivolgergliela,  la  grave 
dimanda  di  Pilato  a  Gesù,  Quid  est  veritas? .... 

Cosi  scrissi  al  signor  Guerzoni.  E  di  fatti  la 
sua,  com'  egli  la  chiama,  nota  mi  ricordava  una 
predica,  che  udii  da  ragazzo,  di  un  cappuccino 
contro  gF  increduli.  Anche  il  cappuccino  apostro- 
fava l'incredulo  co  '1  tu,  e  con  molto  vivace  ipo- 


2l8  CRITICA    E    ARTE. 

tiposì  e  con  aria  solenne  se  lo  traeva  a  pie  del 
pulpito,  e  battendo  le  nocche  su  '1  davanzale  del 
pulpito  costringeva  lo  sciagurato  ad  ascoltarlo  dal 
basso;  e  gli  inventava  la  sua  vita  e  le  cagioni 
dell'  incredulità  sua,  e  gli  diceva  insolenze,  per 
amore,  s' intende,  e  con  la  intenzione  di  richia- 
marlo a  Dio,  e  lo  introduceva  a  interloquire  per 
rispondergli  poi  vittoriosamente,  di  che  applau- 
diva sé  stesso  con  un  suo  scoppio  di  risa  che 
pareva  un  terremoto  sussultorio,  e  si  batteva  le 
mani;  e  quindi  lo  scaraventava  in  inferno,  e  vol- 
gendosi ai  fedeli  diceva  —  Vedete?  — ;  e  tutta 
questa  roba  chiamava  poi  filosofia  cristiana,  a 
punto  come  il  signor  Guerzoni  dà  per  critica  ita- 
liana la  sua.  Se  non  che,  per  essere  giusti,  il  si- 
gnor Guerzoni  mostra  più  d'  una  volta  di  quella 
soave  unzione  cristiana  che  il  cappuccino  barbuto 
non  aveva:  un  umido  raggio  di  affetto  gli  brilla 
nella  mistica  accensione  dell'  occhio  :  egli  vi  danna 
al  rogo,  vi  manda  all'inferno,  ma  piange  su  voi: 
si  vede  in  somma  eh'  e'  deve  essere  stato  allevato 
in  qualche  seminario  liberalesco,  come  ve  n'  era 
a'  bei  tempi  del  Gioberti,  poco  prima  e  poco  dopo 
il  1848.  Udite  pietose  parole  con  le  quali  inco- 
mincia a  divinarmi  (son  le  stesse,  o  press'  a  poco, 
che  il  mio  maestro  di  umanità,  un  padre  sco- 
lopio,  adoperava  per  il  Byron  ed  il  Leopardi: 
c'è,  come  vedete,  da  contentarsi):  "  Giosuè  Car- 
"  ducei  (scrive  il  signor  Guerzoni  a  pagina  dieci) 
"  deve  essere  una   delle  tante  anime  stanche  ed 


CRITICA   E    ARTE.  2I9 

"  inferme,  scontente  di  tutto  e  di  tutti,  che 
"  avendo  perduto  da  tempo  il  grande  punto 
"  d*  appoggio  della  fede  sono  condannate  a  ba- 
"  rellar  perpetuamente  nel  vuoto  oscuro  del  dub- 
"  bio  e  dello  scetticismo  „.  E  ancóra  "  —  Eno- 
"  trio  Romano!  —  mi  grida  a  pagina  diciasette  — 
"  Voi  siete  condannato  ad  un  grande  tormento, 
"  anche  più  grande  di  quello  di  non  poter  amare  : 
"  quello  di  non  poterlo  esprimere  „.  Si  che  il 
cantore  di  Satana  si  troverebbe  a  peggior  condi- 
zioni che  non  Satana  stesso  ;  su  '1  quale  santa 
Teresa  costumava  di  piangere  un  giorno  ogni 
settimana,  perché  V  infelice,  diceva  singhiozzando 
la  bruna  santa  spagnola,  non  può  amare;  e  forse 
pensava  alla  felicità  di  essere  amata  da  una  tale 
natura.  Io  ali*  inferno  effettivo  non  ci  sono  ancora; 
e  la  intercessione  del  signor  Guerzoni,  santa  Te- 
resa della  critica  italiana,  chi  sa  non  possa  va- 
lermi? Chi  sa  che  un  bel  giorno  il  signor  Guer- 
zoni ed  io  non  abbiamo  a  tubare  d'  amore,  l' uno 
in  faccia  dell'altro,  su  i  banchi  del  parlamento, 
come  due  bianchi  o  iridescenti  colombi? 

Per  intanto  il  signor  Guerzoni  ha  due  altre 
qualità  del  frate  pio  :  la  pesantezza  e  V  abnega- 
zione. Egli  è  proprio  un  buon  missionario  della 
virtù  e  della  fede  ne'  paesi  dell'  arte.  E  come  di- 
guazzano que' suoi  zoccoloni  di  periodi  in  quella 
sua  dicitura  paludosa  di  bassa  Lombardia  !  Come 
suda  il  pover'  uomo  a  cavargli  su  da  quella  pol- 
tiglia attaccaticcia  barbottante  e  fetente  della  sua 


220  CRITICA   E    ARTE. 


elocuzione  !  Com'  è  oppresso  da  queir  aria  bassa 
e  grigia  del  suo  idealismo  triviale;  per  la  quale 
fumano  le  putride  e  tangibili  evaporazioni  de'  suoi 
paroloni  !  Che  afa  e  che  umido  insieme  per  quelle 
sue  lunghe  colonne  della  Gazzetta  ufficialeX  Dopo 
le  prime  capriole  del  suo  egotismo,  non  un  sor- 
riso di  verde,  non  un  saluto  di  alberi,  non  l'am- 
miccare capriccioso  di  un  colle,  non  un  muggito 
di  bove,  non  un  filo  di  sole  anche  annacquato. 
È  un  paesaggio  caffè  e  panerà  della  Lomellina: 
sono  risaie,  che  maturano  il  riso  al  proprietario, 
ma  che  mettono  l'intontimento  e  il  freddo  della 
quartana  a  dosso  a  chi  le  trascorre.  Quanto  dee 
aver  penato  a  scrivere  per  la  buona  causa  il  si- 
gnor Guerzoni  ! 

Errai;  o,  a  dir  meglio,  caricai  di  troppo  i  co- 
lori. Lo  scrivere  del  signor  Guerzoni  non  è  poi 
cosi  brullo  e  sconsolato  com'  io  1'  ho  dipinto. 
Qualche  volta  egli  scherza:  si,  in  quella  sua  va- 
porosa facondia,  con  quella  gravezza  di  periodi, 
egli  scherza.  Figuratevi  che  a  un  certo  punto 
(pag.  15),  dopo  minacciato  di  dirmi  "  tutto  quello 
"  che  nemmen  tu,  Enotrio,  hai  sognato,  perché 
^'  anche  solo  sognandolo  non  saresti  più  te  „,  ag- 
giunge in  nota  "  Vedi,  Enotrio:  per  romperla 
^'  sùbito  col  tuo  Fucci,  gli  butto  in  viso  questa 
"  bella  sgrammaticatura  del  tuo  vivo  parlar  to- 
^'  scano,  sperando  che  essa  almeno  mi  interceda 
^*  grazia  presso  te  „.  Carina,  non  è  vero?,  l'idea 
d' intenerirmi  con  le  sgrammaticature.   Ma   il   più 


CRITICA    E    ARTE.  221 

puro  sale  delle  sue  arguzie,  il  fior  fiore  dell'ideai 
grazia  raflfaellesca  del  suo  umorismo  è  dove,  ac- 
cennato al  non  poter  egli  capire  perché  io  abbia 
fatto  repubblicano  il  sole  (che  non  ho  fatto  mai) 
e  paolotta  la  luna,  aggiunge: 

Eppure,  se  non  m'ing'anno,  il  più  bel  sole  della  terra  splen- 
deva tanto  sui  cesarei  misfatti  di  Farsaglia  e  di  Austerlitz  che 
sulle  repubblicane  epopee  del  Trasimeno  e  di  Jemmappes,  e 
ho  sempre  sentito  dire  che  la  povera  Cinzia  ha  retto  il  can- 
delliere  tanto  ai  classici  amori  di  Paride  e  di  Elena  che  alle 
romantiche  venture  di  Giulietta  e  Romeo.  Freschi  davvero  se 
anche  il  sole  e  la  luna  si  mettessero  a  parteggiare  con  noi  di 
quaggiù!  Di  giorno  e  di  notte  sarebbe  sempre  buio  pesto,  e 
sarebbe  proprio  la  volta,  per  mancanza  d'illuminazione  mi- 
gliore, di  darsi  per  vinti  alle  grazie  petroliere. 

Che  poderosità  di  spirito,  lettori  mici!  pare  un 
ippopotamo  che  balli.  Io  m' imagino,  quando  la 
Gazzetta  ufficiale  arriva  ai  comuni  dell'  ultima  Ca- 
labria o  del  circondario  d'  Aosta,  io  m' imagino  le 
stupefazioni  e  i  furori  d'  entusiasmo  di  quei  sin- 
daci e  consiglieri  nell'  abbattersi  a  leggere  simili 
tratti.  Come  gli  abitanti  di  non  so  più  qual  città 
greca,  alla  rappresentazione  d'  un  dramma  di  Eu- 
ripide invasi  di  sacro  entusiasmo,  deliraron  tre 
giorni,  tre  giorni  aggiraronsi  per  la  città  rican- 
tando i  versi  del  coro  che  celebrava  la  potenza 
di  amore,  cosi  nei  comuni  dell'  ultima  Calabria  e 
dell'  aostino  io  m' imagino  un  altr'  e  tale  delirio 
dai  sindaci  dai  consiglieri  dai  pretori  e  dagli  spe- 
ziali propagarsi  e  appigliarsi  al  popolo  tutto;  e 
preti  e  donne  e   briganti   e   spazzacamini   discor- 


222  CRITICA    E    ARTE. 

rere  tutta  una  settimana  di  Austerlitz  e  di  Far- 
salia,  del  Trasimeno  e  di  Jemmapes,  di  Paride  e 
d'  Elena,  di  Giulietta  e  di  Romeo,  di  Cinzia  e  del 
candeliere,  del  sole  repubblicano  e  delle  grazie 
petroliere  ;  e  i  piccoli  calabresi,  delizia  del  signor 
Guerzoni,  a  mezzogiorno,  e  i  piccoli  albini  a  set- 
tentrione, rapiti  dall'  esempio  dei  padri  in  estetica 
frenesia,  trinciare  capriole  in  piazza  da  mane  a 
sera,  circondando  cosi  di  un  ingenuo  e  cordiale 
omaggio  a  lor  modo  la  sentita,  e  concepita  gran- 
dezza ippopotamica  dello  spirito  guerzoniano,  pro- 
cedente per  il  lungo  e  il  largo  d'Italia  nel  vasto 
foglio  della  Gazzetta  ufficiale. 

Vili. 

Ma,  con  tutta  la  sua  eleganza  monastica  e  la 
grazia  sua  d*  ippopotamo,  potrebb'  essere  in  fine 
che  il  signor  Guerzoni  pensasse  bene  e  ragionasse 
diritto:  sono  cose  che  in  Italia  alle  volte  si  danno: 

Cosi  all'aprir  d'un  rustico  Sileno 
Meraviglie  vedea  l'antica  etade. 

Alla  prova. 

"  La  poesia  —  scrive  il  signor  Guerzoni  a  pa- 
gina otto  — ,  giusta  la  immortale  e  sola  definizione 
"  che  accetto,  è  del  vero  ti  divino  splendore  „. 
Ecco:  io  non  odio  le  definizioni  con  quell'  odio 
di  cui  le  prosegue  il  signor  Guerzoni;  ma,  quando 
definizioni  han  da  essere,  non  le  amo  in  decasil- 
labi. A  cotesta  definizione   che   Platone   fece   del 


CRITICA   E    ARTE.  223 

bello,  ora  che  un  deputato  ce  la  ricanta  in  versi, 
avviene  quel  che  all'  elegie  militari  di  Tirteo  nei 
duodecasillabi  del  prete  Arcangeli  :  non  è  più  lei. 
Perché,  veda  il  signor  Guerzoni,  altro  è  che  Pla- 
tone definisse  il  bello  per  isplendore  del  vero, 
ove  chi  sa  che  cosa  suoni  vero  nel  sistema  e  nel 
linguaggio  platonico  intende  e  accetta  o  rifiuta; 
e  altro  è  che  il  signor  Guerzoni  trasporti  la  de- 
finizione platonica  dal  bello,  concetto  astratto, 
idealità  metafisica, .  alla  poesia,  cosa  concreta  e 
reale,  come  si  farebbe  di  un  cartello  d' appigionasi 
da  una  casa  all'  altra.  Cotesto  platonismo  melo- 
drammatico, che  afi'ètta  di  dir  tutto  e  non  dice 
nulla,  è  de'  soliti  refiigi  della  critica  principiante, 
della  critica  sentimentale  e  declamatrice,  è  di 
quella  roba  che  si  tira  per  tutti  i  versi  come  la 
trippa,  le  giubbe  de'  contadini  e  la  bibbia.  Pe- 
rocché chi  è  che  non  creda  di  possedere  un  po'  di 
vero  a  questo  mondo?  Non  tutti  certamente  quanto 
il  signor  Guerzoni;  ma  tutti  un  pochettino  cre- 
diamo di  averne,  e  forse  ne  abbiamo.  Cosi  anche 
r  arcade  accetta  la  definizione  platonica  guerzo- 
niana,  e  —  Si:  la  poesia  "  E  del  vero  il  divino 
splendore  „  ;  e  il  vero  è  il  mio  belato  al  pie  di 
Fille,  e  il  non  vero  è  il  ruggito  byroniano  a  canto 
di  Medora  e  di  Zuleica  — .  E  di  rincontro  il  pu- 
rista —  Si,  si:  la  poesia  "  E  del  vero  il  divino 
splendore  „  ;  e  il  vero  sono  i  modi  danteschi  dei 
quali  io  constello  il  mio  aulico  eloquio 

fra  il  parlar  de' moderni  e  il  sermon  prisco, 


224  CRITICA    E    ARTE. 

e  il  non  vero  sono  i  barbarismi  i  neologismi  e  la 
lavatura  di  piatti  del  Manzoni.  —  Si,  mille  volte  si, 
—  entra  di  rincontro  a  dire  il  manzoniano  :  —  la 
poesia  "  È  del  vero  il  divino  splendore  „;  e  il 
vero  è  solo  quello  che  io  veggo  e  adoro  nel 
Manzoni,  e  il  non  vero  è  tutto  quello  che  è  fuori 
del  Manzoni. 

Ma  no,  ripiglia  alla  sua  volta  il  signor  Guer- 
zoni:  "  il  vero  il  mio  poeta  sa  che  non  è  solo 
quella  spera  di  mondo  che  ei  vede  dal  fine- 
strino del  suo  studio,  né  quella  porzione  d'uomo 
che  incontra  nell'  ambito  della  sua  scuola,  né 
quel  barlume  d' idea  che  gli  tremola  dinanzi  al 
chiarore  della  sua  lucerna  fra  il  monte  dei  suoi 
palinsesti  :  il  vero  è  tutto  V  uomo,  tutta  la  na- 
tura, tutto  r  universo  „.  Lasciamo  da  parte  i 
palinsesti  :  per  quel  suo  odio  all'  "  autorità  bar- 
bogia „  dei  dizionarii,  che  in  altro  scritto  gli 
fé'  scambiare  spigolistra  per  spigolatore,  chi  sa 
cosa  mai  di  serpentesco  crede  il  signor  Guer- 
zoni  che  siano  i  palinsesti!  e  per  ciò  li  am- 
monta intorno  al  suo  poeta  ;  il  quale  non  è 
veramente  il  cardinal  Mai,  e,  se  anche  sapesse 
leggere  i  palinsesti,  non  ne  troverebbe  mica  per 
tutt'  i  canti  da  ammonticchiarseli  intorno  nello 
studio.  Lasciamo  anche  la  ipotiposi  del  finestrino 
e  del  chiarore  della  lucerna:  o  sta  a  vedere,  che 
d'  ora  innanzi  il  poeta,  per  piacere  al  signor  Guer- 
zoni,  dovrà  essere  un  ignorante,  non  aver  arte 
né    parte    se  non   forse  politica,  e  andar  tutto  di 


CRITICA   E    ARTE.  225 

girelloni!  nel  qual  caso  il  Foscolo  lo  Shelley  il 
Platen  il  Leopardi  sarebbero  gente  da  palinsesti. 
Lasciamo  i  palinsesti  i  finestrini  e  le  lucerne,  e 
veniamo  al  vero.  Dunque  il  vero  non  è  una  sfera 
di  mondo  né  una  porzione  di  uomo  né  un  bar- 
lume d'idea;  si,  è  tutto  l'uomo,  tutta  la  natura, 
tutto  r  universo.  Benissimo  :  ma  quella  spera, 
quella  porzione,  quel  barlume  saranno  sempre 
parti  del  vero  e  non  saranno  il  falso.  E  poi, 
anche  il  falso  non  è,  idealmente  pensato,  un  vero? 
E  questo  vero  dov'  è  ?  fuori  o  dentro  ?  E  chi  è 
che  percepisce,  che  idealizza,  che  fa  questo  vero, 
il  quale  è  tutto  l' uomo,  tutta  la  natura,  tutto  l' uni- 
verso? Sono  eglino  il  signor  Guerzoni  e  i  critici 
pari  suoi,  i  quali  par  che  pensino  come  1'  Arlec- 
chino dell'  antica  commedia  italiana  quando  diceva 
a  Colombina  —  Vedi?  tutto  il  mondo  è  fatto  come 
casa  nostra  —  ?  O  vogliamo  del  vero  fare  una 
regia  cointeressata?  O  vogliamo  ritornare  al- 
l' "  ente  che  crea  1'  esistente  „  e  al  "  lumen  quod 
illuminat  omnem  hominem  venientem  in  hunc 
mundum  „?  Spieghiamoci  un  po',  e  senza  frasi. 
Ecco:  io  per  me  crederei  che  del  vero  ciascun 
uomo  avesse  una  sua  intuizione  e  si  formasse 
un'  idealità  sua,  e  che  quel  vero  il  quale  è  tutto 
r  uomo,  tutta  la  natura,  tutta  l' idea,  consti  per 
ciascuno  di  veri  particolari  e  vada  in  veri  par- 
ticolari individuato  :  crederei  che  1'  artista,  quando 
fosse  giunto  a  rappresentare  con  la  maggiore 
sincerità  ed  efficacia  possibile  quella  sua  idealità, 

Carducci.  4.  15 


220  CRITICA    E    ARTE. 

avrebbe  fatto  quel  che  è  la  sua  parte  ;  e,  da  poi 
che  né  i  tempi  né  le  condizioni  o  disposizioni 
artistiche  né  i  modi  o  i  mezzi  dell'  arte  sono 
sempre  e  in  tutti  gli  stessi,  crederei  che  anche 
avrebbe  fatto  la  parte  sua,  quando  rendesse  con 
la  maggiore  efficacia  e  sincerità  possibile  quella 
spera,  quella  porzione,  quel  bagliore  di  mondo, 
di  uomini,  di  idee,  che  egli  avesse  meglio  veduto 
e  più  fortemente  percepito.  Che  vuole  il  signor 
Guerzoni?  non  tutti  siamo  Omero  o  Dante  o 
Shakespeare.  Ed  egli  stesso  se  ne  accorge,  sog- 
giungendo "  Questo  è  il  campo  prescritto  al  poeta, 
e  beato  lui  se  lo  può  correre  intero!  „  O  dun- 
que contentiamoci,  a  questi  lumi  di  luna,  anche 
di  una  spera. 

"  Badi  però  —  seguita  ancora  il  signor  Guer- 
zoni sempre  a  pag.  8  —  il  mio  poeta,  che  questo 
"  campo  non  può  essere  né  oltrepassato  né  rimpic- 
"  ciolito  „.  Ah,  il  signor  Guerzoni,  il  quale  poco  fa 
parlava  di  spere,  di  porzioni,  di  barlumi,  ora  téme 
che  il  suo  poeta  oltrepassi  tutto  V  uomo,  tutta  la 
natura,  tutta  l'idea?  Ed  egli,  che  "  non  ha  paura 
della  libertà  „  (pag.  7),  egli  "  anarchico  „  (ivi), 
si  affretta  a  chiudere  i  cancelli  :  "  Non  oltrepas- 
"  sato,  perché  oltre  i  suoi  confini  stanno  le  vuote 
"  nebbie  del  falso  sempre  preste  a  disciogliersi  al 
"  primo  sole  del  vero  ed  a  precipitare  nel  mare 
"  dell'  oblio  il  temerario  vate  che  vi  abbia  spinto 
"  r  icareo  volo  „. 

O  Muse,  o  Febo,  o  Bacco,  o  Agatirsi! 


CRITICA   E   ARTE.  227 

Il  falso  che  non  è  il  vero,  e  il  vero  che  non  è 
il  falso;  il  falso  che  è  la  nebbia,  e  il  vero  che  è 
jl  sole;  e  le  nebbie  del  falso  che  si  disciolgono 
e  precipitano  esse  i  temerari  vati;  e  il  mare  del- 
l'oblio;  e  r  icareo  volo.  E  questo  si  dice  parlar 
chiaro.  Ah,  il  ragionamento  del  signor  Guerzoni 
mi  par  di  vederlo.  Povero  pagliaccio,  paonazzo 
in  viso  dal  digiuno  e  dalla  fatica,  batte  il  tam- 
buro con  un  ultimo  indistinto  brontolio  disperato, 
e  le  braccia  gli  cadono  giù,  e  le  bacchette  gli 
scivolano  dalle  mani.  La  retorica  intanto,  ninfa 
dello  spettacolo  mantrugiata,  con  lo  sgualcito  gon- 
nellino dei  tropi  saltellante  su  '1  dubbio  color  ro- 
seo della  maglia  pur  diguazzante  intorno  alle 
polpe  meschine,  la  retorica,  ninfa  dello  spettacolo, 
tira  il  telone  d' indiana;  acciò  Y  inclito  contadiname 
venga  ad  ammirare  il  diluvio  universale  delle  pa- 
role senza  né  arca  né  Ararat.  11  diluvio  avviene  a 
pagina  7,  e  a  pagina  6  il  signor  Guerzoni  aveva 
intimato:  "  E  prima  di  tutto,  che  il  mio  poeta 
"  cerchi  di  ragionare.  Perché  davvero  sarebbe 
*'  un  privilegio  singolare,  che  ad  uno,  perché  dice 
"  di  abbeverare  i  suoi  cavalli  alle  fonti  di  Par- 
"  nasso,  fosse  lecito  di  non  ragionare,  il  che 
"  torna  a  dire,  di  non  esser  uomo  „. 

Come  sul  capo  al  naufrago 
L'  onda  s'  avvolve  e  pesa, 
L'onda  su  cui  del  misero 
Dritta  pur  dianzi  e  tesa 
Scorrea  la  vista  a  scernere 
Prode  remote  invan  .... 


228  CRITICA    E    ARTE. 

CitO;  per  conforto  del  signor  Guerzoni,  un  poeta  a 
lui  caro  ;  e,  dopo  tanta  iattura,  non  ho  il  coraggio 
di  ammonirlo  come  "  da  vero  sarebbe  un  privi- 
"  legio  singolare  che  ad  uno  „,  perchè  affastella 
figure  retoriche  su  figure  retoriche;  "  fosse  lecito 
"  di  dir  che  ragiona  „  e  che  "  ricerca  il  vero  „, 
e  che  "  solo  l'amore  delle  lettere  e  della  patria 
"  lo  muove  e  fa  parlare  „  (pag.  26). 

Ma  il  signor  Guerzoni  seguita  intrepido  :  "  Non 
"  rimpicciolito,  perché  chi  scambia  il  microcosmo 
"  che  brulica  nella  sua  mente  coli'  universo  che 
"  gli  muove  e  vive  d' attorno,  è  anche  desti- 
"  nato  a  cogliere  palme  proporzionate  (!)  al 
"  breve  solco  che  egli  ha  coltivato,  ed  a  mo- 
"  rire  mediocre  ed  oscuro  col  piccolo  mondo 
"  da  lui  suscitato  !  „  Co  '1  punto  ammirativo  in 
fine,  quasi  indice  steso  a  proferir  la  sentenza. 
E  pure  si  potrebbe  opporre  che  un  micro- 
cosmo soggettivo  sono  anche  la  Divina  Com- 
media e  il  Faust  dirimpetto  non  pure  alla  na- 
tura e  al  vero  universo,  ma  all'  epopea  omerica 
e  ai  drammi  dello  Shakespeare;  che  un  microco- 
smo soggettivo  sono  e  la  lirica  del  Leopardi  in 
paragone  a  quella  di  Pindaro  e  la  satira  di  Gio- 
venale in  paragone  a  quella  di  Aristofane,  e  che 
ciò  non  per  tanto  il  Leopardi  è  un  poeta  larga- 
mente umano  e  Giovenale  poteva  con  ogni  di- 
ritto affermare, 

Quidquid  agunt  homines,  votum,  timor,  ira,  voluptas, 
Gaudia,  discursus,  nostri  est  farrago  libelli. 


CRITICA   E    ARTE.  229 

Ma  a  che?  Il  signor  Guerzoni  dice  di  quelle 
cose,  perché  tutto  al  mondo  si  può  dire,  perché 
la  repubblica  letteraria  permette  le  case  di  tolle- 
ranza dei  luoghi  comuni  ove  vada  a  sfogarsi  chi 
ha  la  libidine  di  scrivere,  perché  certi  adulterii 
tra  i  termini  propri  e  le  metafore,  certi  incesti 
tra  le  lettere  e  i  suoni,  nella  civiltà  odierna  son 
leciti.  Tutta  quella  paginetta  ottava  del  signor  Guer- 
zoni è  un  non  senso;  ed  egli,  non  so  se  per  ina- 
nimar me  coir  esempio  a  "  spogliarmi  la  pesante 
"  casacca  delle  mie  passioni  „  (pag.  22),  ha  troppo 
esposte  le  nudità  non  greche  del  suo  ingegno. 

Del  resto  quel  tanto  insistere  del  signor  Guer- 
zoni su  '1  difetto  di  verità  ne'  miei  versi,  su  le  "  biz- 
zarrie del  mio  pensiero  „  (pag.  17  )  su  le  "  idee  „ 
mie  "  balzane  „  e  "  capricciose  „  (pag.  21),  mi 
ricorda  Cecco  d'  Ascoli.  Costui  vantava  in  faccia 
all'Ahghieri  la  sua  Acerba  cosi: 

Qui  non  si  sogna  per  la  selva  oscura  .... 
Qui  non  si  canta  al  modo  del  poeta 
Che  finge  imaginando  cose  vane; 

e  a  proposito  del  conte  Ugolino  e  di  Vanni  Fucci 
diceva  con  una  sua  smorfia  d'  uomo  serio. 

Lascio  le  ciance  e  torno  su  nel  vero, 
La  favole  mi  fur  sempre  nemiche. 

Non  so  se  il  signor  Guerzoni  sia  profondo  in  ma- 
tematiche, per  la  qual  parte  Guglielmo  Libri  fece 
nella  sua  storia  lodi  insigni  di  Cecco,  e  riabilitò, 
come  oggi  dicesi,  quel  triste  e  invidioso  pedante: 


230  CRITICA   E   ARTE. 

nel  resto,  nella  critica  del  vero,  vo*  dire,  egli  il 
signor  Guerzoni  mi  rinnova  un  poMa  figura  di 
CeccO;  che  non  è  bella.  E  né  meno  è  bella  quella 
del  Lampredi,  dottissimo  per  altro  di  giure;  il 
quale,  secondo  la  rappresentazione  che  ne  fece 
Vittorio  Alfieri, 

Udita  e  vista  la  temerità 
D'  un  certo  Alfieri  che  stampando  va 
Tragedie  in  cui  quell'armonia  non  v'ha 
Che  a  me  piacendo  a  tutti  piacerà, 

conchiudeva, 

Io  gì' inibisco  l'immortalità. 

Non  sono  due  belle  figure:  e  pure  (tant'è  vero 
che  nulla  v'  ha  più  d'  originale  )  il  signor  Guerzoni 
ha  voluto  rifarle.  E  dire  che  non  era  proprio  il 
caso!  perché  da  Dante  e  dall'  Alfieri  a  me  ci  corre 
oh  quanto!  Per  cosi  poca  cosa  come  sono  io,  per 
un  uomo  "  destinato  a  morire  mediocre  ed  oscuro 
col  suo  piccolo  mondo  „,  tanta  virtù  di  abnega- 
zione è  senza  esempio.  Per  convertirmi,  o  alla 
disperata,  per  provocare  su  la  mia  testa  V  abo- 
minazione dei  buoni,  far  da  sé  nella  Gazzetta  uf- 
ficiale V  esecuzione  capitale  del  proprio  giudizio, 
il  taglio  della  pancia  del  proprio  raziocinio,  le  son 
cose  da  giapponesi;  per  altro,  prima  delle  ultime 
riforme  e  delle  ambascerie  in  Europa. 


CRITICA   E   ARTE.  23 1 

IX. 

E  egli  più  felice  il  signor  Guerzoni,  quando  dal 
negare  passa  all'  affermare,  quando,  cioè,  dalla 
eliminazione  del  come  non  deve  essere  il  poeta 
passa  alla  dimostrazione  del  come  deve  essere? 
Le  intenzioni  sono  buone. 

Non  scelga  —  egli  scrive  a  pag.  9  —  per  salire  sull'ultima 
cima  del  monte  l'ora  più  torbida,  ma  la  più  serena  della  sua 
vita;  e  allora  quando  sia  giunto  alla  vetta,  sicuro  che  nessun 
velo  appanni  la  sua  pupilla,  abbracci  con  uno  sguardo  tutta 
la  vasta  scena  di  splendori  e  di  tenebre,  di  gioie  e  di  dolori 
d'odi  e  d'amori  che  l'orizzonte  della  terra  racchiude,  vi  libri 
sopra  il  volo  della  sua  anima,  e  canti.  Egli  sarà  poeta:  quanda 
giudicherà  sarà  giusto,  quando  canterà  sarà  sincero,  quando- 
dipingerà  non  sarà  manierato^  quando  cercherà  la  veste  é  gli 
ornamenti  del  suo  pensiero  la  memoria  delle  cose  osservate 
glie  la  porgerà  spontanea,  nella  ricca  semplicità  in  cui  la 
stessa  natura  li  produce;  quando  infine  vorrà  far  centro  del- 
l'universo  il  mondo  del  proprio  spirito,  egli  non  sarà  più 
solo:  ognuno  sentirà  in  lui  un  fratello,  ognuno  ascolterà  il  la- 
mento od  il  giubilo  delia  sua  anima  come  l' eco  dell'  anima 
propria,  e  le  sue  canzoni  tiamandate  da  generazione  in  gene- 
razione diverranno  a  poco  a  poco  il  patrimonio  poetico  d'  uà 
popolo  intero  e  com'esso  immortali. 

Cosi  il  signor  Guerzoni.  E  io  non  risponderò 
co  '1  Parini, 

E  dalli  e  dalli  e  dalli  e  dalli  e  dalli 
Con  questi  cavolacci  riscaldati. 

io   mi   contenterò  di  osservare  che  tutto    cotesto- 
è   sentimentalismo    lamartiniano,    e    non    di  quel 


232  CRITICA    E    ARTE. 

bello;  è  una  meditazione  poetica  in  prosa  non 
corretta;  è  1'  arcadia,  civile  o  umanitaria  se  vo- 
lete, ma  è  r  arcadia  in  critica.  Come  se  il  poeta 
potesse  eleggere  egli  1'  ora  di  salire  su  '1  monte, 
come  se  il  poeta  potesse  egli  fare  il  torbo  o  il 
sereno  intorno  a  sé  !  Oh  vada  un  pò*  il  signor 
Guerzoni,  e  mi  precipiti  dal  suo  paradiso  Dante 
Alighieri,  perché  scelse  V  ora  amara  dell'  esilio  a 
smarrirsi  nella  selva  oscura  di  questa  bella  Italia 
e  della  società  umana  e  riuscir  quindi  all'  inferno! 
Oh  vada,  e  mi  fustighi  un  po'  Giorgio  Byron, 
perché  intorno  alla  sua  testa  di  poeta  non  facea 
mai  sereno!  Ma  cotesta  è  critica,  anzi  retorica, 
anzi  precettistica,  più  misera  e  pretenziosa,  più 
tirannica  e  falsa,  più  irragionevole  e  insussistente, 
più  accademica  e  pedantesca  che  non  quella  del 
secolo  passato.  I  nostri  buoni  avi  intendevano  ad 
agguagliare,  appianare,  rotondare  le  forme,  voi 
le  anime:  essi  alla  fin  fine  ammirarono  il  Rous- 
seau e  r  Alfieri,  voi  li  negate.  Voi,  a  lasciarvi 
fare,  ridurreste  la  selva  dodonea  come  il  bosco 
parrasio  che  era  una  volta  li  in  Roma  nella  villa 
Rospigliosi  :  le  grandi  e  antiche  querce,  che 
hanno  mormorii  sacri  e  fatidici,  e  che^  quando  la 
tramontana  vi  dà  dentro,  scrollano  le  lunghe 
criniere  verdi  e  mandano  ruggiti  come  file  di 
leoni  in  battaglia,  con  che  gusto  voi  le  potereste, 
le  rimondereste,  le  pettinereste  e  acconcereste  a 
spalliere,  le  curvereste  in  pergola  o  in  capannuc- 
cia,  come  i  meli  nani  del  potager  di  Colorno  can- 


CRITICA   E   ARTE.  233 

tato  dal  Frugoni!  Fortuna  che  esse  hanno  i  rami 
alti,  assai  alti,  per  la  vostra  statura  !  Pur  troppo,  la 
borghesia  dominante  vuole,  anche  in  arte,  livel- 
lar tutto,  tutto  ridurre  all'  imagine  sua,  all'  utilita- 
rismo puro,  al  giusto  mezzo,  alla  finzione  costi- 
tuzionale, alla  corruzione  sistematica,  alla  onesta 
ipocrisia  bottegaia,  al  dondolare,  al  barellare,  al- 
l' equivoco,  come  oggi  direbbesi,  in  permanenza. 
Il  poeta, .  quale  lo  ritrae  il  signor  Guerzoni,  non 
è  mai  esistito  :  ma  giova  imaginarselo  e  proporlo 
cosi.  Cotesto  egoista  di  poeta,  cotesto  ragioniere 
con  le  ali  alla  testa,  ali  piccolette  e  tozzotte  anzi 
che  no  come  quelle  del  caduceo  di  Mercurio,  su 
la  cima  del  monte  si  abbandonerebbe  all'  estasi 
della  contemplazione,  nuoterebbe  tra  gli  splen- 
dori della  visione;  e  facendo  1'  occhio  di  pesce 
alle  capelliere  bionde  degli  angeli,  e  allungando 
in  mezzo  le  nuvole  le  mani  agli  incarnati  bale- 
nanti a  sdruci  di  tra  il  lungo  ondeggiare  dei  càmici 
bianchi,  non  vedrebbe  intanto,  o  mostrerebbe  di 
non  vedere,  quelli  che  rubano  e  quelli  che  ten- 
gono il  sacco,  quelli  che  vendono  1'  anima  e  quelli 
che  la  comprano,  e  quelli  che  trascinano  la  pa- 
tria nel  corso  mascherato  dell'  ignominia  e  al  ve- 
glione della  ruina,  e  quelli  che  sparnazzano  in 
viso  alla  plebe  i  coriandoli  dell'  onestà,  della  li- 
bertà, della  virtù,  della  fede,  per  accecarla  almeno 
pochi  istanti,  che  non  vegga  il  consumarsi  delle 
fornicazioni.  Creda  a  me  il  signor  Guerzoni:  la- 
sciamo   star    le    cose  come    stanno.  Non  poUicol- 


234  CRITICA   E   ARTE. 

tura  in  poesia,  non  stie.  U  aquila  lasciamola  stare 
aquila,  falco  il  falco,  usignolo  V  usignolo  :  i  pic- 
cioni i  galletti  e  i  tacchini  abbiano  del  becchime 
in  buon  dato. 

Del  resto  un  poeta  misurato,  temperato,  tutto- 
a  modo  e  a  verso,  sobrio  e  pudico,  che  le  sappia 
far  bene,  che  vada  d'  accordo  con  tutti,  che  ab- 
bracci tutto,  r  odio  e  r  amore,  il  bianco  e  il  nero,, 
il  rosso  e  il  turchino,  e  con  tutto  ciò  non  scet- 
tico nei  conti  del  piacere  e  dell*  utile  suo,  un  tal 
poeta,  se  al  signor  Guerzoni  piace,  glielo  potremo,, 
co  *1  tempo  e  con  la  paglia,  presentare  stagionato. 
Di  tipi  che  si  accostino  al  suo  ideale  ne  avanza 
qualcuno  tra  ì  vecchi,  e  più  ne  cresce:  i  critici 
giovinetti  augurano  in  fatti  un  dolce  futuro  soda- 
hzio  di  poeti  del  bello  italo  regno  che  cantino  tutti 
a  un  tono,  e  dopo  cantato  si  dicano  V  un  V  altro 
prosit,  come  dopo  la  messa  i  preti  in  sagre- 
stia, e  si  rivelino  e  dimostrino  V  un  V  altro  le 
proprie  perfezioni  e  bellezze.  Ma  forse  che  il 
signor  Guerzoni  desidera  qualche  cosa  di  pili 
nuovo,  propriamente  suo.  Oh  senta  il  signor  Guer- 
zoni :  se  egli  vuole  avere  un  poeta  costituzionale 
del  centro  a  modo  suo,  sa  egli  quel  che  ha  da 
fare?  Dia  retta  a  me.  Pigli  un  de' suoi  piccoli 
calabresi;  e,  lavato  e  pettinato  che  sia,  se  lo  re- 
chi in  collo,  e  se  lo  educhi  su  '1  cuore  suo,  se  lo 
instruisca  con  la  testa  sua,  lo  tenga  a  dieta  di 
latte  e  vegetali,  gli  eradichi  dal  petto  ogni  germe 
di   passione,   gli    attuti    nel    cervello    ogni   ribol- 


CRITICA   E    ARTE.  235 

limento  di  fantasia^  gli  purghi  dal  sangue  ogni 
elemento  pagano;  e  poi  gli  faccia  quella  opera- 
zione per  la  quale  Origene  volle  assicurarsi  il 
regno  dei  cieli.  Dopo  di  che,  gli  dimostri  la  sua 
teorica;  e  gli  dia  a  divedere  come  la  poesia  mo- 
derna deve  essere,  né  più  né  meno,  il  mestiere 
di  imitare  il  Parini  il  Manzoni  il  Giusti:  e  non 
Grecia  e  non  Roma,  per  carità;  non  rinascimento, 
non  letterature  straniere;  ma  qui  in  famiglia  tra 
noi  viventi,  che  siamo  tanto  belli  e  tanto  bravi; 
e  semplicità,  schiettezza,  verità,  di  quella  che  il 
signor  Guerzoni  ha,  di  quella  che  tutti  oggi  in 
Italia  hanno,  ne  son  piene  le  fosse.  E  poi  gli  dica  : 
—  Va,  figliuol  mio,  sii  comune,  sii  volgare,  e 
piaci  a  tutti:  va,  e  ama  senza  trasporto;  va,  e 
canta  constituzionalmente,  metodicamente,  orto- 
dossamente, la  virtù,  la  fede,  la  patria.  —  E  verrà 
su  un  nuovo  Metastasino  borghese,  poeta  aulico 
della  terza  Italia;  ei  canterà  gli  epinicii  delle  ar- 
meggerie  di  destra  e  delle  evoluzioni  di  sinistra, 
e  gli  imenei  delle  due  onorevoli  metà  coi  rispet- 
tivi centri,  e  i  genetliaci  di  quelle  belle  coselline 
che  ne  vengono  fuora:  comporrà  nelle  ore  di  ri- 
poso idilli  sociali  a  uso  delle  banche  privilegiate 
e  melodrammi  civili  e  umanitari  su  le  rivoluzioni 
e  su  *1.  modo  di  scioglierle  e  di  legarle.  Ma  badi 
il  signor  Guerzoni  :  gli  faccia  V  operazione  di  Ori- 
gène.  Altrimenti  il  piccolo  calabrese,  se  un  bel 
giorno  si  ricordi  che  suo  padre  lo  vendè,  che  il' 
suo    padrone   lo  picchiò  lo   affamò  lo  contaminò, 


236  CRITICA   E    ARTE. 

che  la  società  gli  fece  l' elemosina  con  una  pedata, 
che  egli  rappresentò  all'  estero  la  pitoccheria  e 
la  spietata  ingordigia  e  la  venale  servilità  dei  di- 
scendenti di  Roma,  se  un  bel  giorno  il  piccolo 
calabrese  si  ricordi  quel  che  ha  veduto  saputo  e 
sofferto  prima  della  sua  pahngenesi,  può  darsi 
che  finisca  co  '1  gettare  il  plettro  in  faccia  a'  suoi 
ascoltatori;  e,  come  adoperò  Ercole  con  Lino, 
spezzi  la  cetra  su  la  testa  al  suo  maestro  (  che 
Dio  non  vogha)  e  fugga  nelle  libere  selve,  se 
ne  rimarrà,  a  fare  il  brigante,  metaforicamente 
s' intende. 


X. 


Ma  intanto,  fin  che  sia  compiuta  la  educazione 
del  piccolo  calabrese,  il  signor  Guerzoni  ha  tutto 
il  diritto  di  tenermi  e  predicarmi  per  un  poeta 
scettico  e  insieme  fazioso:  ha  tutto  il  diritto  di 
credere  che  io  porga  li  orecchi  "  al  fischio  delle 
"  sètte  e  al  clamore  dei  tri  vii  „  (pag.  22),  e  di  af- 
fermare che  io  "  umilio  la  mia  musa  a  razzolare 
"  le  scorie  dei  giornalucoli  libeUisti  e  petrolieri  „ 
(pag.  14).  Io  conosco  un  po' la  storia;  e  so  che 
gli  austriacanti  dicevano  lo  stesso,  o  press'  a  poco, 
del  Berchet;  i  conservatori  francesi  e  italiani,  del 
Beranger  e  del  Giusti;  i  bonapartisti,  dell'Hugo; 
e  posso  congetturare  che  i  democratici  di  Lesbo 
e  di  Atene  avranno  ai  tempi  loro  detto  lo  stesso 
di  Alceo  e  di  Aristofane  aristocratici. 


CRITICA    E    ARTE.  237 

Il  signor  Guerzoni  ha  anche  tutto  il  diritto  di 
accusarmi  per  petroliere:  egli  non  fa  che  ripetere 
quel  che  scriveva  una  volta  il  signor  barone 
Franco  Mistrali  e  quel  che  un  giornale  accredi- 
tato per  tutt'  altro  che  per  fino  spirito,  la  Gazzetta 
d' Italia,  disse  motteggiando  più  volte  e  dice 
forse  ancora.  Ha  tutto  il  diritto  di  scaricare  i 
tuoni  della  sua  indignazione  su  quel  mio  settenario 
che  titolò  di  vile  la  patria:  se  non  che  anche  a 
prendere  le  difese  dell'  Italia  contro  di  me  fu  primo 
il  signor  Mistrali;  e  mi  fulminò  dall'  alto  del  suo 
sentimento  nazionale,  e  calpestò  con  quel  suo 
nobile  e  vigoroso  piede  le  mie  corde  "  tempe- 
rate „  (  mi  par  eh'  e'  dicesse  )  "  nel  fango  e  nel 
vino  „.  Veda  bene  il  signor  Guerzoni  eh'  egli  non 
è  originale  né  meno  negli  accessorii.  Uno  sforzo 
ei  l'ha  fatto;  s'è  provato  a  mettere  in  scena  le 
tombe  di  Groppello:  "  Ed  oggi  ancora  da  ognuno 
"  dei  gemiti  di  madre,  da  ognuna  delle  ferite  di 
"  eroi  sepolti  a  Groppello,  esce  una  voce  che  vi 
"  grida  —  Cancellatela,  Enotrie,  cancellatela  quella 
"  parola:  essa  non  è  vera,  e,  se  deve  essere  il 
"  prezzo  della  nostra  apoteosi,  noi  la  rifiutiamo  „. 
Non  è  trovata  male;  e  coteste  parole,  declamate 
lentamente  in  tono  di  basso  profondo,  possono 
anche  fare  1'  effetto  di  un  racconto  d'  apparizione 
d' ombre  in  una  tragedia  del  secolo  passato.  Io 
per  altro  potrei  rispondere  che  per  quei  versi  mi 
scrisse  cose  onorifiche  Benedetto  Cairoli,  il  quale 
non    mi    tiene  indegno  della  sua  cara  e  preziosa 


238  CRITICA   E    ARTE. 

benevolenza  :  potrei  rispondere  che  giovini  prodi, 
se  altri  mai,  nominati  all'  ordine  del  giorno  da 
Giuseppe  Garibaldi  dopo  una  battaglia,  e  che  ora 
con  forte  ingegno  e  grande  animo  vivono  oscuri 
alla  campagna  o  servono  con  devozione  incon- 
taminata la  patria  tra  le  armi,  mi  han  voluto  bene 
per  quei  versi;  che  sopra  quei  versi  hanno  pianto 
€  fremuto  uomini  prodi,  veterani  della  difesa  di 
Roma,  avanzi  di  tutte  le  patrie  battaglie,  e  che 
pur  servono  incontaminati  la  patria.  Cotesto  e  al-, 
tro  potrei  rispondere:  ma  a  che?  Serbiamo,  ser- 
biamo, nel  sacrario  dell'  anima  certe  soddisfa- 
zioni e  certe  ricompense;  non  comunichiamole 
ai  volghi. 

Finalmente,  il  signor  Guerzoni  ha,  se  vuole 
pigliarselo,  tutto  il  diritto  di  parlarmi  in  nome 
dell'  Italia,  di  ammonirmi  a  credere  nella  virtù  e 
ad  insegnare  la  fede.  Se  non  che,  anche  qui  po- 
trei rispondere:  La  virtù?  ma  quale?  La  fede? 
ma  in  che  ?  L' Italia  opportunista,  la  scettica  Italia, 
tanto  ha  abusato  ed  abusa  di  coteste  parole,  che 
elleno  ne  son  divenute  a  quello  che  il  signor 
Guerzoni,  traducendo  dall'  Hugo,  dice  delle  deno- 
minazioni di  classicismo  e  romanticismo:  "  segni 
"  senza  significato,  espressioni  senza  espressione, 
"  parole  vaghe  che  ciascuno  definisce  a  seconda 
de' suoi  odi  o  de' suoi  pregiudizi  „.  Certo,  che 
anche  a  me  piacerebbe  di  avere  della  virtù  e  della 
fede  con  molti  buoni  di  banca  per  giunta;  mi  pia- 
cerebbe di  avere   assicurato  un  posto  tra  gli  uo- 


CRITICA    E    ARTE.  239 

mini  illustri  di  Plutarco  e  un  palchetto  al  Comu- 
nale^ la  colazione  a  venti  franchi  da  Doney  e 
la  tomba  in  Santa  Croce;  mi  piacerebbe  di  esser 
salutato  Catone,  e  di  spender  francamente  le 
rendite  del  catonato  nella  ricreazione  del  mutar  le 
Marzie,  sicuro  che,  morto,  il  pubblico  mi  spesasse 
poi  i  figliuoli.  Mi  piacerebbe...  Ma  no,  non  mi  pia- 
cerebbe niente  affatto.  Preferisco  che  il  signor 
Guerzoni  mi  predichi  uom  senza  fede  e  senza 
virtù;  e  io  non  gli  chiederò  né  meno  lo  spec- 
chietto della  questura  o  il  polizzino  pasquale. 

Ma  quel  che  il  signor  Guerzoni  non  ha  diritto 
a  fare  è  presentarsi  al  pubblico  e  a  me  come 
giudice  imparziale.  No,  imparziale  ei  non  è.  La 
sua  nota  piena  zeppa  di  politica  è  li  a  smentirlo. 
È  li  a  smentirlo  quella  smorfia  perpetua  a  cui  si 
contrae  il  suo  scrivere,  smorfia  che  vorrebbe  es- 
ser di  sorriso,  ma  è  la  stiratura  dei  nervi  sotto 
lo  sforzo  di  comprimere  il  rantolo  della  rabbia. 
Air  imbarazzo  convulso  co  '1  quale  sgomitola  al- 
cuni periodi,  si  vede  la  voglia  che  avrebbe,  que- 
sto arcangelo,  di  darmi,  potendo,  delle  pugna. 
Come  gli  addomesticatori  di  certe  bestie,  egli  mi 
mostra  con  V  una  mano  la  sferza,  che  non  mi 
coglie,  e  con  V  altra  il  pezzuol  dello  zucchero,  che 
non  mi  alletta;  e  questo  egli  chiama  imparzialità. 
Egli  mi  tiene  press'  a  poco  un  discorso  si  fatto: 
—  Voi  siete  un  pazzo  orgoglioso.  Ma,  se  vi  farete 
buono,  se  vi  ridurrete  a  pensare  a  sentire  a  vo- 
lere come  noi    pensiamo    sentiamo    vogliamo,    se 


240  CRITICA    E    ARTE. 

verrete  a  noi,  noi  vi  proclameremo  poeta,  poeta 
della  nazione,  vi  metteremo  in  luogo  luminoso  e 
alto.  Altrimenti 

Io  v'inibisco  l'immortalità.  — 

Faccia  pure,  signor  Guerzoni  :  ma  io  non  vengo. 
Né  il  signor  Guerzoni  ha  diritto  a  parlare  in 
nome  dell'  arte.  Scrittore  faticoso,  pesante,  imba- 
razzato, gonfio,  vano;  rimpinzo  di  retorica;  mal 
fermo  nella  grammatica;  non  sicuro  nell'ortogra- 
fìa; spropositato  di  lingua;  duro  di  orecchio;  egli 
non  può  levarsi  giudice  di  stile  e  di  versifica- 
zione. Digiuno  di  studi  classici;  indòtto  della  sto- 
ria letteraria,  dei  fondamenti  della  critica  e  del- 
l'estetica;  ignaro  della  parte  seria  delle  lettera- 
ture straniere  e  del  movimento  letterario  odierno; 
per  ciò,  di  angusti  intelletti  artistici,  e  scambiante 
per  principii  d' arte  universali  le  declamazioni 
d'  una  idiosincrasia  liberale  e  civile  e  le  tiranne- 
sche ed  efimere  esclusività  della  piccola  scuola 
borghese  odierna;  egli  non  può  né  farsi  né  dar 
ragione  del  mio  svolgimento  poetico,  né  di  qua- 
lunque altro;  egli  non  può  conoscere  ed  estimare 
adeguatamente  le  elaborazioni  e  la  fusione  di 
certi  elementi  nell'  opera  mia;  egli  non  può  né 
intendere  né  distinguere  con  tatto  sicuro  le  mie 
imitazioni  e  le  mie  innovazioni,  la  mia  parte  tra- 
dizionale e  la  rivoluzionaria,  quel  che  nella  poesia 
italiana  ho  rinnovato  o  importato  e  quel  che  ho 
fatto.  Egli  in  tutti  i  miei  versi  non  si  dà  pensiero 


CRITICA   E    ARTEl  24I 

che  della  contenenza  e  della  forma  materiale  ;  ma 
dinanzi  agli  atteggiamenti  vari  onde  il  mio  lavoro 
le  permuta  egli  abbaglia,  piglia  il  capogiro,  e  fi- 
nisce per  disperato  co  '1  mandarmi  al  diavolo; 
L*  imbarazzo,  la  confusione,  le  contraddizioni  di 
quelle  pochine  e  tisiche  idee  guerzoniane  in  quelle 
venti  paginette  sono  una  pietà. 

Certamente,  che  qualunque  cittadino,  non  che 
il  signor  Guerzoni,  è  nel  suo  pieno  diritto  di  dire 
a  me  e  al  pubblico  o  per  istampa  o  anche  con 
affissi,  che  io  non  gh  piaccio.  Ma  se  un  cittadino, 
solo  perché  si  chiama  signor  Guerzoni,  perché  è 
stato  maggiore  dei  volontari  e  segretario  del  ge- 
nerale Garibaldi  e  ora  siede  al  centro  del  par- 
lamento italiano,  delle  sue  poverette  impressioni 
soggettive  viene  a  farne  nella  Gazzetta  Ufficiale 
una  teoria  critica,  una  lezione  d'arte,  a  me,  che, 
se  artista  non  sono  riuscito,  ho  studiato  e  studio 
l'arte  da  molti  anni  e  per  ogni  verso  e  in  ogni 
forma,  e  non  per  sollazzo,  non  per  distrazione, 
non  a  tempo  avanzato,  ma  con  fatiche  di  tutti  i 
giorni,  con  occupazione  di  tutta  la  vita,  con  pas- 
sione purissima  e  disinteressata  e  degna  oh  certo 
di  miglior  esito,  a  me,  che,  se  non  sono  un  gran 
che  in  poesia,  di  critica  e  di  letteratura  m' intendo 
pur  qualche  cosa;  se  il  signor  Guerzoni,  dico,  con 
quel  po'  po'  di  buon  gusto  e  di  dottrina  che  si 
rimpasta,  con  que'  mezzi  e  con  quelle  forze  che 
possiede,  viene  ad  impancarmisi  innanzi  maestro; 
allora  io  me  gli  levo    in  faccia,  e,  non  se  ne  ab- 

Carducci.  4.  .16 


242  CRITICA    E    ARTE. 

bia  a  male,  gli  dico:  Ecco,  a  punto  perché  siete 
voi  e  perché  fate  cosi,  ecco,  io  vi  dico  che  in 
arte  e  in  letteratura  voi,  signor  Guerzoni,  non 
capite  nulla  e  non  contate  nulla.  No,  V  amare  iì 
Manzoni  e  Y  aver  letto  il  Giusti  e  il  Parini  e  il 
Foscolo,  r  aver  fatto  certi  studi  alla  rinfusa  in 
un'  occasione  qualunque,  non  basta  per  licenziare 
alcuno  all'  esercizio  di  critico.  No,  V  essere  una 
particella  anche  voi  della  sovranità  nazionale  rap- 
presentata, se  può  avervi  aperto  1'  adito  ad  addi- 
mostrarvi in  giornali  e  in  riviste  le  quali  riman- 
gono chiuse  a  tanti  uomini  valenti,  non  v'  infonde 
né  vi  conferisce  facoltà  ed  autorità  veruna  di 
critico.  E  tanto  più  francamente  e  caldamente 
ve  lo  dico,  quanto  oggimai  in  Italia  tutto  è  e  fa 
la  politica,  anche  i  critici,  anche  gli  scrittori,  an- 
che i  professori;  quanto  tutti  voglion  discorrere  di 
arte  in  Italia  quelli  che  meno  ne  sanno;  quanto 
in  Italia  nel  fatto  dell'  arte  e  delle  lettere  non 
si  tiene  per  disonesto  l' entrare  uno  a  trattare 
e  professare  cose  che  ignora  del  tutto;  quanto 
in  Italia  non  si  ha  più  dell'  arte  né  rispetto  né 
amore  né  culto  veruno;  quanto  in  Italia  la  triste 
genia  dei  dilettanti  si  atteggia  da  per  tutto  alla 
dittatura;  quanto  in  Italia  siam  divenuti  al  basso 
impero  delle  lettere,  dove  ogni  pretoriano  può 
giocare  o  almeno  vender  l'impero;  quanto  co- 
testi esempi  traviano  vie  più  sempre  ogni  giorno 
la  gioventù,  e  minacciano  di  ridurre  agli  ultimi 
termini    la  povera    arte  italiana,  la  quale  i  nostri 


CRITICA   E    ARTE.  243 

padri  gloriosi  le  varo  n  tanto  alto  e  che  oggi  è 
caduta  ad  essere  servetta  umilissima  e  a  pena 
tollerata  di  consorterie  politiche  e  di  camorre 
giornalistiche,  roba  da  quarta  pagina  di  gazzette 
e  da  fiere  di  beneficenza.  Oh,  ciò  che  Teofilo 
Gautier  diceva  della  letteratura  della  Jeune  France 
sotto  Luigi  Filippo,  quanto  è  più  vero  della  nuova 
letteratura  italiana  sotto  Vittorio  Emanuele!  "  Uno 
"  può  fare  il  ciabattino  o  il  mercante  di  fiammi- 
"  feri,  che  è  uno  stato  più  onorevole  e  sicuro. 
"  D'  accordo.  Ma  in  fine  ciabattini  o  mercanti  di 
"  fiammiferi  non  tutti  possono  essere;  e  poi  ci 
"  bisogna  un  noviziato.  Il  mestiere  d'  autore  è  il 
"  solo  per  cui  non  bisogna  noviziato:  basta  non 
"  saper  punto  il  francese  e  pochissimo  l' orto- 
"  grafia.  „ 

Per  tutte  le  quali  cause  ho  voluto,  non  rispon- 
dere al  signor  Guerzoni,  ma  dimostrare  a  questo 
signor  deputato  di  non  so  qual  circondario  al 
parlamento  italiano  la  insufficienza  de'  suoi  titoli 
a  esser  deputato  dell'  arte  per  qualunque  circon- 
dario, e  che  la  elezione  fatta  di  sé  da  sé  stesso 
io  non  la  reputo   valida    e   ne   riferisco   all'  Italia. 


XI. 


Queste  note  alla  Nota  del  signor  Guerzoni  su 
le  mie  Nuove  Poesie  io  le  pubblicava  in  un 
giornale  di  Bologna  ai  primi  di  marzo  del  '74. 
Avevo  un  bel   riferirne   all'  Italia.   Parecchi  gior- 


244  CRITICA    E    ARTE. 

nali  dì  parte  moderata  riproducevano  intanto  la 
nota  guerzoniana  (e  credevano  cosi  far  mostra 
d' imparzialità  )  come  un  giudizio  illuminato,  equo, 
benevolo,  irrefiutabile  :  altri  vi  tessevano  intorno 
altri  articoli  per  dimostrare  i  meriti  letterari  del 
critico.  Ce  n'  era  bisogno  :  il  signor  Guerzoni 
allora  concorreva  o  aspirava,  come  dicono,  a  non 
so  qual  cattedra  di  letteratura:  in  somma  voleva 
smettere  il  deputato  e  cominciare  il  professore. 
Il  FanfuUa,  un  giornaletto  che  è  un  giornalone, 
e  che  conta  di  molto  tra  gli  svogliati  d' Italia,  il 
FanfuUa,  non  pure  autorevolissimo,  come  sanno 
tutti,  in  letteratura,  ma  anche  assai  competente, 
quel  che  non  tutti  sapevano,  a  disaminare  i  titoli 
per  r  insegnamento,  il  FanfuUa  affermava  che,  se 
pure  altri  titoli  al  professorato  non  avesse  avuto 
il  signor  Guerzoni,  sarebbe  bastato  il  Saggio  su 
le  poesie  del  Carducci,  un  saggio  che  in  altro 
paese,  diceva  il  FanfuUa  che  lo  doveva  sapere, 
a  quest'  ora  avrebbe  suscitato  chi  sa  che  bella 
agitazione  di  discussioni  critiche  !  E  anche  diceva 
che  il  signor  Guerzoni>  se  non  poesie  in  versi, 
aveva  fatto  poesie  a  colpi  di  fucile;  e  disse  poi 
che  egli  era  un  critico  d' azione.  Raccomandare 
cosi  su  pe'  giornali  un  petente  didascalico  è,  non 
vi  pare?,  curioso:  più  curioso  ancora,  farsi  o  la- 
sciarsi raccomandare  cosi:  curiosissimo  poi,  otte- 
ner cattedre  cosi.  Ma  pur  troppo  della  letteratura 
italiana  da  un  pezzo  in  qua  e'  è  da  ripetere  quel 
che  il   Royer-Collard   diceva   della   monarchia   di 


I 


CRITICA    E    ARTE.  245 

Luigi  Filippo  :  U  abaisscnient  éclatc  de  toutes  parts. 
E  certo  non  metteva  conto  parlare  di  tali  miserie^ 
se  non  si  fosse  trattato  di  vendicare  un  po'  tanta 
brava  gente,  la  quale  lavora  e  aspetta  e  pazienta 
da  tanto  tempo,  e  si  vede  sacrificata  a  certi  di- 
lettanti, che,  stanchi  un  bel  giorno  di  fare  qualche 
altra  cosa,  vogliono  fare  il  professore.    Del  resto 

il   signor   Guerzoni    è come  s' ha  a  dire? 

un  critico,    no  ;    un   letterato,    né   meno ;    è   in 

somma  uno  scrittore  di  buona  fede.  Pubblicò, 
poco  dopo  fatto  professore,  un  libro  intitolato  II 
terzo  rinascimento  (per  lui  in  Italia  si  ri- 
nasce e  si  rimuore  a  ogni  secolo).  Ora,  tra  i 
troppi  libri  che  trattano  di  storia  letteraria  italiana, 
pochi,  ma  pochi  bene,  ve  ne  può  essere  spropo- 
sitati come  quello:  e  che  spropositi!  li  rileva  sor- 
ridendo uno  scolare  di  liceo  :  e  pure  il  signor 
Guerzoni  aveva  il  coraggio  di  scrivere  in  cima 
a  quel  libro  queste  parole,  proprio  cosi,  punto  e 
virgola:  "  Che  ci  sia  della  dottrina,  non  credo: 
"  dell'  amore,  si  deve  sentire  :  della  precisione,  lo 
"  affermo  „.  Ancora:  tra  i  troppi  nostri  libri  di  let- 
teratura accademica,  quello  del  signor  Guerzoni  è 
il  più  veramente,  il  più  interamente,  il  più  preten- 
ziosamente accademico:  e  pure  in  tutto  quel  suo 
libro  il  signor  Guerzoni  perde  la  voce  e  si  batte 
i  fianchi  a  inveire  contro  le  accademie.  Uno  scrit- 
tore che  opera  cosi  per  me  è  di  buona  fede  :  che 
volete  fargli?  E  per  amore  di  questa  sua  buona 
fede  e  anche  di  alcune   pagine   che   brillano   qua. 


246  CRITICA   E    ARTE. 

e  là  SU  quella  boba,  vorrei  poter  dare  al  signor 
Guerzoni  un  consiglio.  Me  lo  permette,  non  è 
vero,  il  signor  Guerzoni,  che  ne  diede  tanti  a  me  ? 
Oh  senta  dunque.  Metta  da  canto  ogni  preten- 
sione alla  critica  storica  e  psicologica  :  butti  per  la 
finestra  ogni  idea  di  erudizione  :  non  citi  mai  mai 
mai  versi  latini  o  italiani  ;  o,  citandoli,  mi  faccia  il 
piacere,  non  faccia,  come  ne  lo  lodava  il  Fan- 
fulla,  della  poesia  a  colpi  di  fucile,  cioè  non  me 
li  storpi:  non  si  dilunghi  in  troppe  scorrerie  per 
quei  pezzi  di  storia  che  tutti  conoscono:  declami 
meno,  assai  meno,  molto  meno  :  lasci  in  pace  gli 
arcadi  (a  questi  lumi  di  luna!):  scriva  un  po' più 
italiano,  e  non  si  abbandoni  troppo  a  quella  sua 
lingua  parlata,  che  già  nessuno  parla  se  non  fos- 
sero quelli  che  scrivono  male;  e  con  queste  av- 
vertenze e  co  '1  tempo  potrà  riuscire  a  fare  un 
po'  di  letteratura  per  le  signore  assai  passabile. 


XII. 


Uno  che  manca  al  tutto  di  buona  fede,  come 
di  altre  cose  buone,  è  il  signor  Bernardino  Zen- 
drini.  Egli  seguitò  a  distendere  per  tre  o  quattro 
fascicoli  della  Nuova  Antologia  un  suo  discorso 
su  Enrico  Heine  e  i  suoi  interpreti;  tutto  per 
amor  mio  e  di  Giuseppe  Chiarini,  che  non  di- 
cemmo molto  bene  de'  versi  e  delle  versioni  del 
signor  Bernardino.  A  me  consacrò  nulla  meno 
che  la  bellezza  di  ottanta  pagine  in  ottavo,  e  io 


CRITICA    E    ARTE.  247 

a  lui  nella  seconda  edizione  delle  Nuove  Poesie 
questa  noticina: 

Il  sig'nor  Bernardino  Zendrini  in  uno  o  più  articoli  d'una 
•sua.  scrittura,  Enrico  Heine  e  i  suoi  interpreti,  che  si  va  pub- 
blicando nella  Nuova  Antologia  (deccmbre  1874  e  gennaio  e  feb- 
braio 1875),  fa  una  gran  fatica  di  scambietti  e  capriole  intorno 
ia  terribilità  con  la  quale  io  ho  rappresentato  il  Heine;  e  a 
provare  che  egli  ryorrfa  un  rivoluzionario  o  un  repubblicano 
quale  lo  mostro  o  me  lo  imagino  io,  ma  che  fu  soltanto  un 
umorista,  un  capo  scarico,  un  artista,  il  signor  Zendrini  ci  dà 
una  gran  lezione,  come  se  io  non  sapessi,  come  se  molti  non 
sapessero,  le  variazioni,  le  contraddizioni,  le  debolezze  che 
erano  e  sono  nell'animo  e  nei  libri  del  poeta  tedesco,  e  quanto 
in  lui  prevalesse  agli  altri  sentimenti  quello  dell'arte.  Se  io 
avessi  voglia  di  prendere  il  pretesto  di  Arrigo  Heine  per  isfo- 
gare  i  miei  umori,  mi  sarebbe  facilissimo  con  alla  mano  tante 
e  tante  pagine  de' Reisebilder,  dell'Ueber  Deutschland, 
delle  Franzosischc  Zustande,  del  Deutschland  ein 
WintermHrchen,  non  che  d'altre  poesie,  rispondere  al 
signor  Zendrini  dimostrandogli  quale  e  quanto  rivoluzionario 
fosse  il  Heine.  Ma  oh  via,  egli  lo  sa  meglio  di  me,  e  solo 
s'  infinge  cosi  un  poco,  e  giuoca  di  citazioncelle  e  di  gam- 
bate retoriche  (perocché  v'  è  anche  una  retorica  popolare 
e  pettt-niattre,  ed  è  della  peggiore),  sempre  presupponendo 
e  ammettendo  a  suo  conto  che  io  faccio  tuti'uno  della  ri- 
voluzione filosofica  religiosa  e  sociale  e  della  forma  repub- 
blicana. Già.  il  signor  Zendrini,  come  critico,  ha  questa  le- 
stezza singolare  d'ingegno  e  di  stile;  egli  s' imagina  e  dà  ad 
intendere  ai  lettori  che  i  suoi  avversari  pensino  e  facciano 
come  a  lui  torna  comodo,  e  poi  con  una  giocondità  di  chiasso 
infantile,  che  del  resto  vi  mette  allegria,  distrugge  i  castelletti 
•di  rena  eh' ei  s'è  fabbricato  su '1  breve  lido  della  sua  fantasia. 
Per  esempio,  egli  scrive:  «  Carlo  i  ispirò  al  Heine,  com'è 
noto,  anche  una  delle  più  belle  storie  del  suo  Romanzerò,  tra- 
dotta, e  abbastanza  bene,  dal   Carducci....    Carducci   fa  naiu- 


248  CRITICA    E    ARTE. 

Talmente  servire  alla  sua  prediletta  idea  repubblicana  cosi 
l'autore  di  questa  storia  o  leggenda  come  la  leggenda  mede- 
sima che  Heine  ha  scritto  eii  artiste.  »  Ma  che  «  servire  »? 
ma  che  «  naturalmente  »?  ma  onde  ha  cavato  il  signor  Zen- 
drini  ciò  che  mi  fa  dire?  «  Carducci  fa  »!  Ma  che  maniera  df 
fare  piuttosto  è  quella  del  signor  Bernard'no?  Io  non  ho  fatto- 
nulla,  io  non  ho  espresso  finora  giudizio  di  sorta  su '1  Carlo  I 
del  Heine:  se  vorrò  0  volessi  farlo,  lo  farò  o  lo  farei  con  quella 
chiarezza  e  nettezza  che  io  amo:  egli  intanto  tenga  pure,  se 
gli  piace,  il  Carlo  I  per  una  poesia  monarchica,  ma  non  venga 
a  farmi  dire  o  pensare  quel  che  non  ho  detto.  Ancora;  «  È  im- 
possibile —  afferma  il  signor  Zendrini  —  immaginar  due  nature 
di  scrittori  più  sostanzialmente  diverse;  e  la  loro  dissomi- 
glianza maggiore  è  appunto  là  dove  il  Carducci  crede  essergli 
maggiormente  congiunto,  cioè  nel  colore  e,  ci  si  perdoni  il  bi- 
sticcio, nel  calore  politico  ».  Ma  quando  mai  ho  io  creduto  o 
lasciato  credere  agli  altri  ch'io  creda  di  esser  congiunto  al 
Heine?  Altro  che  dissomiglianza!  io  credo,  so  e  sento  di  esser 
tanto  distante  dal  Heine  da  non  lasciar  luogo  a  confronti  o  a 
misure:  e  anche,  me  lo  permetta  o  no  il  signor  Zendrini,  credo 
sento  e  so  di  essere  io,  proprio  io,  fatto  male,  ma  fatto  a  modo 
mio.  D'un' altra  cosa  dovrebbe  persuadersi  il  signor  Zendrini: 
che  in  critica,  e  specialmente  in, certa  critica,  bisogna  fare  le 
citazioni  esatte  ed  intere,  chi  non  voglia  passare  per  quel  che 
non  può  essere  mai  un  poeta  quale  vagheggia  sé  stesso  il  si- 
gnor Zendrini,  un  poeta,  cioè,  naturalone  e  pazzarellone,  che 
porta  su  '1  piatto  dei  suoi  versi  in  processione  il  suo  coricino 
tremolante  di  espansività,  come  in  certe  cromolitografie  per  i 
contadini.  Santa  Agaia  le  sue  poppe.  Ecco  un  esempio  di  certe 
citazioni  d-.l  signor  Zendrini:  «  Anche  il  Carducci,  per  giusti- 
ficare le  sue  simpatie  per  la  beata  Giuntini,  rivendica  per  sé 
la  libertà  dell'artista  che  senza  fede  ricrea  le  forme  della  fede; 
ma  se  l'inno  sacro  non  è  che  opera  d'arte  non  dovrà  e  non 
potrà  dirsi  altrettanto  dell'inno  politico?  Se  la  sua  Giuntini 
gli  è  non  meno  indifferente  di  Danton  e  di  Marat,  e  non  sono- 
tutti    e   tre   che   i   suoi   personaggi,    perché    colorar    lutto    in 


CRITICA   E   ARTE.  249 

rosso?  »  Tutto  bene:  ma  egli  ha  dimenticato  che  in  quella 
nota  cui  accenna,  alla  mia  ode  giovanile  alla  beata  Diana  io 
seguitavo  dicendo:  «  Né  io  poi  negli  anni  seri  ho  più  commesso- 
di  questi  sacrilegi]  retorici  >•  Di  si  fatti  sgambetti  di  citazioni 
e  supposizioni  e  di  pedanterie  furbacchiole,  ce  n'  è  una  grazia 
di  Dio  nelle  tre  lunghe  concioni,  che  il  signor  Zendrini  ha. 
opposto  a  sei  strofette.  e  che  non  hanno,  creda  pure  il  signor 
Zendrini,  risoluta  la  questione. 

Cosi  la  noticina.  Eccomi  ora  a  mostrare,  bre- 
vemente, degli  sgambetti,  delle  supposizioni  e 
delle  pedanterie  furbacchiole  del  signor  Zendrini, 
un  po'  più  che  non  potessi  nella  noticina.  Dei 
criterii  e  delle  teoriche,  non  parlo;  perché  non 
intendo  né  difendermi  né  disputare. 

^       XIII. 

A  proposito  "  dello  stil  nuovo  latino  „,  dello 
stile  cioè  co  '1  quale  a  me  parvero  scritte  certe 
*'  canzonette  assettatuzze  e  matte  e  sgrammaticate 
borghesemente  „,  il  signor  Zendrini  tira  fuori 
Dante,  e  afferma  che  quello  stile  "  ha  tanto  di 
barba;  ce  lo  insegnò  Dante,  quando,  cominciata 
la  Commedia  in  latino,  la  ricominciò  in  ita- 
liano  „  ecc.  [Nuova  Antologia,  xxviii,  io);  e  qui 

e  altrove  si  affanna  a  provare  che  la  sua  poesia, 
quella  poesia  eh'  ei  vorrebbe  popolare  e  che  è  so- 
lamente borghese,  procede  da  Dante.  Ma  con  che 
faccia,  nella  questione  della  poesia  sua  e  borghese, 
osa  il  signor  Zendrini  nominar  Dante?  Dante,  il 
cui  lavoro  giovanile  fu  tutto  di  reazione  contro  i 


250  CRITICA    E    ARTE. 

rìmsiton  plebei  di  Toscana  e  di  Puglia?  Dante  che 
parla  cosi  rispettosamente  di  co/ori  retorici,  che 
chiama  padre  suo  il  Guinicelli  e  seguitò  e  compie 
la  scuola  bolognese,  la  quale  prima  applicò  alle 
nuove  rime  la  dottrina  e  la  tradizione  dello  stile 
latino?  Dante  che  prese  a  maestro  e  duce  Vir- 
gilio, da  cui  crede  aver  tolto  lo  bello  stilel  Dante, 
r  autore  del  Vulgare  Eloquio,  il  campione  cioè  del 
volgare  illustre,  aulico,  cardinale,  curiale,  il  tratta- 
tista della  ornata  eloquenza,  il  precettore  (ì^Ws.  poesia 
regolata,  il  definitore  dello  stile  tragico  e  del  co- 
mico e  deir  elegiaco,  il  teorico  della  abitudine  delle 
stanzel  Dante,  in  fine,  il  primo,  per  età  come 
per  grandezza,  dei  nuovi  classici?  Certo  che  l'Ali- 
ghieri è,  quando  ha  da  essere,  popolare,  e  anche 
plebeo:  popolare  di  vena  come  Omero,  magnifi- 
camente e  robustamente  plebeo  come  Aristofane. 
Ma  da  questo  alla  scuola  del  signor  Zendrini,  la 
quale  scambia  per  popolarità  il  cicaleccio  dei  sa- 
lettini  e  la  linguetta  delle  donnine  borghesi  che 
leggono  romanzi,  ci  corre,  oh  se  ci  corre! 

Se  non  che  è  giusto  ricordare  come  il  signor 
Zendrini  avesse  il  coraggio  di  scrivere  intorno  a 
Dante  certe  cose  che  altri  chiameranno  strofe  e 
che  per  me  non  han  nome  se  non  di  peccato,  o 
meglio  di  vizio,  del  vizio  occulto  che  eccita  e 
contamina  nei  ragazzi  malavezzi  o  racchiusi  la 
trista  sensualità  senza  amore:  ora  chi  ha  letto 
quelle  cose,  sa  bene  che  al  signor  Zendrini  la 
natura    negò    ogni    intelligenza   per  la    poesia  di 


CRITICA   E   ARTE.  25 1 

Dante.  Udite  qui  un  po'  dell'  eterno  idillio  di  Dante 
e  Beatrice: 

Solo  a  Bice  il  ballo  è  tedio, 

La  bambina  è  già  si  schiva! 

Del  color  di  fiamma  viva 

Ha  la  vesta  e  biondo  il  crin. 
Un  fanciul  la  guarda  estatico. 

I  compagni  il  chiaman  Dante. 

Dei  lor  giochi  ei  non  è  amante: 

Già  SI  mesto  è  il  fanciullin. 

Tra  quella  monnina  Schifalpoco  (come  dicevano 
i  cinquecentisti)  e  questa  ghignetta  di  fanciullo 
malescio  e  dispettoso,  non  so  chi  meriti  più  sca- 
paccioni. E  non  siamo  ancora  al  principio. 

Antepone  al  loro  strepito, 

Come  Bice,  i  fiori  e  il  verde: 
Tra  i  cespugli  ella  si  perde, 
Ei  la  segue  di  lontan. 

Le  si  accosta,  già  congiungono 

Le  manine  e  cosi  uniti  - 

I  due  piccioli  romiti  , 

Fra  le  piante  errando  van 

E  non  esserci  né  una  fantesca  né  una  sorella 
maggiore  o  una  zia  che  gli  scopra  e  lo  dica  a 
mamma  e  li  faccia  andare  scalzi  a  letto  !  C  è  in 
vece  delle  api  e  delle  farfalle,  le  quali  ronzano 
con  la  stessa  preziosità  che  negli  idilli  di  tutti  i 
Melibeì  degli  ultimi  due  secoli  : 

L'ape  d'or,  de' cespi  immemore. 
Ronza  intorno  desiosa: 
«  Su  quei  labbri  c'è  la  rosa, 
Delibarla  non  potrò  ?  » 


252  CRITICA    E    ARTE. 

La  farfalla,  eterno  simbolo, 
Curiosa  vola  intorno: 
«  Picciol  vate,  io  pure  un  giorno 
Una  imago  t'  offrirò.  » 

Ma  i  Melibei;  bisogna  pur  convenirne,  non  giun- 
sero mai  a  un  ideale  come  questo,  all'  arcadia 
co  '1  lattime  ! 

Tra  le  foglie  il  capo  sporgono 

Con  rossor  le  dolci  fraghe: 

Par  che  arrossino  presaghe 

Di  venturo  indegno  duol. 
Egli  un  di,  proscritto  e  macero 

Per  la  selva  andrà  perduto, 

E  il  ristoro  d'  un  minuto 

Dalle  fraghe  egli  avrà  sol. 

Proprio  un  Dante  buccolico.  Avete  visto  mai,  let- 
tori, i  pastorelli  del  Vatteau?  Piccini  e  carini 
tanto,  non  è  vero?  con  il  loro  abitino  di  seta 
verde  a  ricami,  con  la  loro  parrucchina  incipriata 
e  il  cappellino  a  tre  cornini.  Or  bene,  pigliate  uà 
di  cotesti  pastorellini,  rimpiccinitelo  anche  un 
po'  più,  mettetegli  a  dosso  un  lucchettino  rosso 
e  un  cappuccetto  aguzzo,  e  atteggiatelo  a  bimbo 
serio  co  '1  suo  bravo  naso  lungo  e  la  sua  bazzetta 
sentimentale,  e  imaginate  che  dica  delle  scioc- 
chezze come  queste  che  ora  udirete:  eccovi  il 
Dante  del  signor  Zendrini. 

Oggi  i  due  tra  i  fiori  esultino, 
Fiori  anch' ei  di  questa  aiuola! 
«  Più  la  rosa  o  la  viola 
Ami,  Dante,  o  il  gelsomin?  » 


CRITICA    E    ARTE.  253 

«  Amo  tutto:  e  rosa  e  candido 
Gelsomino  e  violetta; 
Ed  adoro  un'angioletta 
Che  mi  penso  aver  vicin.  » 

Santi    scapaccioni!  Pare  tutto  il  signor  Zendrini. 

«  Ami,  o  B'ce,  più  le  rondini 

O  gli  occulti  usig-nolelti  ? 

E  son  essi  i  prediletti?  » 

Dice  trepido  il  garzon. 
«  Amo  tutto;  e  gaie  rondini 

E  usignoli;  e  l'uomo  adoro 

Che  non  tócca  i  nidi  loro 

Ed  è  buono  coni'  ei  son  !  » 

E  basta  cosi;  se  no,  è  il  caso  di  dire  come  quel 
personaggio  di  Aristofane,  oc?  (xo:  X£x:tvyjv,  che  io 
non  starò  a  ridire  in  italiano,  ma  che  il  Sainte- 
Beuve  traduce,  Donnez-moi  la  euvette.  Conchiu- 
dendo, quando  uno  è  stato  tanto  fatuo  da  scri- 
vere e  da  dare  a  stampare  versi  intorno  a  Dante 
come  cotesti,  quel  tale  può  anche  dire,  senza  col- 
pabilità, che  a  far  versi  come  cotesti  e  come  al- 
tri simili  egli  ha  imparato  da  Dante..  E  torniamo 
alla  storia  letteraria. 

Della  quale  non  maggior  conoscenza  dimostra  il 
signor  Zendrini,  quando  vuole  aggreggiare  la  sua 
poesia  a  quella  di  Vittore  Hugo  "  e  alla  gloriosa 
pleiade  di  scrittori  del  1830  capitanati  da  lui  „ 
{Nuova  Antologia,  xxviii,  368).  Prima  di  tutto,  egli 
avrà  voluto  dire  del  1827,  perché  nel  1830  la  ple- 
iade (com'  egli  impropriamente  denomina  gli  scrit- 
tori   del    cenacolo  o  del  rinnovamento    hughiano, 


254  CRITICA   E    ARTE. 

che  non  furono  precisamente  sette)  scadeva  già 
e  scompagnavasi  in  faccia  alla  politica.  Dopo 
ciò,  è  ben  vero  che  l'Hugo  chiamò  péra  la  péra 
dove  nella  sua  poesia,  e  intendeva  del  dramma, 
e'  entrava  la  péra,  cosa  del  resto  che  tutti  i  veri 
poeti  fanno,  e  che  oggi  in  Italia  qualcheduno  al 
bisogno  fa,  più  spesso  e  più  arditamente  che  non 
i  suoi  critici  :  è  vero  che  V  Hugo  e  i  suoi  minori 
dieder  la  caccia  alle  circonlocuzioni  del  falso  Pin- 
daro Le  Brun  e  alle  amplificazioni  del  falso  Vir- 
gilio Delille;  ma  non  è  men  vero  che  essi  resti- 
tuirono alla  poesia  francese  cosi  poveretta  da 
Malherbe  in  poi  quello  splendore  della  lingua 
poetica  che  al  signor  Zendrini  fa  male  agli  occhi. 
Ma  che?  dimentica  egH  il  signor  Zendrini,  o  non 
sa,  che  la  pleiade  si  gloriava  di  procedere  da 
Andrea  Chénier,  il  poeta  più  classicamente  ari- 
stocratico del  secolo  decimottavo?  Dimentica  egli 
le  poesie  più  veramente  belle  dell'  Hugo,  poesie 
che  sono  la  più  splendida  condanna  eh'  uom  possa 
imaginare  della  poetica  zendriniana?  Dimentica 
egli  che  il  manifesto  critico  della  nuova  scuola 
fu  il  libro  del  Sainte-Beuve  su  Ronsard  e  i  poeti 
del  secolo  decimosesto,  che  il  signor  Zendrini 
deve  ragionevolmente  detestare?  e  che  nel  cena- 
colo e'  era,  o  si  disse,  un  gran  Ronsard  in  folio, 
ne'  cui  margini  e  nelle  pagine  bianche  ciascun 
degli  accolti  inscrivea  versi  e  giaculatorie,  come 
vóti  e  offerte  su  l'-^ara?  Studi  bene  il  signor  Zen- 
drini i  poeti  del  romanticismo  francese,    e   vedrà 


CRITICA    E    ARTE.  255 

quanto  dedussero  e  imitarono  dalla  versificazione 
e  dallo  stile  classico;  troppo  classico,  della  vera 
pleiade  del  cinquecento,  quanto  rinnovarono  e  rin- 
frescarono della  lingua  del  Ronsard  e  di  quella 
del  Marot,  del  D'  Aubigné  e  di  Régnier. 

Ho  su  '1  tavolino  un  libro,  ultimamente  pub- 
blicato, del  Sainte-Beuve,  poeta  e  critico  della 
pleiade  del  i8jo,  come  dice  il  signor  Zendrini,  e 
mi  ricordo  d*  avervi  letto,  pochi  giorni  sono,  due 
pagine  su  la  lingua  poetica,  le  quali  mi  par  bene 
porre  sotto  gli  occhi  de'  miei  lettori  : 

Al  Manzoni  concediamo  volentieri  ciò  eh'  e'  dice  su  la  dif- 
ficoltà e  gl'inconvenienti  a  cui  va  incontro  chi  voglia  scrivere 
in  buona  prosa  italiana  opere  lunghe  su  certi  argomenti;  ma, 
per  la  poesìa,  in  quella  specie  di  lingua,  non  pili  artificiale,  ma 
superiore  alla  lingua  usuale  e  d'  un  ordine  più  alto,  d'  un  ordine 
che  sta  per  sé,  lingua  che  è  permesso  e  anche  imposto  a  ogni 
poeta  serio  di  raccogliere  e  far  sua,  stentiamo  a  non  vedere 
più  tosto  un  vantaggio.  Che  altro  in  fine  era  essa  la  bella 
poesia  latina?  e  credete  che  in  versi  Orazio  e  Virgilio  parlas- 
sero la  stessa  lingua  che  il  popolino  di  Roma?  Quasi  altr'e 
tanto,  credo,  nella  letteratura  greca  potrebbe  dirsi  della  bella 
lingua  attica,  la  quale  era  di  certo  un  po' artificiale,  pur  rac- 
costandosi più  che  ad  altro  al  tono  e  al  gusto  del  popolo 
d'Atene,  proprio  come  in  Italia  la  bella  lingua  ama  ripeter 
le  origini  dal  popolo  di  Firenze.  In  francese  non  avemmo 
nulla  di  simile;  e  nella  poesia  a  ben  altre  lagnanze  fu  data 
occasione.  La  poesia  ebbe  la  pretesa  di  parlare  come  la  prosa, 
con  la  meno  possibile  differenza.  Cominciò  Malherbe,  ricordia- 
mocene, a  vantarsi  d'andare  in  cerca  di  parole  pe'l  suo  vo- 
cabolario tra  i  facchini  de' granai  e  tra  la  gente  de' mercati: 
or  non  n' è  mica  accaduto  che  le  persone  del  popolo  in  Francia 
abbiansi  mandati  per  lo  senno  a  mente  i  versi  del  Malherbe  e 


256  CRITICA    E    ARTE. 

^li  abbiati  potuto  intendere!  Tali  condizioni,  con  un  po' più  dì 
povertà  che  la  prosa,  la  poesia  se  le  impose  dunque  gratuita- 
mente e  rimettendoci  un  tanto  perché  restando  chiara  e  cor- 
rente non  ne  diventò  più  popolare.  A  prova  di  bontà  pe' versi 
francesi,  Voltaire  diede  la  famosa  ricetta:  Metteteli  in  prosa. 
La  poesia  in  Francia  seguitò  per  questa  via  da  Malherbe  sin 
alla  fine  dgl  secolo  decimottavo.  In  luogo  d'avere,  come  altrove 
si  ebbero,  quelle  che  si  potrebbero  chiamare  le  logge,  ella  non 
ebbe,  se  è  permesso  il  termine,  che  un  marciapiede,  benissimo 
fatto,  ma  pochissimo  sollevato  disopra  alla  prosa.  A'  nostri 
giorni  è  stato  tentato  di  rendere  alla  poesia  il  suo  linguaggio 
proprio,  il  suo  stile,  le  sue  imagini,  i  suoi  privilegi;  ma  l' im- 
presa potè  parere  assai  artificiale,  per  ciò  che  bisognò  andare 
in  cerca  d'  esempi  nel  passato  più  a  dietro  di  Malherbe,  esempi, 
per  di  più,  manchevolissimi  e  senza  splendore  d'autorità.  È  un 
bel  pezzo  che  Fénelon  nella  sua  Lettera  all'  Accademia  fran- 
cese parve  aver  riconosciuto  tale  inferiorità  della  poesia  fran- 
cese in  paragone  alla  poesia  degli  antichi.  Or  in  italiano,  la 
mercé  di  Dante  e  grazie  alla  facoltà  per  ogni  poeta  moderno 
di  riferirsi  a  quelli  alti  esempi  e  sollevarsi  oltre  il  livello  di 
tutt'  i  giorni,  la  poesia  tenne  sempre  il  suo  alto  grado,  o  al- 
meno lo  ricupera  ogni  volta  che  vien  su  un  vero  poeta.  Cosi 
potrebbesi  rispondere  al  Manzoni,  all'  autore  dei  cori  del  Car- 
magnola e  degl'  Inni  sacri. 

Cosi  il  Sainte-Beuve  nelle  Chroniques  pa- 
risiennes  (pag.  127).  E  il  signor  Zendrini  sa 
qual  sorta  di  realista  era,  già  molto  prima  che 
cotesta  denominazione  esistesse,  il  Sainte-Beuve, 
€  come  nelle  Pensées  d'aoùt  specialmente  si 
piacesse,  se  non  di  costeggiare  co  '1  verso  la 
prosa,  certo  di  fare  una  specie  di  poesia  parlata, 
il  sermo  lirico  ed  elegiaco. 

Io  confesso  di  essere  dell'  opinione  del  Sainte- 
Beuve.    Odio   la  lingua  accademica   che  prevalse 


CRITICA    E    ARTE.  257 

in  molte  opere  poetiche  degli  ultimi  secoli:  ma 
amo,  adorO;  la  lingua  di  Dante  e  del  Petrarca, 
la  lingua  de'  poeti  popolari  del  quattrocento,  la 
lingua  degli  elegantissimi  poeti  del  cinquecento, 
la  lingua  de*  poeti  classici  dell'  ultima  età;  amo  e 
studio  e  uso  a  tempo  la  lingua  del  popolo,  la 
nata  e  non  fatta  lingua  del  popolo,  tanto  più  fa- 
cilmente, credo,  quanto  ne  ho  in  casa  la  fonte  e 
non  mi  bisogna  ricorrere  alle  cannelle  dei  nuovi 
accademici  popolari:  e  con  tutto  questo  non  mi 
perito  né  vergogno  di  dedurre  anche  quello  che 
mi  par  bene  dal  greco  e  dal  latino.  Ma  a  punto 
tutto  questo  al  signor  Zendrini  non  piace.  Il  mio 
lavoro  artistico  è,  o  vorrebbe  essere,  di  amore,  di 
conciliazione,  di  allargamento,  di  calda  fusione; 
il  suo  è  repulsione,  esclusivismo,  ristringiménto. 
Egli  si  è  fatto  un  cotal  suo  tipettino  di  poesietta 
piccinina,  piccinina,  piccinina;  e  la  manda  attorno 
con  una  vesticciuola  miserina,  strettuccia,  strac- 
ciatella, smontata  di  colore,  sbiadita,  con  fron- 
zoli, qua  e  là,  di  fiori  secchi;  ed  ella  se  ne  va 
cosi  tutta  impettita  e  in  ghingheri,  occhieggiando 
sé  stessa,  come  certe  povere  figliolette  di  famiglie 
scadute  quando  la  mamma  ha  racconciato  al  loro 
dosso  un  vestitino,  già  passato  per  tutte  le  sorelle 
maggiori  e  che  servi  anche  al  di  di  nozze  della 
madre.  Povero  signor  Zendrini!  ecco,  non  posso 
infingermi,  io  odio  la  sua  poesìa,  perché  tutto  ciò 
che  mi  ributta  esteticamente  io  lo  odio;  ma  egli, 
come   uomo,    come  prossimo,  come   Zendrini,  mi 

Carduccl  4.  17 


258  CRITICA   E    ARTE. 

fa  compassione.  Povero  signor  Zendrini!  egli  crede 
che  quel  suo  mostricino  sia  la  poesia  giovine, 
la  poesia  sana,  la  poesia  che  ha,  come  dicono, 
dell'  avvenire  ;  e  non  sente  il  puzzo  di  morticino 
che  quel  corpiciàttolo  tramanda.  Intanto  la  tristan- 
zuola, come  pur  troppo  certi  bambini  condannati 
dalla  natura  al  morbo  e  alla  morte,  è  istintiva- 
mente, fisiologicamente,  cattiva  e  maligna,  e  gi- 
ronzola facendo  smorfie,  boccacce,  dispetti  a  questo 
e  a  quello,  e  qui  butta  nel  pozzo  il  gatto  di  casa,  e 
là  ti  schiaccia  il  capo  agli  uccellini,  e  da  per  tutto, 
tutto  ciò  che  è  lieto  e  sano,  ella  lo  guarda  come 
se  facesse  male  a  lei,  con  occhi  che  sputano  il  ve- 
leno. Povero  padre  !  menatelo,  voi  suoi  amici,  un 
po'  fuori,  fategli  fare  un  viaggetto  di  distrazione 
per  qualche  colonna  di  giornale  :  in  questo  men- 
tre la  bamberòttola  finirà  di  morire,  è  il  meglio 
che  possa  fare;  e  qualcheduno  di  voi  le  inalzerà 
un  sepolcretto  all'  ombra  d' un  vasetto  di  fiori, 
e,  tanto  per  dire  qualche  cosa,  (già,  d'una  iscri- 
zione non  si  può  fare  a  meno,  e,  morti,  siamo 
tutti  brava  gente)  ci  scriverete  su,  magari,  che 
ella  era  un'  angeletta  ma  che  i  topi  le  rosero  le  ali. 
Per  adesso,  come  io  uso  vestire  le  mie  poesie 
un  po'  meglio  che  il  signor  Zendrini  non  faccia 
le  sue,  cosi  egli  trova  da  dire  anche  su'l  taglio 
di  quelle  vesti.  Già,  a  sentir  lui,  io  piglio  di  qua 
e  di  là  gli  emistichi  e  le  frasi  di  questo  o  quei 
classico,  o  gli  piglio  una  idea  una  imagine  una 
figura;  e  poi  ci  appiccico  su   una  parola   di   mio 


CRITICA   E   ARTE.  259 

come  chi  dicesse  un  pennacchino,  e  cosi  imma- 
scherate le  mando  al  corso.  Gli  esempi  eh'  ei 
reca  non  sono,  a  dir  vero,  molti,  ma  sono  certo 
evidentissimi.  Io  descrivo  néìV  Idillio  maremmano 

il  fianco  baldanzoso  ed  il  restio 

Seno  a  i  freni  del  vel. 

Ora  sapete  voi  donde  ho  disegnato  quel  seno? 
Da  un  verso  del  Foscolo  nelle  Grazie  dove  ri- 
corda le  brianzole 

Di  nera  treccia  insigni  e  di  sen  colmo. 

Ve  ne  sareste  accorti  voi?  No?  Né  men  io,  né, 
credo,  nessuno  :  tant'  è  vero  che  a  un  altro  cri- 
tico cotesta  mia  pareva  una  descrizione  da  Ba- 
tacchi. Ancora:  io  tradussi  gli  ultimi  due  versi 
del  Re  di  Tuie,  a  lettera  cosi: 

E  giù  gli  cadde  spento 
L'  occhio,  e  non  bevve  più. 

Bene  :  il  signor  Zendrini  è  capace  di  trovare  che 
io  ho  imitato  un  verso  del  xxx  del  Purgatorio, 

Gli  occhi  mi  cadder  giù  nel  chiaro  fonte, 

ma  che  lo  sciupai  con  queir  appiccicaticcio  dello 
spento.  E  dire  che  là  è  Dante  il  quale  vergognoso 
abbassa  gli  occhi  e  si  riscontra  nella  sua  imagine 
rispecchiata  dal  fiume  sacro,  e  qui  è  il  re  di  Tuie 
che  muore.  Confessate,  lettori  miei,  che  per  es- 
sere pedanti  a  questo  segno  ci  vuole,  è  giusto 
riconoscerlo,  un  zinzin  di  fantasia.  Ma  non  è 
nulla.  Credereste  voi  che  per  disegnare  il  ghigno 


26o  CRITICA    E    ARTE. 

di  Marat  io  avessi  preso  le  linee  del  viso  dì 
Dante  quando  sorride  a  due  poeti,  Virgilio  e 
Stazio?  E  pure,  secondo  il  signor  Zendrini,  è  evi- 
dente. Io  scrissi 

e  sprizzò  allora 
Da  i  cavi  di  Marat  occhi  un  balen 
Di  riso, 

e  Dante  cantò 

Un  lampeggiar  di  riso  dimostromrai, 

e  non  so  chi  altri^  perché  di  Dante  non  è  certo 
questo  emistichio  che  il  signor  Zendrini  gli  at- 
tribuisse; "  e  balenommi  un  riso  „. 

Più  avanti  il  signor  Zendrini  dà  a  divedere, 
cosi  di  straforo,  che  io  possa  aver  preso  qualche 
tinta  per  la  prima  stanza  del  mio  Carnevale 
da  una  sua  versione  di  Heine.  Qui  la  memoria 
non  l'ha  servito  bene:  il  Carnevale  fu  pubbli- 
cato in  un  giornale  fiorentino  del  1863,  prima 
assai  della  versione  zendriniana.  In  altri  accorgi- 
menti poetici,  del  resto,  o^  meglio,  in  altri  usi  del 
mestiere,  mi  riscontro  con  lui,  se  bene  io  non 
spinga  la  franchezza  del  colpo  di  mano  tant'  oltre 
quanto  lui.  A  certo  punto  del  suo  discorso  [Nuova 
Antologia,  xxviii,  12)  il  signor  Zendrini  si  sbiz- 
zarrisce con  le  dieresi  delle  quali  io  indiademo^ 
egli  dice,  le  parole;  e  dice  che  nel  Canto  del- 
l'Italia  che  va  in  Campidoglio  tiro  il  collo 
ad  archeologo  per  far  tornare  il  verso;  e  più 
avanti  ammira   non    so    che  pennino    d'  una  mia 


CRITICA   E   ARTE.  26 1 

dieresi.  Ecco:  io  non  negherò  al  signor  Zendrini 
che  a  qualche  archeologo  di  mia  conoscenza,  il 
quale  conturba  i  morti  e  incomoda  i  vivi,  non  mi 
lasciassi  andare,  in  qualche  accesso  di  natura 
prima,  a  tirargli  il  collo:  ma  al  mio  archeologo 
inglese  non  glie  T  ho  tirato  di  certo  :  era  inu- 
tile, o  in  verso  o  in  prosa  archeologo  ha  il 
collo  lungo  cinque  sillabe.  Ha  egli  il  signor  Ber- 
nardino altrettanto  pura  la  conscienza  di  si  fatti 
tiramenti  di  collo  a  danno  di  creature  più  gra- 
ziose e  innocue  che  V  archeologo?  Apro  il  vo- 
lume delle  Primepoesiedi  Bernardino  Zendrini 
(Padova,  Giammartini,  1871,  lire  4,  50.  Vediamo 
di  fargliene  spacciar  qualche  copia),  e  m'  imbatto 
in  versi  come  questi: 

Oh  il  pennello,  il  pennel  per  degnamente 
Effig/arte! 

Sul  conscio  destri'er  dalla  recente 
Vittoria  ecco  tu  riedi,  o  Bonaparte. 
pag.  13. 

E  origliai  con  Jessica, 
In  blande  estive  sere, 
Origliai  la  musica 
Delle  remote  fiere. 

pag.  99. 

Ad  ospite  regal  che  giunto  è  appena 
Ella  prepara  accoglienze  e  feste. 
pag.  193. 

Con  che   cor,  morettina  ! Con    che   cor  I  con 

che  cor!  con  che  cor!  E  non  è  nulla.  Ei  si  di- 
verte  a   tirare  il  collo  fino  alle  conchiglie  per  ri- 


202  CRITICA    E    ARTE. 

durle  alla  misura  di  quattro  sillabe,  che  il  verso 
voleva  :  per  compenso  dà  un  calcio  dietro  al  grave 
palombaro  e  lo  trasmuta  in  un  palombaro  sdruc- 
ciolo tanto  fatto.  Udite: 

Infido  oceano, 

Amici,  è  il  mondo: 

Mesto  palombaro, 

Ne  ho  tócco  il  fondo. 
Sperai  raccogliervi 

La  perla,  ed  ahi 

Vuote  conchiglie 

Io  raccattai. 

Sempre  cosi,  povero  Bernardino  ;  anche  nella  in- 
teressantissima posizione  di  "  mesto  palombaro  „. 
In  fine:  il  signor  Zendrini  mi  rimprovera  i  "  pe- 
riodi interminati  „  (xxviii  21)  e  che  "  camminano 
a  pause  „  :  bene  ;  credereste  voi,  lettori,  che 
sempre  tra  quelle  Prime  poesie  del  signor  Ber- 
nardino ve  n*  è  una  eh' è  tutta 'un  periodo  di 
ventiquattro  versi?  ve  n' è  un'altra  che  si  gro- 
giola,  come  una  biscia  al  sole,  in  un  periodo  di 
ben  ventisei  versi  per  cinque  pause  ?  e  nelF  una 
e  neir  altra  i  versi  vanno  rimati  a  due  a  due 
come  una  regola  di  fi*ati  in  processione?  Non  te- 
mete, non  temete,  lettori  miei  :  non  ve  le  reciterò  : 
potrà,  chi  voglia,  leggerle  alle  pagine  261  e  268 
del  su  lodato  volume:  s'intitolano  Povertà 
d'  imagini   e   Lissa. 

Dispiace  anche  a  me,  quanto  deve  infastidire 
il  lettore,  questo  insistere  su  minuzzaglie  del  me- 


CRITICA   E   ARTE.  263 

stiere.  Ma  che  ci  ho  che  fare  io  se  il  signor  Zen- 
drini,  con  tutto  queir  odio  che  ostenta  alla  pe- 
danteria, trattando  di  Heine  in  tre  o  quattro 
fascicoli  della  Nuova  Antologia,  ha  trovato  il 
modo  di  discorrere,  invece,  delle  mie  parole  per- 
seguitandole fin  nelle  sillabe?  Io  ho  dovuto  ri- 
prendere sol  per  un  momento  il  suo  giuoco,  non 
per  difender  me,  ma  per  ridere  un  po'  di  lui. 
E  ora  passiamo  a  cose,  per  modo  di  dire,  più 
serie. 

Il  signor  Zendrini  ha  una  vera  smania  di  co- 
glier me  in  contraddizione  con  me  stesso  come 
^democratico  e  razionalista;  e  a  ciò  piglia  le  pòste 
il  meglio  che  può.  Egli  mi  rinfaccia  che  "  bia- 
"  simo  Cesare  per  avere  aperto  il  senato  ai  sena- 
"  tori  da'  gialli  crini  e  per  aver  mandato  la  plebe 
"  ad  arare  valli  straniere  „,  quando  il  primo  fu 
provvedimento  essenzialmente  democratico,  e  so- 
ciale il  secondo  (xxviii,  353).  Sta  bene:  ma  io 
né  biasimo  né  lodo;  nel  sonetto  secondo  su '1  Ce- 
sarismo io  reco  que'  due  fatti  in  prova  della  po- 
tenza e  della  gloria  alla  quale  Cesare  era  giunto  : 
tant'  è  vero  che  ricordo  anche  i  suoi  trionfi  e  la 
riforma  del  calendario.  Sùbito  dopo  mi  accusa  che 
io  mostri  di  "  preferire  la  bella  storia  aristocratica 
"  di  Tacito,  campione  dell'oligarchia,  alla  storia  do- 
"  cumentata,  la  quale  è  uno  de'  più  preziosi  acqui- 
^  sti  della  democrazia  e  della  civiltà  „.  Chi  nega 
il  prezioso  acquisto  ?  Anche  questa  volta  il  signor 
Zendrini  avrebbe  potuto  risparmiarsi  V  incomodo 


264  CRITICA   E    ARTE. 

di  far  lezione;  se  avesse  voluto  ricordarsi  che 
neir  Io  triumphe,  a  cui  egli  allude,  io  mi  pro- 
posi di  metter  a  fronte  glorie  e  nomi  romani  a 
glorie  e  nomi  di  politici  e  di  scrittori  del  nuovo 
regnO;  e  non  altro,  non  altro.  Cosi  preferii  Tacito 
ad  alcuni  storici  contemporanei;  e  come  uomo  e 
pensatore  e  osservatore  e  scrittore  lo  preferisco, 
anche  fuor  di  poesia,  non  pure  agli  odierni  autori 
di  storie  documentate,  ma  al  gran  padre  della 
erudizione  e  della  critica  storica,  al  Muratori. 

Il  signor  Zendrini  anche  rimescola  la  questione 
del  Satana.  Io  di  quel  Satana  oramai  ne  ho 
fin  sopra  gli  occhi,  e  sono  stufo,  più  che  stufo,  del 
dover  riparlare  di  lui  e  di  me.  Ma  dimostrare  come 
certa  gente  fa  la  critica  e  qual  sorta  di  critica  da 
certa  gente  è  spacciata  per  arguta,  dotta,  inge- 
gnosa, e  specialmente  imparziale,  mi  par  che  sia 
bfene;  e  forse  che  anche  di  questo  m*  illudo.  Il  si- 
gnor Zendrini  in  somma  prova  e  riprova:  1°  che 
Dante  e  il  Tasso  e  il  Milton  hanno  dipinto  il 
diavolo  altrimenti  da  me:  grazie,  essi  erano  i  poeti 
della  fede:  2°  che  altrimenti  1'  hanno  rappresen- 
tato anche  il  Goethe  e  il  Byron  e  il  Heine:  gra- 
zie ancora,  essi  maneggiavano  epicamente  o  dram- 
maticamente il  diavolo  leggendario:  3°  che  la  fan- 
tasia popolare  concepisce  il  diavolo  altrimenti: 
mille  grazie  per  T  ultima  volta,  il  popolo  nel 
diavolo  ci  crede,  o  ci  credeva.  Dopo  ciò  il  signor 
Zendrini  si  degna  d' ammettere  che  nel  Satana 
io  abbia    voluto    rappresentare  un'  idea  filosofica. 


CRITICA   E   ARTE.  265 

ma  per  tale  rappresentazione  egli  crede  che 
avrei  fatto  meglio  a  sceglier  Prometeo^  come  fe- 
cero il  Monti  e  lo  Shelley;  e  qui  grandi  lodi 
de*  due  poeti.  Alle  quali  io  consento  di  lietissimo 
cuore:  ma  da  che  il  Monti  e  lo  Shelley  rinnova- 
rono cosi  bene  filosoficamente  il  gran  titano  di 
Eschilo,  non  pare  anche  al  signor  Zendrini  che  sa- 
rebbe stato  e  impudente  e  imprudente  ed  inutile  se 
r  avessi  ripreso  a  trattare  io  di  terza  mano?  A  ogni 
modo,  non  era  il  caso  :  Prometeo  raffigura  stupen- 
damente la  lotta  del  pensiero  umano  co  '1  teologico 
in  generale:  io  doveva  rappresentare  la  vitalità, 
la  guerra,  la  vittoria  del  naturalismo  e  del  ra- 
zionalismo dentro  e  contro  la  chiesa  cristiana; 
e  Prometeo  a  ciò  non  mi  serviva,  invece  mi  ser- 
viva benissimo  Satana.  È  vero  o  non  è  vero  che 
la  chiesa  cattolica,  anzi  tutte  le  chiese  cristiane, 
ha  ed  hanno  sempre  maledetto  e  maledicono 
come  orgoglio  satanico,  come  opere  e  istiga- 
zioni diaboHche,  il  hbero  pensiero,  la  scienza, 
i  sentimenti  umani  e  naturali,  tutte  insomma  le 
belle  cose  che  enumerai  nella  lettera  a  Qui- 
rico  Filopanti?  È  vero  o  non  è  vero  che  Gre- 
gorio XVI  titolava  d' invenzione  diabolica  il  va- 
pore ?  Dunque  volete  che  tutto  ciò  sia  Satana? 
E  Satana  sia.  Viva  Satana  !  Ecco  il  concetto  e 
la  ragione  dell'  inno  a  Satana.  Tutte  queste  cose 
furono  da  me  dette  e  ridette  nelle  risposte  al 
Filopanti  e  al  critico  del  Diritto.  —  Ma  no  — 
ripiglia  il  signor  Zendrini,  non  dandosene  per  in- 


206  CRITICA   E   ARTE. 

teso  e  stemperando  in  otto  paginone  con  molto 
loquace  malignità  quel  che  il  Filopanti  disse  con 
molta  onestà  in  due  paginette  —  nO;  voi  non  po- 
tevate farlo,  perché  il  tipo  del  Satana  è  deter- 
minato — .  E  io  l'ho  fatto:  che  cosa  ci  farebbe 
Ella,  professore  mio? 

Che  cosa  ci  fa  il  signor  Zendrini?  Delle  so- 
lite. —  Ma  come?  —  egli  oppone  —  voi  m' incar- 
nate Satana  nel  Savonarola  e  in  Lutero,  due  dei 
più  credenti  e  convinti  cristiani!  —  Non  io,  pro- 
fessore, non  io;  ma  la  Chiesa  Cattolica.  Tutto  ciò 
che  insorge  contro  di  lei,  tutto  ciò  che  accenna  a 
uscire  fuori  di  lei,  non  pur  dubitando  o  riformando, 
ma  ricordando,  ammonendo,  deplorando,  per  lei 
è  satanico:  e  Alessandro  vi,  il  nefando,  dovea 
maledire  la  perversità  diabolica  del  frate  di  San 
Marco;  e  Leone  x,  il  pagano,  avvertire  popoH  e 
principi  a  guardarsi  dalle  diaboliche  seduzioni  del 
frate  di  Sant'  Agostino.  Tutto  ciò  non  capisce,  o 
vuole  non  capire,  il  signor  Zendrini,  e  osserva: 
"  Forse  V  essere  il  Savonarola  un  repubblicano 
"  (come  poteva  esserlo  egli,  fiorentino  del  se- 
"  colo  decimoquinto,  riformatore  e  frate)  ha  se- 
"  dotto  il  Carducci  a  crearne  un  repubblicano  mo- 
"  derno,  a  fare  un  moderno  razionalista  d' uno 
"  de'  più  fanatici  e  austeri  tra  i  credenti.  „  Il 
signor  Zendrini  pare  si  dia  a  credere  che  basta 
lo  sgrammaticare  per  non  esset  pedanti:  ma  di 
rado  a  me  è  avvenuto  di  trovare  tra  i  gramma- 
tici un  pedante  della  forza    sua,  se  pedante  è  da 


CRITICA   E    ARTE.  267 

dire  chi  fa  lezióne  a  ogni  pie  sospinto  e  su  cose 
che  tutti  conoscono.  Certo  il  signor  Zendrini  non 
è  obbligato  a  sapere  come  e  quanto  nel  1865  io 
scandalizzassi  i  neopiagnoni  fiorentini  con  quel 
che  dissi  del  Savonarola  in  un  discorso  all'  Ate- 
neo, poi  stampato  in  un  giornale  di  Firenze.  Ma 
vegga,  se  vuole,  il  discorso  che  misi  innanzi  alle 
poesie  toscane  del  Poliziano  nel  1863;  e  legga 
anche,  o  egli  o  il  lettor  mio,  queste  due  pagine 
de' miei  Studi   letterari: 

E  pure,  mentre  per  un  lato  l'elemento  ecclesiastico  segui- 
tava esagerando  la  sua  trasformazione  romana  fino  a  far  pa- 
gana la  corte  dei  papi,  il  principio  religioso  per  T  altro  lato, 
contro  il  sensualismo  classico  del  Fontano,  contro  lo  scetti- 
cismo popolaresco  del  Pulci,  contro  il  paganesimo  artistico 
del  Poliziano,  contro  1'  idealismo  romanzesco  del  Boiardo, 
contro  la  corruzione  dei  Medici,  di  Firenze,  d' Italia  e  della 
Chiesa,  contro  il  Rinascimento  in  somma,  insorgeva  con  un 
ultimo  tentativo  di  ascetica  reazione  in  persona  di  Girolamo 
Savonarola.  Non  tutto  il  clero,  a  dir  vero,  avea  seguitato  il 
ponteficato  nella  sua  abiettazione,  e  nella  sua  degenerazione 
la  Chiesa:  che  anzi,  quanto  più  quella  e  questa  avanzavano, 
tanto  più,  in  quegli  ordini  specialmente  che  parteciparono  con 
maggiore  ardenza  al  rinnovamento  cattolico  dei  secoli  deci- 
mosecondo e  decimoterzo,  andavano  crescendo  gli  spiriti  del- 
l'opposizione: la  quale  negli  scrittori  ascetici  del  trecento  e 
del  quattrocento  va  sempre  più  maturando  un  cotal  concetto 
di  riformazione,  tanto  più  chiaramente  accennato  quanto  quegli 
scrittori  sentivano  la  necessità  di  raffermare,  purificando  la 
Chiesa,  il  sentimento  cristiano  e  il  dogma  cattolico  contro  la 
civiltà  profana  che  d' ogni  parte  dilagava  e  premeva.  E  il  mo- 
vimento di  opposizione  cristiana  mise  capo  in  Girolamo  Sa- 
vonarola. Nel  quale,  posto  per  un'incidenza   che   non   è   tutta 


268  CRITICA   E,  ARTE. 

caso,  tra  il  chiudere  del  medio  evo  e  l'aprirsi  della  modernità, 
quasi  a  raccogliere  e  benedire  gli  ultimi  aneliti  della  libertà 
popolana  già  sorta  nel  nome  del  cristianesimo  e  a  mandare 
l'ultima  vampa  di  fede  verso  i  tempi  nuovi,  voi  vedete  con- 
vergere le  aspirazioni  più  pure,  voi  vedete  rinascere  le  figure 
più  ardite  del  monachismo  democratico.  In  lui  lo  sdegno  su  la 
corruzione  della  chiesa  che  traeva  alla  solitudine  i  contem- 
planti, in  lui  r  amore  alle  plebi  fraterne  che  richiamava  su  le 
piazze  e  tra  le  armi  dei  cittadini  contendenti  ad  uccidersi  i 
frati  paceri,  in  lui  la  scienza  teologica  e  civile  di  Tommaso, 
in  lui  il  repubblicanismo  di  Arnaldo,  in  lui  finalmente  anche 
le  fantasie  e  le  fantasticherie  di  lacopone  da  Todi.  E  di  quel 
pensiero  italiano  che  intorno  alla  religione  andavasi  da  secoli 
svolgendo  nell'arte  nella  scienza  nella  politica,  di  quel  pen- 
siero che  è  lo  stesso  così  in  Arnaldo  repubblicano  all'antica 
come  in  Dante  ghibellino  e  nel  Petrarca  letterato,  cosi  in 
fra'  lacopone  maniaco  religioso  come  nel  Sacchetti  novelliere 
profano,  il  Savonarola  pronunziò  la  formola:  Rinnovamento 
della  Chiesa.  Era  troppo  tardi.  Quel  che  nella  mente  italiana 
del  Savonarola  era  avanzato  di  intendimento  civile  tra  le 
ebrietà  mistiche  del  chiostro,  ei'lo  depose  gloriosamente  nella 
instituzione  del  Consiglio  grande:  del  resto,  come  martire  re- 
ligioso, salva  la  reverenza  debita  sempre  a  cui  nobilita  il  ge- 
nere umano. attestando  co '1  sangue  suo  la  sua  fede,  come  no- 
vatore mistico,  egli  (perché  no '1  diremo?)  egli  è  misero.  Ri- 
vocare  il  medio  evo  su  la  fine  del  secolo  decimoquinto;  far  da 
profeta  alla  generazione  tra  cui  cresceva  il  Guicciardini;  ri- 
durre tutta  a  un  monastero  la  città  ove  il  Boccaccio  avea  no- 
vellato di  ser  Ciappelletto  e  dell'agnolo  Gabriele,  la  città  ove 
di  poco  avea  scritto  il  Pulci;  respingere  le  fantasie  dalla  natura, 
novamente  rivelatasi,  alla  visione,  le  menti  dalla  libertà  e 
dagli  strumenti  suoi,  novamente  conquistati,  alla  scolastica:  fu 
concetto,  quanto  superbo,  altrettanto  importuno  e  vano.  Il  Ri- 
nascimento sfolgorava  da  tutte  le  parti;  da  tutti  i  marmi 
scolpiti,  da  tutte  le  tele  dipinte,  da  tutti  i  libri  stampati  in 
Firenze  e  in  Italia,  irrompeva  la  ribellione  della  carne  contro 


CRITICA   E   ARTE.  269 

lo  spirito,  della  ragione  contro  il  misticismo;  ed  egli,  povero 
frate,  rizzando  suoi  roghi  innocenti  contro  l'arte  e  la  natura, 
parodiava  gli  argomenti  dì  discussione  di  Roma:  egli  ribelle, 
egli  scomunicato,  egli  in  nome  del  principio  d'autorità  desti- 
nato a  ben  altri  roghi.  E  non  sentiva  che  la  riforma  d'Italia 
era  il  rinascimento  pagano,  che  la  riforma  puramente  religiosa 
era  riservata  ad  altri  popoli  più  sinceramente  cristiani;  e  tra 
le  ridde  de'  suoi  piagnoni  non  vedeva,  povero  frate,  in  qualche 
canto  della  piazza  sorridere  pietosamente  il  pallido  viso  di 
Nicolò  Machiavelli! 

E  ora  veniamo  alle  mie  imitazioni.  11  signor 
Zendrini,  con  quel  modo  di  dire  che  dice  e  non 
dice;  accenna,  com'  io,  citando  gli  autori  i  quali 
conferirono  all'  idea  del  mio  Satana,  dimenticassi 
il  Baudelaire.  Potrei  rispondere  che  citai  anche 
troppi,  e  che  in  fine  in  fine  il  Satana  come  crea- 
zione lirica  non  la  riconosco  da  alcuno  :  potrei 
rispondere  che  nel  1863  io  non  conosceva  il  Bau- 
delaire. Ma  io  non  sono  né  tanto  umile  né  tanto  su- 
perbo da  volere  che  gli  avversari  mi  credano  su 
la  parola.  Carte  in  tavola.  Ecco  delle  Litanies  de 
Satan  di  Carlo  Baudelaire. 

O  toi,  le  plus  savant  et  le  plus  beau  des  Anges, 
Dieu  trahi  par  le  sort  et  prive  de  louanges, 

O  Satan,  prends  pitie  de  ma  longue  misere  I 

O  Prince  de  1'  exil,  à  qui  1'  on  a  fait  tort, 

Et  qui,  vaincu,  toujours  te  redresses  plus  fort, 

O  Satan,  prends  pitie  de  ma  longue  misere! 

Toi  qui  sais  tout,  grand  roi  des  choses  souterraines, 
Guérisseur  familier  des  angoisses  humaines, 

O  Satan,  prends  pitie  de  ma  longue  misere! 


270  CRITICA   E   ARTE. 

Toi  qui,  m6me  aux  lépreux,  aux  parias  maudits. 
Enseignes  par  1'  amour  le  goùt  du  Paradis, 

O  Satan,  prends  pitie  de  ma  longue  misere! 

O  toi  qui  de  la  Mort,  ta  vieille  et  forte  amante, 
Engendras  l'Espérance,  —  une  folle  charmante!  —, 

O  Satan,  prends  pitie  de  ma  longue  misere! 

Toi  qui  fais  au  proscri't  ce  regard  calme  et  haut 
Qui  damne  tout  un  peuple  autour  d'un  échafaud, 

O  Satan,  prends  pitie  de  ma  longue  misere! 

Toi  qui  sais  en  quels  coins  de  terres  envieuses 
Le  Dieu  jaloux  cacha  les  pierres  précieuses, 

O  Satan,  prends,  pitie  de  ma  longue  misere! 

Toi  dont  l'oeil  clair  connaìt  les  profonds  arsenaux 
Où  dort  enseveli  le  peuple  des  métaux, 

O  Satan,  prends  pitie  de  ma  longue  misere! 


E  legga  chi  vuole  nei  Fiori  del  male  il  resto 
di  queste  litam'e,  e  giudichi  quanto  abbiano  che 
fare  co  '1  mio  inno.  Ancora  :  il  signor  Zendrini  af- 
ferma che  il  "  mio  cavallo  sauro  „  (quello  sa- 
pete, dell'  Avanti!  avanti!,  che  ha  dato,  pare, 
qualche  calcio  anche  al  signor  Bernardino)  af- 
ferma, dunque,  che  quel  "  cavai  sauro  è  un  ca- 
vallo da  sella  che  mi  ha  noleggiato  Vittor  Hugo  „. 
Carte  in  tavola,  per  la  seconda  volta.  Ecco  Le 
Cheval  dell'  Hugo  : 

Je  r  avais  salsi  par  la  bride; 
Je  tirais,  les  poings  dans  les  noeuds, 
Ayant  dans  les  sourcils  la  ride 
De  cet  efifort  vertigineux. 


CRITICA   E   ARTE.  27 1 

C  était  le  grand  cheval  de  gioire, 
Né  de  la  mer  comme  Astarté, 
A  qui  r  aurore  donne  à  boire 
Dans  les  urncs  de  la  clarté; 

L'  alérion  aux  bonds  sublimes, 

Qui  se  crfbre,  immense,  indompté, 

Plein  du  hennissement  des  cimes, 

Dans  la  bleue  immortalile. 

\ 
Tout  genie,  élevant  sa  coupé, 

Dressant  sa  torche,  au  fond  des  cieux. 

Superbe,  a  passe  sur  la  croupe 

De  ce  monstre  mystérieux. 

Les  poetes  et  les  prophètes, 
O  terre,  tu  les  reconnais 
Aux  brùlures  que  leur  ont  faites 
Les  étoiles  de  son  harnais. 

Il  soufflé  l'ode,  l'epopèe. 
Le  drame,  les  puissants  effrois. 
Hors  des  fourreaùx  les  coups  d'épée, 
Les  forfaits  hors  du  coeur  des  rois 

Pére  de  la  source  sereine, 
Il  fait  du  rocher  ténébreux, 
Jaillir  pourles  Grecs  Hippocrène 
Et  Raphidim  pour  les  Hébreux. 

Il  traverse  l'Apocalypse; 
Pale,  il  a  la  mort  sur  son  dos. 
Sa  grande  aile  brumeuse  éclipse 
La  lune  devant  Ténédos. 

Le  cri  d'Amos,  1' humeur  d'Achille 
Gonfie  sa  narine  et  lui  sied; 
La  mesure  du  vers  d'Eschyle, 
C  est  le  battement  de  son  pied. 


272  CRITICA   E   ARTE. 

Sur  le  fruit  mort  il  penche  1'  arbre, 
Les  mères  sur  l'enfant  tombe; 
Lugubre,  il  fait  Rachel  de  marbré, 
Il  fait  de  Pierre  Niobé.       ecc.  ecc. 

Tali  i  mìei  plagi. 

Nelle  note  alle  Nuove  Poesie  io  scrissi: 

Séguito  a  notare  tutte  le  imagini  e  i  pensieri  e  i  movi- 
menti lirici  che  debbo  a  poeti  moderni  stranieri.  Che  se  v'ha 
per  ciò  chi  mi  tacci  di  minore  originalità,  io  sono  ben  lieto 
di  poter  conferire  all'erudizione  sua  con  queste  mie  noterelle. 
Vi  sono  poeti  che  debbono  agli  stranieri  od  ai  nostri  men  re- 
centi o  men  letti  invenzioni  intiere,  intiere  composizioni,  in- 
tieri sfoghi  di  sentimenti  e  di  affetti  originalissimi;  v' è  chi 
traduce  quasi  a  lettera,  e  non  bene,  poesie  intiere  straniere  e 
le  mette  tra  le  sue:  ma  quei  signori  non  sono  né  tribuni  né 
petrolieri.  «  Siamo  onesti  »,  disse  un  giorno  il  barone  Ricasoli: 
e  fu  peggio  di  prima.  E  io,  dopo  ciò,  non  ho  né  l'autorità  né  il 
coraggio  di  dir  lo  stesso  in  letteratura,  quantunque  1'  ammoni- 
mento non  sarebbe  per  avventura  inopportuno. 

Scrissi  cosi;  e  ora  proverò  che  non  scrìssi  in 
vano.  Apro  le  Prime  Poesie  del  signor  Zen- 
drini  (Padova,  Giammartini;  187 1,  lire  4,  50.  Ve- 
diamo almeno  di  fargli  esitare  qualche  copia  del 
volume),  e  a  pagina  265  leggo: 

DOMANI   È   FESTA 

Tutta  è  raccolta  nella  stanzetta 
La  famiglinola.  Più  che  mai  lesta 
La  madre  il  tutto  dispone  e  assetta: 
Domani  è  festa. 

La  nonna  fila,  biascia  preghiere 
L'egra  bisava;  traverso  i  vetri 
Guarda  il  fanciullo  le  nubi  nere 

Che  sembran  spetri. 


CRITICA   E   ARTE.  273 

Livido  lampo  talor  le  avviva  ; 
Strepita  il  tuono,  fischiano  i  venti; 
Mista  a  gragnuola  la  pioggia  estiva 
Cade  a  torrenti. 

IL  FANCIULLO 

Grandine  e  vento!  che  diavoleto! 
Breve  è  la  rabbia  della  tempesta. 
Domani  il  vento  farò  star  cheto: 
Domani  è  festa. 

Domani,  o  mamma,  non  si  va  a  scuola, 
Si  va  raminghi  per  la  foresta; 
Doman  si  gioca  sulla  piazzuola: 

Domani  è  festa. 

LA   MADRE 

Oggi  tempesta,  domani  gioia, 
Lieto  banchetto,  splendida  vesta! 
Domani,  o  cari,  bando  alla  noia: 
Domani  è  festa. 

Lampi  e  saette!  La  vita  è  un  lampo. 
La  morte,  il  fulmine,  segue  improvviso  ! 
Tra  r  uno  e  l'altro  però  c'è  campo 
Per  un  sorriso  ! 

LA  XON'.VA 

La  nonna  fila,  fa  la  calzetta, 
La  parca  cena  la  nonna  appresta  : 
Povera  nonna!  più  non  l'alletta 
Il  df  di  festa. 

Nel  mio  buon  tempo  godevo  anch'  io 
Ornarmi  il  crine  de' fior  pili  belli. 
Ma  la  vecchiezza  ci  toglie  il  brio 
Come  i  capelli! 
Carduccl  4.  18 


274-  CRITICA   E   ARTE. 

LA   BISAVA 

Nel  mio  cantuccio  qui  accovacciata) 
China  la  informe  tremola  testa, 
Penso  alla  fossa  che  m'han  scavata, 
Non  alla  festa. 

E  forse  è  questo  l'ultimo  giorno, 
Forse  è  suonata  già  l'ora  mia. 
La  morte  udite  ruggirmi  attorno? 
Gesumaria!  — 

E  ratto  il  fulmine  segue  il  baleno. 
Di  quattro  vite  non  una  resta. 
Là  da  ponente  rompe  il  sereno: 
Domani  è  festa. 

Bellina^  non  è  vero?  Un  po' bolsa,  un  po' gialla, 
un  po' sbilenca,  un  po'sucida;  ma  bellina.  Se  non 
che,  apro  anche  un  altro  libro,  Hausbuch  aus 
deutschen  Dichtern  seit  Claudius,  una 
antologia  critica  fatta  dallo  Storm  e  stampata  in 
Hamburg  nel  1870;  e  tra  altre  poesie  di  Gustavo- 
Schwab  vi  leggo,  a  pagina  284,  questa  che 
traduco  : 

IL   TEMPORALE 

Bisavola,  nonna,  madre  e  bambino  stanno  insieme  nella 
cupa  stanza.  Il  bambino  si  trastulla,  la  mamma  si  fa  bella» 
r  ava  fila,  1'  avola  tutta  curva  siede  dietro  la  stufa  ne'  piumacci. 
Che  aria  affannosa  che  fa! 

Il  bambino  dice  —  Dimani  è  festa.  Come  vo' ruzzare  alle 
siepi  verdi!  come  vo' saltare  per  il  piano  e  pe' colli!  quanti 
bei  fiori  vo'  cogliere!  Voglio  tanto  bene  al  prato!  —  Udite  come 
brontola  il  tuono? 

La  mamma  dice  —  Dimani  è  festa;  e  farem  tutti  un'al- 
legria di  convito.  Anch'io  mi  allestisco  l'abito  festivo.  La  vita 


CRITICA    E    ARTE.  275 

ha  pur  de'  piaceri  dopo  le  noie,  e  allora  il  sole  rifulge  come 
oro.  —  Udite  come  brontola  il  tuono? 

La  nonna  dice  —  Dimani  è  festa.  Per  la  nonna  non  v'  b 
più  giorni  di  festa.  Ella  cucina  il  desinare,  ella  fila  per  fare  i 
vestiti.  La  vita  è  tutta  pensieri  e  molta  fatica:  buon  per  quello 
che  fa  il  suo  dovere!  —  Udite  come  brontola  il  tuono! 

La  bisavola  dice  —  Dimani  è  festa.  Io  avrei  tanto  caro 
di  morire  dimani!  Io  non  posso  più  né  cantar  né  scherzare,  non 
posso  badare  a  nulla  né  lavorare:  che  cosa  ci  fo  io  ancora  nel 
mondo?  —  Vedete  come  il  fulmine  cade  là? 

Essi  non  odono,  essi  non  vedono.  Fiammeggia  in  vivo  chia- 
rore la  stanza.  Bisavola,  nonna,  madre  e  bambino  sono. tutti 
insieme  tócchi  dalla  saetta:  un  colpo  finisce  quattro  vite.  E  di- 
mani è  festa. 

Onesto  Bernardino!  Non  piglia^  no,  i  cavalli  a 
nolO;  lui  !  Ma  mi  fa  venire  a  mente  un  rivenditore 
di  cappelli  vecchi,  unti  e  ammaccati,  famoso  a 
Firenze,  quando  io  era  ragazzo,  co  '1  nome  di 
Rubaciuchi. 

Ciò  non  per  tanto  Fanfiilla  preconizzava  il 
polpettone  zendriniano,  come  una  critica  supe- 
riore, un  po'  arguta  e  frizzante  per  me,  ma  ad  ogni 
modo  leale  e  imparziale. 

XIV. 

•  E  queste  critiche  "  oneste  „  e  "  cortesi  „  io 
doveva  poi,  se  avessi  dato  retta  ai  consigli  del 
signor  Guerzoni,  "  accogliere  „  come  "  amiche  „ 
ed  "  ascoltarle  „  e  "  disputar  con  loro  „.  Ascol- 
tate in  fatti  le  ho:  ma  del  disputare,  se  il  signor 
Guerzoni    me    lo    concede,    non  ne  faremo  nulla. 


276  CRITICA  E   ARTE. 

No  :  quand*  anche  i  signori  Guerzoni  e  Zendrini 
fossero  stati^  se  possibile,  più  onesti  e  cortesi  di 
quello  che  furono,  io  non  avrei  disputato  con  loro: 
né  con  loro  né  con  altri. 

Non  per  superbia:  vero  è  che  in  Italia  chiun- 
que si  tiene  per  un  pezzo  grosso,  tiene  anche 
per  indegno  di  sé  e  troppo  a  sé  inferiore  il  ri- 
spondere alle  critiche  che  gli  vengano  fatte:  ma 
io  non  sono  né  un  pezzo  grosso  né  un  pezzo  duro, 
sono  un  uomo.  Non  per  un  fino  accorgimento: 
se  bene  è  anche  più  vero  che  uno  scrittore,  e 
massime  un  verseggiatore,  il  quale  risponda  a*  suoi 
critici  diventa  ridicolo  e  si  aliena  gli  spiriti  dei 
lettori  e  del  pubblico,  forse  per  quella  gran  ra- 
gione d'  umanità  per  la  quale,  se  uno  è  morsicato 
da  un  cane  e  gli  dà  un  calcio,  novantanove  per 
cento  pigliano  le  parti  del  cane.  E  né  meno  per 
quella  miglior  ragione,  che  non  giova  distrarsi 
dall'opera  ed  è  meglio  fare  che  discorrere:  io 
non  ho  poi  quella  gran  vocazione  e  voglia  di  fare 
che  qualcuno  suppone,  e  amo  distrarmi.  Dunque 
perché  né  disputo  né  disputerei?  Perché,  inutile. 

Vi  sono  diverse  età  della  poesia  e  diversi 
tempi  per  i  poeti  o  pe'  rimatori.  V  è  una  prima 
età,  nella  quale  tutto  il  popolo  fa  la  sua  poesia, 
tutto  il  popolo  la  canta  :  V  epopea  è  l' aureola  della 
nazione,  è  come  lo  splendore  che  cinge  il  castello 
de' gloriosi  nel  limbo  di  Dante, 

un  foco 
Ch' emisperio  di  tenebre  vincia: 


CRITICA    E    ARTE.  277 

meglio  ancora^  è  la  fiamma  e  la  luce  che  esce 
dalla  conflagrazione  e  dalla  incandescenza  dei 
vari  elementi  del  popolo  che  si  fondono  in  na- 
zione. Quella  è  V  età  barbara,  V  età  eroica,  V  età 
divina  :  allora  la  critica  non  e'  è,  o  e'  è  sotto  la 
forma  di  Tersite,  e  si  bastona.  Altra  età  corre, 
quando  un  popolo  uscendo  da  uno  stato  di  bar- 
barie non  eroica  ma  prodotta  e  provenuta  dallo 
scadimento  e  dalla  corruttela  vuol  rinnovarsi  e 
restituirsi:  allora  la  poesia  è  una  forza  e  un  fat- 
tore insieme  di  civiltà;  e  il  poeta  è  anche  critico, 
e  pone  egli  stesso  le  ragioni  e  la  teorica  del- 
l' arte  sua.  E  V  età  politica  ;  e  Dante  chiama  savi 
ì  poeti,  e  scrive  la  Commedia  e  la  Vulgare 
Eloquenza,  e  commenta  egli  le  sue  canzoni  nella 
Vita  nuova  e  nel  Convivio.  E  vi  sono  età 
splendide,  che  la  poesia  non  è  più  né  produzione 
naturale  e  spontanea  del  popolo  né  elemento  e 
fattore  necessario  d' incivilimento,  ma  è  un  gran 
bisogno  estetico  di  tutta  la  società.  Sono  le  età 
artistiche  per  eccellenza,  nelle  quali  come  la  pit- 
tura la  scultura  e  V  architettura  si  considerano 
quasi  parti  integrali  di  un  tutto  armonico  di  guisa 
che  il  quadro  e  l' affresco,  la  statua  e  il  basso 
rilievo  sono  fatti  per  V  edifizio  e  V  edifizio  è  fatto 
per  quelli,  cosi  la  poesia  e  la  letteratura  entrano 
come  necessari  ornamenti  nello  stato,  che  è  ar- 
chitettura della  politica  e  della  religione.  Sono 
quelle  in  somma  le  età  di  Pericle,  di  Leone  x 
(se    vogliamo    denominare   da    un    breve    regno 


278  CRITICA    E    ARTE. 

tutto  un  secolo  di  meravigliosa  cultura  italiana), 
di  Luigi  XIV,  nelle  quali  V  ideale  della  poesia 
è  in  esso  lo  stato  e  la  critica  in  tutta  la  nazione  : 
allora  Pietro  Corneille  difende  il  Cid  e  T  Acca- 
demia lo  giudica,  allora  le  controversie  su  la  Ge- 
rusalemme liberata  sono  quasi  un  affar  di 
stato  per  tutta  l' Italia.  E  vi  sono  in  fine  altre  età 
meno  splendide,  nelle  quali,  essendo  una  nazione 
su'l  trasmutarsi  a  nuove  condizioni  politiche,  i 
poeti,  i  quali  non  dirò  con  una  frase  antica  che 
sieno  vati  veramente,  ma  che  hanno  da  natura, 
come  certe  bestie,  l' irrequietudine  nervosa  in- 
nanzi al  terremoto,  cominciano  trasmutando  essi 
certe  forme  dell'arte  che  han  finito  di  svolgersi. 
Sono  le  età  critiche;  e  allora  i  poeti  combattono 
intorno  all'  opera  loro  con  le  armi  di  offesa  e  di 
difesa  ;  e  1'  Alfieri  scrive  la  lettera  al  Calsabigi,  e 
il  Manzoni  le  lettere  su  le  unità  drammatiche  e 
su  '1  romanticismo,  e  1'  Hugo  la  prefazione  al 
Cromwel.  Vi  sono  finalmente  altre  età,  nelle  quali 
queir  ordine  sociale  che  ha  fatto  la  rivoluzione, 
a  rifarsi  dei  digiuni  d' una  volta  e  delle  conti- 
nenze eroiche  della  lotta,  irrompe  nei  godimenti 
■della  vittoria,  del  potere,  della  vita;  e  inebriato 
-di  sensualismo  slabbra  le  forme  dell'  arte,  e  ne 
versa  i  liquori  e  i  profumi  per  la  strada,  e  i  mo- 
nelli ne  bevono  facendo  giumella  delle  palme,  e 
ne  lambiscono  i  cani.  Allora  la  poesia  se  ne  va, 
.se  già  non  se  n'  è  andata. 

intendiamoci    bene.  Non  che  la  poesia  muoia. 


CRITICA    E    ARTE.  279 

Avete  letto,  lettori  miei,  il  Don  Chisciotte? 
Certo  che  si:  se  no,  gittate  sùbito  questo  mio 
•libro,  e  andate  e  leggete  quello.  L'  osserva- 
zione che  sto  per  esporvi  credo  sia  del  Heine, 
ma  non  so  più  dove,  e  ve  la  rifaccio  a  modo 
mio.  Quante  volte  non  si  adopera  il  buon  Sancio 
Pancia  a  far  persuaso  V  eroe,  che  il  suo  glo- 
rioso scudo  d'  argento  è  un  bacino  di  barbiere, 
che  la  sua  graziosa  principessa  è  una  Caterinetta 
la  quale  dà  beccare  ai  polli  in  un  cortile,  che 
non  occorre  metter  la  lancia  in  resta  contro  i 
muhni  a  vento  i  quali  non  sono  affatto  giganti  ! 
Con  quanta  onesta  pietà  non  lo  ammonisce  su  la 
vanità  e  i  pericoli  delle  sue  imprese,  che  vanno 
dì  consueto  a  finire  in  una  fiocca  di  bastonate! 
S' impunta  anche  tal  volta  a  non  voler  più  segui- 
tarlo: ma  tant'  è:  il  Pancia  è  tratto  da  forza  ignota 
a  trottare  su  '1  positivo  asino  suo  dietro  1'  astratto 
rossinante  del  magro  cavaliere.  Cosi  succede  del 
mondo  e  della  poesia.  No,  ciò  che  il  volgo  teme 
odia  e  deride  sotto  nome  di  poesia  non  muore. 
I  bottegai  potranno,  un  di  questi  prossimi  giorni, 
bandire  Omero  e  Dante  dalle  scuole,  il  Leopardi 
r  Alfieri  e  lo  Schiller  dalle  biblioteche  ;  potranno 
decretare  che  il  solo  stile  permesso  dallo  stato  è 
quello  dei  dispacci  telegrafici,  che  la  sola  arte 
dallo  stato  protetta  è  l' operetta  comica  dell'  Of- 
fenbach,  e  .poi  serafici  di  salute  e  della  conscienza 
di  aver  salvata  la  patria  andarsene  a  cena  con 
due    ballerine    per    uno.    Ma    che?    domani   la  fi- 


28o  CRITICA   E   ARTE. 

gliuola  del  bottegaio  rifarà  ella  a  conto  suo 
r  Amore  e  Morte  del  Leopardi  ingoiando  del- 
l' arsenico  o  del  fosforo  di  fiammiferi  sciolto  nel- 
r  acqua;  e  il  genitore,  salvatala,  dovrà  darle  il 
marito  che  ella  vuole  e  pagare  la  dote.  E,  sono 
pochi  anni,  quanti  figliuoli  di  bottegai  scappavan 
di  casa  alle  chiamate  del  General  Garibaldi,  e 
corsero  incontro  alle  palle,  non  si  sa  perché, 
quando  la  bottega  andava  bene  e  lo  statuto  fun- 
zionava non  mica  male;  certo  per  quel  che  so- 
gnavano r  Alfieri  e  lo  Schiller,  per  la  libertà, 
per  r  onore  della  patria,  per  la  rivoluzione;  e  i 
poveri  padri  doverono  poi  pagare  i  rotti  e  metter 
fuori  le  bandiere. 

La  poesia  dunque  non  muore;  1'  arte  della  poe- 
sia muore,  1'  arte  della  poesia  nel  suo  antico  e 
puro  significato  di  elaborazione  estetica,  metrica, 
disinteressata.  Di  che  io  non  faccio,  né  potrei 
senza  ridicolo,  accusa  o  rimprovero  (tanto  più 
che  a  suo  tempo  so  di  certo  che  rinascerà):  ma 
dico  che  la  borghesia  dominante,  educata  com*è, 
con  i  suoi  intendimenti  e  instituti  di  vita,  non  ha 
più,  o  perde  ogni  giorno  più,  le  abitudini  le  pre- 
parazioni e  gli  ozi  che  si  richiedono  a  capire  e 
amare  la  poesia  vera.  La  borghesia  moderna 
venne  a  dominare,  che  non  aveva  eredità  arti- 
stica, che  non  aveva  ideale  altro  che  quello  del 
Rousseau:  con  la  rivoluzione  francese  di  fatti  in- 
cominciano il  sentimentalismo  fantastico  e  decla- 
matorio   e  la  prosa  poetica.    Prima,  la  Stael  e  lo 


CRITICA   E  ARTE.  28 1 

Chateaubriand  senza  né  il  dono  né  1*  amore  del 
verso  ammaliarono  la  generazione  del  Consolato 
e  dell'  Impero  co  '1  romanzo  lirico  ed  epico.  Poi,  il 
celebre  recitatore  tragico,  il  Talma,  andava  racco- 
mandando ai  poeti:  —  Non  più  versi  belli  — .  Nella 
ristaurazione,  contro  il  rinascente  fervore  della 
poesia  metrica,  il  Beyle  conchiudeva  —  Non  versi 
del  tutto  — ;  ed  egli,  prima  di  porsi  a  scrivere,  co- 
stumava, o  almeno  lo  diceva  e  consigliavalo  agli 
altri,  di  leggere  a  modello  di  stile  parecchi  arti- 
coli del  Codice  civile;  il  che  non  lo  salvò  dallo 
scrivere  falso  e  affettato.  Costui  era  impotente 
alla  creazione  d'arte;  e  i  suoi  romanzi  lo  mo- 
strano, nominatamente  Le  rouge  et  lenoir, 
titolo  che  è  la  difinizione  più  esatta  del  modo  suo 
di  rappresentare.  Ma  potente  ingegno  d' inventore 
e  di  osservatore  ebbe  il  Balzac,  e  non  sapea  farsi 
ragione  che  si  trovasse  del  piacere  a  fare  de'  versi 
e  che  Teofilo  Gautier  ne  componesse.  —  Ma  co- 
testo non  è  della  copia  per  la  stampa  —  diceva, 
facendo  spallucce,  1'  epicureo  e  industriale  e  in- 
gegnosissimo descrittore  e  rappresentatore  della 
borghesìa,  quando  vedeva  il  suo  amico  empire  di 
piccole  e  ineguali  righe  la  breve  pagina.  Egli  fu 
r  autore  e  il  padre  di  quel  realismo  in  prosa  del 
secondo  impero,  che  oggi  trionfa  e  ha  finito  di 
sotterrare  la  poesia  come  arte.  Questi  fecondi  e 
copiosi  scrittori,  che  sanno  con  lunghi  romanzi 
e  con  drammi  non  brevi  tener  sempre  eccitata  e 
tormentata  la  lussuria    estetica  di    milioni    di  let- 


282  CRITICA    E   ARTE. 

tori  e  leggìtrici;  potrebbero  ragionevolmente  dire 
al  Goethe,  se  egli  escisse  oggi  fuori  coir  Er- 
manno e  Dorotea  —  Ma  cotesto  non  è  un  li- 
bro — .  Noi  poi;  meschini  rimatori  lirici;  tra  questa 
letteratura  e  in  questa  società,  dobbiamo  far  la 
figura  di  persone,  che  in  un  passeggio  del  giorno 
di  festa  affollato  di  carrozze  e  cavalcate  trascor- 
renti con  tutte  le  eleganze  e  li  agi  del  lusso,  se 
ne  vadano  serie  serie  per  la  loro  via  camminando 
a  galletto  zoppo. 

Cosi  è,  cari  confratelli  in  rimeria:  noi  oggi- 
giorno   siamo Non   vi   dirò    che   cosa    siamo, 

perché  voi  ve  ne  avreste  a  male.  Né  giova  op- 
porre che  gli  esempi  da  me  recati  sono  di  Fran- 
cia: prima  di  tutto,  perché  a  punto. in  Francia  la 
borghesia  ha  avuto  campo  di  svolgersi  in  tutti  i 
suoi  intendimenti  e  in  tutte  le  sue  manifestazioni 
si  politiche  come  filosofiche,  e  quindi  quel  che  è 
avvenuto  là  avviene,  o  comincia  ad  avvenire  e 
finirà  di  avvenire,  anche  qui:  poi,  perché '( tanto 
è  vero  ciò  che  ho  detto)  la  odierna  letteratura 
italiana  non  è  altro  che  riproduzione  e  copia  della 
letteratura  francese;  ci  sarà  qua  e  là  qualche 
spruzzaglia  di  tedesco,  ma  il  fondo  è  francese, 
ma  sopra  tutto  quel  che  nella  letteratura  italiana 
odierna  manca  è  l' italiano. 

La  poesia  dunque  (ripigliando  il  discorso  prin- 
cipale) oggigiorno  non  è  più  né  la  produzione 
immediata  o  mediata  del  popolo,  né  un  elemento 
di  civiltà  per  la  nazione,  né  un    bisogno    estetico 


CRITICA    E    ARTE.  283 

della  società,  né  instrumento  di  rivoluzione  o 
mezzo  di  rinnovamento  :  ella,  salvo  qualche  volta 
o  più  volte  il  dramma  e  il  romanzo,  se  pure  il 
romanzo  può  assegnarsi  alla  poesia,  ella  è  tutta 
individuale.  Quanto  all'  Italia,  io  dirò  cosa  che 
muterà  in  istrici  tutti  i  nostri  dolci  montoni  di 
Arcadia,  montoni,  del  resto,  rispettabilissimi:  il 
popolo  italiano  è.  stato  sempre,  nel  significato  ar- 
tistico e  non  sensuale  della  parola,  poco  poetico: 
oggi  poi  non  v'  è  più  corrente  alcuna  d' intelli- 
genza tra  i  poeti  e  lui.  Quando  tutta  la  nazione 
aveva  bisogno  di  poesia,  ed  ella  stessa  aiutava 
a  farla,  allora  un  criterio  generale  dell'  arte  poe- 
tica v'  era,  e  più  d'  un  giudice  poteva  sorgere  ad 
applicarlo.  Oggi  no.  Nessuno  oggi  ha  il  diritto 
d'intimare  al  poeta:  Voi  dovete  fare  cosi,  e  non 
cosi.  E  con  quale  autorità,  su  quali  massime, 
con  qual  consentimento  dell'  universale  o  dei  più, 
in  nome  di  chi,  o  di  che,  si  farebbe  tale  intima- 
zione? Il  poeta  oggi  ha  in  sé  stesso  la.  ispirazione 
la  norma  il  criterio  dell'  arte  sua  :  in  parole  po- 
vere, egli  può  fare  quel  che  vuole  e  come  vuole; 
pur  che  n'  abbia,  ci  s' intende,  la  forza,  e  sappia 
eleggere  la  materia  dell'  arte  e  maneggiare  gì'  in- 
strumenti. Giudicarlo,  nei  rapporti  o  nei  contatti 
d' idee  e  di  sentimenti  che  egli  abbia  coli'  età  sua, 
può  solamente,  a  suo  tempo,  e  s'ei  lo  meriti,  lo 
storico:  avvertirne  i  difetti  in  meno  o  in  più,  e 
correggerlo,  ov'  ei  falli  o  sia  men  forte  e  ine- 
guale neir  opera,  non  può  se  non  chi  ha  1'  uso  e  i 


284  CRITICA   E   ARTE. 

segreti  del  mestiere:  accoglierlo  o  respingerlo,  a 
smanacciate  o  a  fischi  e  pedate,  possono  tutti: 
spiegarlo,  dovrebbero  i  critici:  mostrargli  la  via 
e  imporgli  —  Andate  per  questa  — ,  non  può  nes- 
suno. Unica  arte  che  rimanga  popolare  veramente 
e  sia  negli  amori  di  tutti  (badiamo,  che  oggi- 
giorno tutti  vuol  dire  una  o  due  parti:  non  mai 
come  oggigiorno  fu  cosi  poco  vero  che  una  parte 
non  è  il  tutto  )  è  la  musica  :  per  la  musica  v'  è 
sempre  un  pubblico,  che,  se  anche  non  la  in- 
tende, la  festeggia,  si  accalora  per  lei,  la  paga 
magnificamente,  un  pubbHco  che  ha  bisogno  di 
averne  ogni  giorno  e  di  nuova:  per  la  musica 
la  richiesta  cresce  tuttavia,  e  però  ella  può  avere 
apprezzatori  e  giudici  anche  nell'  universale  :  con 
tutto  ciò  fino  i  maestri  di  musica  cominciano  a 
mormorare  non  so  che  dei  giudizi  del  pubblico. 
Figuratevi  un  artefice  di  versi,  un  artefice  cioè 
deir  arte  meno  popolare  e  più  solitaria  che 
oggi  sia,  di  un'  arte  o  meglio  d' una  sciopera- 
taggine per  la  quale  ogni  persona  che  abbia 
un  po'  di  stima  di  sé  è  strettamente  obbligata 
ad  avere  almeno  un  po'  di  diffidenza  e  di  fred- 
dezza; figuratevi,  dico,  se  un  artefice  di  versi, 
a  punto  per  tutto  cotesto,  può  sottomettersi  a 
ricevere  lezione,  in  nome  di  certe  astrazioni 
che  mutano  di  cervello  a  cervello,  dal  primo- 
soggetto  che  fonderà  i  principìi  della  sua  auto- 
rità di  giudice  nel  non  saper  egli  far  versi  o  nel 
farli  male! 


CRITICA   E   ARTE.  285 

L'  Alfieri  a'  suoi  tempi  cantava  : 

Ben  può  sentenza  il  volgo  dar  su  i  vuoti 

ArmonYosi  incettator  d'  oblio, 

Di  baie  pregni  e  al  vero  Apollo  ignoti: 

Ma  prezzar  quelli  che  il  furor  natio 
Sforza  a  dir  carmi  a  verità  devoti 
Non  r  osi,  no,  chi  non  è  vate  o  iddio. 

Io  un  po'  più  modesto  dell'  Alfieri^  forse  sola- 
mente perché  meno  forte,  scrissi  or  già  sono 
quattr'  anni  ; 

La  poesia  oggimai  è  cosa  affatto  inutile:  che  se  anche  man- 
casse del  tutto,  verun  minimo  congegno  della  macchina  sociale 
ne  andrebbe  men  bene:  il  perché,  penso  ancora,  il  poeta  non 
dee  tenersi  obbligato  di  obbedire  a  certe,  come  si  direbbe, 
esigenze  del  tempo.  Che  se  la  cetera  dell'anima  sua,  anzi  che 
agitarsi  sotto  1'  ala  della  Psiche  fugace  e  rispondere  agli  echi 
del  passato,  agli  aliti  dell'  avvenire,  al  rumore  solenne  dei  se- 
coli e  delle  generazioni  procedenti,  si  lascia  carezzare  all'au- 
retta  che  move  dai  ventagli  delle  signore  e  dai  pennacchi  dei 
soldati,  s'increspa  al  fruscio  della  toga  professorale  o  allo 
spiegazzare  della  gazzetta,  guai  al  poeta,  guai  al  poeta;  se 
pure  è  poeta!  Affacciarsi  alla  finestra  a  ogni  variare  di  tem- 
peratura per  vedere  qoali  fogge  vesta  il  gusto  della  maggio- 
ranza legale,  distrae,  raffredda,  incivettisce  l'anima.  Il  poeta 
esprima  sé  stesso  e  i  suoi  convincimenti  morali  ed  artistici 
più  sincero,  più  schietto,  più  risoluto  che  può:  il  resto  non  è 
afTar  suo. 

In  tali  concetti  mi  ha  sempre  più  raffermato 
quel  po'  di  buona  fortuna  che  è  toccata  a'  miei 
versi.  Buona  fortuna,  che,  confesso,  io  era  assai 
lontano  dall'  aspettarmi,  come  non  ho  cercato  mai 


286  CRITICA   E    ARTE. 

né  gli  articoli  de'  critici  né  gli  amori  del  pubblico  ; 
forse  perché  non  speravo  di  conseguirli.  Tanto 
ciò  è  vero,  che  incominciai  scrivendo  odi  pagane 
quando  era  tra  i  primi  elementi  dell'  educazione 
letteraria  lo  scherno  della  cosi  detta  mitologia: 
che  ai  Lcvia-Gravia  inscrissi  la  formola  sepol- 
crale romana  Sibi  suis  fecit  (cioè,  Questa  tomba 
fece  a  sé  ed  ai  suoi  versi),  e  non  li  misi  in  com- 
mercio :  che  in  fine,  non  potendo  dimettere  1'  abi- 
tudine di  verseggiare  (chi  ha  bevuto  una  volta  a 
certi  fiaschi,  gli  ci  bisogna  ribere,  pur  troppo),  mi 
presi  un  pseudonimo,  a  punto  per  non  pregiudi- 
care co'  versi  a  quel  po'  di  meno  male,  che,  a 
giudizio  di  alcuni,  potevo  fare  negli  studi  di  storia 
letteraria  e  di  filologia  italiana.  Per  ciò  tutto  cre- 
derei di  avere  qualche  diritto  a  esser  creduto.  So 
ne  persuadano  pure  amici  e  non  amici  :  scrivendo 
versi  né  mi  proposi  né  mi  propongo  quelle  cose 
inaudite,  intentate,  portentose,  che  molti  credono  : 
non  mi  propongo  né  meno  di  essere  originale: 
è  una  cosa  tanto  comune!  Io  mi  propongo  e  mi 
proposi  soltanto  di  esprimere,  per  uno  sgravio  di 
psicologia,  con  la  maggiore  sincerità  ed  efficacia 
possibile,  certe  fantasie  e  certe  passioni  che  mi 
si  movono  per  lo  spirito,  e  di  rappresentarle  pro- 
prio co  '1  colore  e  con  l' attitudine  del  momento  in 
cui  le  sento  e  le  veggo  io,  e  non  coi  colori  o 
con  le  attitudini  di  ieri  1'  altro  o  di  domani,  e  non 
coi  colori  e  le  attitudini  in  cui  altri  voglia  darmi 
a  credere  che  piacerà  meglio  agli  altri  di  vederle 


CRITICA   E    ARTE.  287 

o  in  cui  gli  altri  possano  vederne    o   sentirne    dì 
consimili. . 


XV. 


Tale  essendo  la  mia  poetica,  io  non  disputo. 
Anche  questo  sarà,  come  alcun  dice,  un'asineria. 
Vi  ricordate  1'  asino  a  cui  il  divino  Omero  com- 
para Aiace?  Assomigliare  a  un  asino  d'  Omero, 
è  una  tentazione  di  vanità:  "  E  come  quando  un 
asino  andando  a  un  campo  di  frumento  prevale 
tardo  e  ostinato  ai  fanciulli,  e  già  su  '1  suo  dosso 
sónosi  rotti  molti  bastoni,  e  pure  egli  entrato 
tónde  la  mèsse  profonda,  e  i  fanciulli  pur  lo  bat- 
tono con  i  bastoni  ;  ma  la  lor  forza  è  bambina,  e 
a  stento  ne  lo  cacciano  dopo  satollo;  cosi  allora 
i  troiani  magnanimi  e  i  da  lunge  chiamati  ausi- 
liari   „  eccetera  eccetera.  Iliade,  libro  xi,  v.  358 


NOVISSIMA  POLEMICA 


Carducci.  4.  19 


Dal    Preludio    di   Bolo     a, 

num.  10,  novembre  1878: 

in   Confessioni   e   battaglie   diG.  C,  serie  1», 

Roma,  Sommaruga,  1882. 


uando  il  popolo  d*Isdraele  (veggano 
i  critici  e  poeti  nazareni  che  noi 
pagani  conosciamo  anche  un  po'  il 
i>  Vecchio  Testamento)  confortato  da 
Nehemia  si  mise  ali'  opera  di  riedificare  le  mura 
di  Gerusalemme,  Sanballat  horonita  e  Tobia  ham- 
monita  servo  e  Ghezem  arabo  da  prima  se  ne 
facevano  beffe;  ma,  udendo  poi  e  vedendo  come 
r  opera  di  giorno  in  giorno  avanzasse,  si  congiu- 
rarono insieme  per  isturbarla  a  mano  armata. 
Allora  "  coloro  che  lavoravano  all' edificio  del 
muro,  e  coloro  che  portavano  i  pesi,  e  coloro  che 
gli  caricavano,  con  una  delle  mani  lavoravano 
air  opera  e  con  Y  altra  tenevano  un  dardo.  Quei 
che  edificavano  aveano  anche  ciascuno  la  sua 
spada  cinta  in  su'  fianchi;  e  cosi  edificavano. 
E  il  trombettiere  era  presso  di  me  .„.  — .  Questo 


292  NOVISSIMA   POLEMICA.  ; 

ordinò  e  questo  lasciò   scritto   Nehemia   (cap.  iv, 
vers.  17  e  18). 

Lo  stesso  dobbiamo  fare,  e  da  più  anni  fac- 
ciamo, noi,  come  ci  chiamano,  della  nuova  scuola 
o  della  scuola  dell'  avvenire,  noi  cioè  che  usciti 
dalla  servitù  di  Nebucdnesar,  per  grazia  di  Dio 
divenuto  bestia,  vogliamo  vivere,  pensare,  amare, 
adorare  e  scrivere  a  modo  nostro.  Ed  è  bello  a 
vedere  nella  Nova  Polemica  Lorenzo  Stec- 
chetti con  r  una  mano  tener  la  cazzuola,  e,  svelto 
ed  elegante  operaio,  murare  il  suo  tempio  o  la 
casa  ;  con  V  altra,  sbirciato  d'  un  rapido  girar  degli 
occhi  il  nemico,  tirare  la  spada,  e  d' un  colpo 
tagliare  o  il  naso  a  Ghezem  arabo  o  gli  orecchi 
a  Sanballat  horonita  che  gli  avea  molto  lunghi,  o 
pure  al  vile  Tobia  servo  che  fugge  tagliar  via 
una  braciola  da  quelle  posteriorità  carnose  ove  si 
appioppano  i  calci  ai  poltroni.  E  poi  serio  e  se- 
reno torna,  fischiando  e  cantando,  al  lavoro. 

"  I  critici  —  mi  scrive  un  amico,  che  è,  per- 
ché non  nominarlo?,  Giuseppe  Chiarini  —  i  cri- 
tici hanno  reso  anche  un  servizio  all'  arte  e  alla 
letteratura,  che  acquista,  a  loro  dispetto,  un  nuovo 
buon  libro.  „  È  proprio  vero.  E  se  quei  cenci  di 
sonetti  che  quel  povero  untorello  del  signor  pro- 
fessor Rizzi  gridando  al  morbo  ci  gittò  da  Mi- 
lano tutti  inzuppati  della  tabe  delle  sue  scrofole 
romantiche,  se  quelle  eiaculazioni  a  intervalli  più 
o  meno  corti,  chiamati  con  faccia  da  apostolo 
versi,  che  ci  fece  dalla  gentil  Firenze,  forse  dopo 


NOVISSIMA   POLEMICA.  293 

un'  indigestione  di  paolotteria  giustesca,  il  signor 
eomko  Luigi  Alberti,  furono  la  cagion  materiale 
deir  Annunciazione  e  del  Dies  irae,  allora  biso- 
gna confessare  che  i  veristi  non  hanno  poi  tutti 
i.  torti;  e  che  le  brutture  sono  a  tempo  belle  e 
buone,  non  foss'  altro,  a  far  da  concime  ai  fiori. 
E  benedetta  l'Arcadia,  la  quale,  o  classica  o  ro- 
mantica, o  manzoniana  o  guerrazziana,  o  monar- 
chica o  democratica  o  socialistica,  è  pur  sempre 
la' scuola  nazionale  italiana,  se,  cercando  tèmi  a 
cantilene  e  prose  accademiche  ad  ogni  costo  e 
trovatili  negli  oltraggi  alla  tradizione  e  alla  me- 
trica patria,  ha,  per  contrasto,  mosso  lo  Stecchetti 
a^  scrivere  il   Wiener  Blut  e  il   Congedo  ! 

Può  anche  darsi  che  le  Nova  Polemica  non 
abbiano  un  cosi  grande  e  intero  successo  quale 
ebbero  le  Postuma;  perché  tutti  oggimai  sanno 
che  lo  Stecchetti  è  vivo',  "e  questo  risuscitato  dice 
a  tutti  le  sue  ragioni  fuor  de'  denti  e  ride  su  '1 
muso  agli  sciocchi,  e  perché  in  fine  il  pubblico  è 
un  po'  come  certe  donne,  dopo  i  primi  favori  fa 
qualche  volta  il  ritroso.  Ma  delle  ultime  poesie 
dello  Stecchetti,  parecchie,  al  parer  mio,  superano, 
come  lavoro  d'  arte,  le  Postuma.  In  queste  e  in 
quelle,  dove  e  quando  sono  belle  veramente,  e'  è 
sempre  la  stessa  faciHtà  scioltezza  ed  eleganza 
di  imaginazione,  di  passaggi,  di  verseggiatura; 
ma  nelle  Polemica  apparisce  maggiore  la  va- 
rietà: elle  annunziano  e  attestano  con  più  fran- 
chezza una   facoltà  plastica   che   trionferà   anche 


294  NOVISSIMA    POLEMICA. 

più  potente,  quando  che  sia,  in  opere  serenamente 
oggettive.  E  dovrebbero  nei  lettori  onesti  e  di- 
screti, se  anche  freddi  o  non  bene  disposti,  ope- 
rare un  miglior  effetto,  dovrebbero  movere  e  de- 
terminare un'  inclinazione  tra  di  affetto  e  di  stima 
al  poeta.  "  In  quest'  ultimo  libro  — -  mi  scriveva 
il  Chiarini  —  anche  quello  che  e'  è  di  men  pudico 
non  offende,  perché  acquista  un  valore  più  arti- 
stico dalla  intenzione  satirica,  e  dietro  lo  Stec- 
chetti fa  capo  il  Guerrini,  il  Guerrini  uomo  e  cit- 
tadino „.  Vero:  ma  i  poeti  pudichi  e  i  critici 
virtuosi  non  se  ne  accorgeranno  di  certo,  fa- 
ranno vista  di  non  aver  capito  il  Prologo  e 
seguiteranno  a  dar  del  porco  al  Guerrini  e 
anche  a  me. 


IL 


Già:  daranno,  anzi  han  già  dato,  del  porco 
anche  a  me,  che  pure  ho  scritto  V  Ideale  e  le 
Primavere  elleniche.  Ma  ora  facciamo  un  po'  i 
conti.  E  cominciamo  dall'  intenderci,  se  è  pos- 
sibile. Prima  di  tutto,  metto  da  parte  quei  poveri 
seminaristi,  che,  scampati  pur  ora  al  convitto  del 
vostro  idealismo  debilitante,  o  signori,  sónosi 
messi  a  rimare  in  versi  non  sempre  giusti  il  bor- 
dello e  lo  stravizio.  E  una  reazione,  naturalissima 
del  resto,  di  ragazzi,  cotesta:  e  cotesti  ragazzi 
seguitano  ad  essere  idealisti,  idealisti  al  rovescio; 


NOVISSIMA   POLEMICA.  295 

e'  m*  hanno  un  po'  V  aria  del  Povero  diavolo  di 
Voltaire  : 

Hélas! 
Dans  mon  grenier,  entre  deux  sales  draps, 
Je  célébrais  les  faveurs  de  Glycère, 
De  qui  jamais  n'approcha  ma  misere; 
Ma  triste  voix  chantait  d'un  gosier  sec 
Le  vin  mousseux,  le  frontignan,  le  grec, 
Buvant  de  1'  eau  dans  un  vieux  pot  à  bière. 

Anche  a  me,  se  ci  bado,  questa  mostra  in 
versi,  che  dura  da  qualche  mese,  di  tante  alcove 
in  disordine  non  piace  punto,  perché  in  somma  è 
poco  pulita,  e  riesce,  come  tutte  le  mostre,  cor- 
dialmente noiosa.  Desidero  poi  che  il  Guerrini 
s' allarghi  fuor  del  genere  voluttuario,  come  ha 
già  mostrato  di  volere  e  sapere  e  poter  fare.  E  av- 
verto in  ultimo  che  non  consento  a  quello  che 
nel  prologo  alle  Nova  Polemica  il  Guerrini 
dice  troppo  generalmente  e  troppo  assolutamente 
delle  donne:  non  le  credo  cioè  tutte  e  tanto  sca- 
dute, a  ogni  modo  ho  ancora  un  debole  di  ca- 
valleria per  Antigone  e  per  Erminia.  Dopo  ciò: 
a  noi,  critici  virtuosi. 

Volete  ammettere,  si  o  no  —  e  già,  anche  se  non 
lo  ammettete,  è  vero,  —  che  Olindo  Guerrini  nei 
Postuma  volle  fare  un  po'  di  patologia  della  con- 
dizione morbosa  a  cui  è  venuto  nelle  ultime  gene- 
razioni l'amore?  Ora:  questa  idealizzazione  della 
mollezza  fannullona  solo  perché  è  fantastica,  questa 
trasformazione  del  sensualismo  a  passione  sublime^ 


296  NOVISSIMA   POLEMICA. 

questa  sapiente  educazione  del  verme  che  nello 
smammolamento  delle  aspirazioni  o  delle  fruizioni 
del  vago  e  dell'  infinito  ci  ha  da  forare  le  midolla 
deir  ossa,  questa  distillazione  acuta  e  sottile  della 
voluttà  per  tutti  i  filtri  della  riflessione  in  tutti  i 
più  reconditi  pori  dell'  essere,  questo  rispecchia- 
mento del  dolce  peccato  e  della  colpa  accarezzata 
ricercato  e  accomodato  per  tutti  i  prismi  dell'  arte 
e  in  tutte  le  faccettature  della  parola;  tutto  questo, 
dico,  chi  r  ha  fatto,  chi  1'  ha  prodotto,  chi  1'  ha 
voluto  ?  Tutto  questo,  domando,  non  fu  il  portato 
necessario  dell'  idealismo  sposato  al  sentimenta- 
lismo nel  romanticismo?  Perché  anatemizzate  i 
figliuoli  nel  nome  dei  loro  padri  idealisti  e  roman- 
tici? Badate  bene:  Lorenzo  Stecchetti,  il  fantastico 
Stecchetti,  non  Olindo  Guerrini,  è  molto  più  idea- 
lista che  voi  non  crediate,  che  voi.  non  vogliate, 
che  voi  non  fingiate  credere.  Alfredo  di  Musset, 
in  cui  la  monelleria  del  genio  è  smussata  da  un 
difetto  assoluto  di  mascolinità,  come  la  eleganza 
del  suo  dire  è  scemata  dalla  debolezza  del  rimare; 
Alfredo  di  Musset,  che  a  tutti  i  generosi  tumulti 
della  vita  sfugge  su  '1  seno  della  donna,  e,  se  gli 
vien  meno  la  donna,  si  raccomanda  a  Dio  e  fri- 
gna dietro  l' ideale  ;  Alfredo  di  Musset  ha  pro- 
creato legittimamente  Lorenzo  Stecchetti,  che 
muore  del  mal  sottile  a  ventidue  anni,  facendo  la 
preghiera  della  sera. 


NOVISSIMA    POLEMICA.  297 


III. 


Ma  le  oscenità  plastiche,  le  oscenità  volute^ 
meditate,  elaborate  da  Olindo  Guerrini,  dove  son 
elleno?  Che  direste  voi,  critici  virtuosi,  d'  uno 
che  tacciasse  d'  oscenità  il  più  amabile  forse  dei 
grandi  poeti  italiani,  il  poeta  di  Gerusalemme  e 
di  Cristo,  Torquato  Tasso?  Or  bene,  trovatemi 
voi  una  poesia  del  Guerrini  che  accenni  pur  da 
lontano  alla  lascivia  di  questo  madrigale  del 
Tasso. 

Nel  dolce  seno  de  la  bella  Glori 

Tirsi,  che  del  suo  fine 

Già  languendo  sentia  1'  ore  vicine. 

Tirsi,  levando  gli  occhi 

Ne' languidetti  rai  del  suo  desio, 

—  Anima,  —  disse  —  ornai  beata  mori  — . 

Quand'  ella  —  Cime,  ben  mio, 

Aspetta!  —  sospirò  dolce  anelando  — 

Ahi  crudo,  ir  dunque  a  morte 

Senza  m^e  pensi?  Io  teco,  e  non  me  'n  pento, 

Morir  promisi;  e  già  moro,  e  già  sento 

Le  mortali  mie  scorte  — . 

Perché  1'  una  e  1'  altr'  alma  insieme  scòcchi, 

Si  stringe  egli  soave,  e  sol  risponde 

Con  meste  voci  alle  voci  gioconde. 

Oh  fortunati,  1'  un  entro  spirando 

Nella  bocca  dell'altra!  una  dolce  ombra 

Di  morte  gli  occhi  lor  tremanti  adombra; 

E  si  sentian,  mancando  i  rotti  accenti, 

Agghiacciar  tra  le  labbra  i  baci  ardenti. 


298  NOVISSIMA   POLEMICA. 

E  di  Pietro  Corneille,  l'autore  deirHorace 
del  Cid  e  del  Polyeucte,  conoscete  voi  certi 
versi  intitolati  U  occasion  per  due  recouverte  ?  Ah 
no,  innocentini?  E  allora,  coraggio,  èccovene  qui 
due  strofe  :  godetevelo  l' idealizzatore  dell'  eroismo 
classico,  cristiano  e  cavalleresco: 

Dans  cette  agréable  siirprise 

Où  Cloris  n'avoit  pas  songé, 

Elle  avoit  assez  mal  rangé 

Son  cotillon  et  sa  chemise: 

Lisandro  aussi,  trop  curieux, 

Vit  lor  les  délices  des  dieux, 

La  peine  et  le  plaisir  des  hommes, 

Nostre  tombe  et  nostre  berceau, 

Ce  qui  nous  fait  ce  que  nous  sommes 

Et  ce  qui  nous  brusle  dans  1'  eau. 

Petit  thrésor  de  la  Nature, 
Estroite  et  charmante  prison, 
Doux  tyran  de  nostre  raison, 
Fixe  et  mouvante  sépulture, 
Autel  que  1'  on  sert  à  genoux, 
Dont  r  offrande  est  le  sang  de  tous, 
Sangsue  avide  et  libérale, 
Roi  de  la  honte  et  de  l'honneur, 
Permettez  que  ma  piume  estale 
Ce  que  Lisandre  eut  de  bonheur. 

Ma  il  Tasso  ed  il  Corneille  vissero  in  secoli 
corrotti,  tra  corti  corrotte;  e  il  classicismo  puro,, 
come  lo  professava  quella  gente  che  leggeva  il 
latino  senza  spropositi  di  prosodia  (cattivo  segno 
per  la  morale),  è  una  corruzione  di  per  sé.  Lo 
so:  vostro  cavai  di  battaglia,  o  critici  virtuosi,  è 


NOVISSIMA   POLEMICA.  299 

r  età  gloriosa  dei  nostri  padri,  il  ciclo  (  diciamo 
cosi)  delia  poesia  civile,  il  tempo  oramai  diventato 
antico  nel  quale  i  fanciulli  imparavano  ad  amare 
la  patria  nei  canti  de'  poeti,  quando  V  arte  sembrò 
veramente 

venuta 
Di  cielo  in  terra  a  rairacol  mostrare. 

Verissimo:  nessuno  più  di  me  ammira  quel  tempo 
per  ciò  che  produsse  di  severo,  di  onesto,  di  forte. 
Ma  le  tante  edizioni  del  Casti  e  del  Batacchi  che 
uscirono  tra  il  1815  e  il  1859  chi  le  leggeva,  chi 
le  consumava?  noi,  o  i  nostri  padri  idealisti?  La 
Molla  magnetica  e  VAve  Maria  chi  V  ha  scritta, 
il  cinico  Stecchetti  o  il  civilissimo  e  moralissimo 
poeta  Giuseppe  Giusti?  E  del  Giusti  volete  voi, 
senza  poi  trattarmi  da  Cam,  volete  voi  che  io  li 
pubblichi  certi  versi  inediti?  Non  potrò  pubblicarli, 
vi  avverto,  in  questo  giornale,  e  né  meno  in  molte 
copie  da  mettere  in  commercio;  ma  li  regalerò  a 
chi  me  li  chieda,  pur  che  provi  con  documenti, 
foss'  anche  co  '1  certificato  del  suo  pievano  (  in 
letteratura  verremo,  verremo  a  questo),  di  essere 
un  poeta  pudico  o  uno  scrittore  morale  o  un  cri- 
tico idealista  a  prova  di  bomba. 

Voi  mi  opporrete:  Ma  cotesti  versi  osceni  od 
equivoci  il  Giusti  o  non  li  pubblicò  o  li  rifiutò.  Vi 
rispondo  :  Io,  per  esempio,  non  avrò  V  incomodo  di 
rifiutarne  di  simili,  perché  io,  materialista,  come 
volete,  non  ho  mai  composto  versi  osceni.  Anzi  le 
opere  del  Batacchi   imparai  a   conoscerle   da  un 


300  NOVISSIMA   POLEMICA. 

idealista,  idéalista  d' un' acqua...  d'' un' acqua,  cari 
miei;  che  non  e'  è  diamante  che  tenga;  famigliare 
un  tempO;  del  Giusti;  e  scrittore  anch'  egli  di  versi, 
più  tosto  sconclusionati  e  brutti,  ma  quanto  ad 
affetto,  a  spiritualismo,  a  etere,  bada  d' avanti  ! 
Erano  curiosi  certi  tipi  toscani  di  ventidue  anni 
fa  !  Fior  di"  galantuomini  e  patriotti  se  ce  ne  fu 
mai  :  non  son  sicuro  che  in  fondo  in  fondò  cre- 
dessero in  Dio  o  neir  anima  immortale,  ma  cri- 
stiani erano  di  tre  cotte:  nessuna  letteratura,  del 
resto,  parea  a  loro  a  bastanza  civile,  e  facevano  un 
loro  strano  cibreo  non  pure  d'  "  Ugo  e  Manzon  „, 
ma  e  del  Niccolini  e  del  Giusti,  con  un  miccino 
anche  di  Silvio  Pellico,  le  sillabe  del  cui  dolce 
nome  parevano  tutte  languide  gemere  di  tali  con- 
tatti.'Ma,  quando  quei  civilissimi  si  ritrovavano 
tra  loro  cosi  a  quattro,  a  otto,  a  sedici  occhi,  il 
poeta  più  ricordato,  più  citato,  più  letto,  era  il 
Batacchi.  E  come  lo  recitavano!  come  se  lo  gro- 
giolavano!  con  che  sdrucciolose  illustrazioni  in 
quella  sboccata  lingua  fiorentina  lo  commentavano! 
Ora  io  non  dirò  che  i  nostri  padri  idealisti 
fossero,  almeno  un  tantino  cosi,  ipocriti:  non  lo 
dirò:  troppa  è  la  venerazione  che  io  mi  sento  in 
cuore  per  i  capelli  canuti  e  per  le  tombe.  Rac- 
conterò invece  una  storia.  C'  era  una  volta,  tra  il 
1820  e  il  1830,  un  critico  e  poeta,  cristiano  puro, 
serafico  come  un  francescano,  rabbioso  più  d'  un 
domenicano;  filosofo  rosminiano  per  giunta,  e 
missionario  validissimo  della  religion  manzoniana. 


NOVISSIMA   POLEMICA.  30I 

Era  uomo  dotto,  e  pure  s' infingeva  di  aborrire 
le  letterature  classiche,  perché  non  manzoniane  e 
dantesche  :  pagano  era  il  suo  vocabolo  d'  orrore  e 
di  vitupero,  e  credo  lo  gittasse  dietro  alle  spie 
deir  Austria  e  al  sarto  quando  gli  presentava  il 
conto.  La  carne  gli  faceva  scandalo  cosi  nelle  tele 
di  Tiziano  come  nei  marmi  del  Canova  e  nei  versi 
del  Foscolo:  il  suo  ideale  era  la  quaresima:  di- 
ceva ohibò  alle  farfalle  riscontrantisi  su  i  fiori. 
Ma  tanto  concentrato  idealismo  aveva  pur  bisogno 
di  sfogo;  e  le  femmine  in  natura  gli  piacevano;  e 
specialmente  gli  piacevano,  non  corrotte  dall'arte, 
le  foresozze  tarchiatelle  e  atticciate,  e  le  serve, 
nella  cristiana  umiltà  della  lor  condizione,  rimpinze 
e  luccicanti  d'  ogni  grazia  di  Dio.  Questi  suoi  gu- 
sti si  sapevano  in  paese.  Onde  certi  mondani, 
punti  o  stizziti  delle  sue  critiche,  un  bel  giorno 
gli  misero  fuori  una  caricatura,  che  io  mi  proverò 
a  descrivere  con  parole  il  meno  che  per  me  si 
possa  proprie  e  pittoriche.  Lo  rappresentava  qual 
era  di  viso,  di  figura,  di  panni,  ma  in  atto  come 
di  rapito  in  serafica  èstasi:  con  le  braccia  allar- 
gate, erto  e  supino  il  capo  verso  il  cielo,  sbarrati 
gli  occhi  fisi  e  fiammanti,  pareva  dire:  ;  Veggo  i 
cieli  aperti  e  la  gloria  dell'  Agnello.  Ma  anche  la 
parte  per  la  quale  meritò  tanto  Origene,  esultante 
fuor  d'  ogni  vincolo  nell'  apoteosi  a  cui,  1'  amore 
solleva  la  materia,  pareva  seguitare  la  verticale 
ascensione  dell'  estasi.  Sotto  la  figura  quegli  in- 
durati e  perfidi  pagani   avevano   inscritto   alcune 


302  NOVISSIMA   POLEMICA. 

parole,  con  le  quali  1'  egregio  uomo  soleva  desi- 
gnare a  sé  stesso  ed  agli  altri  l'ufficio  del  critico: 
"  Eretto  neir  amore  di  Dio  e  delle  sue  creature  „. 
—  Cosi  la  leggenda. 

Giuseppe  Parini,  l' institutore  della  scuola  ci- 
vile, il  restauratore  della  coscienza  nella  poesia 
italiana,  non  era  da  vero  un  ipocrita  egli,  il  bravo 
prete.  A  lui  "  le  bianche  braccia  ed  il  bel  petto  „ 
piacevano  francamente  anche  nelle  arciduchesse 
d*  Austria,  e  glielo  diceva  su  '1  viso.  Come  descri- 
vesse i  vezzi  della  Cecilia  Tron  e  della  contessa 
di  Castelbarco,  tutti  sanno  o  dovrebber  sapere. 
Ma  La  sorpresa  e  La  gelosia  le  ricordate  voi, 
critici  pudibondi,  che  rinfacciate  allo  Stecchetti 
r  arte  modesta  del  Parini,  Tarte  che  fu  educatrice? 
No?  Ve  le  dirò  io. 

Che  spettacol  gentil,  che  vago  oggetto 
Fu  il  veder  la  mia  Nice  all'  improvviso, 
Quando  sorpresa  in  abito  negletto 
M'apparve  innanzi  ed  arrossi  nel  viso! 

Come  il  candido  velo  al  sen  ristretto 
I  bei  membri  avvolgea!  come  indeciso 
Celava  e  non  celava  i  fianchi  e  il  petto 
Che  sorger  si  vedeva  in  due  diviso! 

Quali  forme  appan'an  sotto  a  le  veste! 
Paga  era  l'alma  e  vivo  era  il  desio, 
E  il  piacer  del  mirarla  era  celeste. 

Deh,  mi  concedi,  amor,  che  questa  cruda 
Tal  mi  si  mostri  anco  un  momento;  ed  io 
Più  non  invidio  chi  vedralla  ignuda. 


NOVISSIMA   POLEMICA.  303 

Più  non  invidio  chi  vedralla  ignuda? 
Ah  come,  ohimè  !^  se  immaginando  ancora 
Quella  sera  fatale  o  queir  aurora 
Trema  quest'alma  sbigottita  e  suda? 

Come  soffrir  che  al  mio  rivai  si  schiuda 
Ciò  che  velato  ancor  m'arde  e  innamora? 
Come  soffrir  che  a  mille  baci  allora 
Quel  bel  labbro  eh' è  mio  s'apra  e  si  chiuda? 

E  eh'  altri  faccia  al  bel  corpo  catena 

De  le  sue  braccia,  e  spiri  altri  quel  fiato, 

E  ch'altri,  oh  Dio!  che  il  suo  fedele  amante... 


Queste,  amico  Cavallotti,  sono  "  le  mode  del 
vecchio  Parini  „  ;  e  se  tu  le  vuoi  portare,  por- 
tale pure,  che,  per  gli  dèi,  non  c'è  male.  Po- 
trai venire  cosi  vestito,  a  far  visita  alla  musa 
scollacciata  dello  Stecchetti.  Io  allora  pregherò 
il  signor  Vittorio  Bersezio,  uomo  sodo,  a  guar- 
dare un  po'  lui  che  non  succedano  casi.  Un 
campione,  e  che  campione,  del  popolo  eletto, 
in  peccato  con  una  figlia  degli  Amaleciti? 
Orrore  ! 

E  non  è  tutto.  Il  bravo  abbate,  che  io  am- 
miro in  più  parti  delle  odi  e  in  tutto  il  poema 
come  uno  de'  primi  maestri  del  realismo  (  dico 
cosi  per  r  uso  di  questi  giorni,  e  dovrei  dire 
della  buona  e  vera  poesia),  il  bravo  abbate  fa- 
ceva  anche    de'  sonetti    per   le    ballerine  ;    e  per 


,304  NOVISSIMA   POLEMICA. 

certa   ballerina  Pelosini  ne  fece   uno    che    finisce 
cosi, 

E  Pelio  ed  Ossa  innalzerei  con  lena 

Se  gir  potessi  ad  ottener  ristoro 

Per  quella  via  che  in  ver'  Pelusio  mena. 

Che  ne  dicono  i  critici  virtuosi? 

Badate,  lettori,  che  questa  interrogazione  io 
r  ho  messa  qui  solamente  come  una  figura  retto- 
rica.  Se  aspettassi  una  risposta,  aspetterei  il  corvo. 
I  critici  virtuosi  e  i  poetini  scrofolosi  seguiteranno 
a  dire  che  i  novatori  menano  al  bordello  la  casta 
e  austera  musa  del  Parini  e  del  Giusti,  e  che  il 
Guerrini  e  io  siamo  due  porci. 

A  rivederci,  brava  gente!  Siate,  se  potete, 
meno  imbecilli  o  meno  birbanti. 


IV. 


E  ora  negatemi  che  Ohndo  Guerrini  sia,  un 
poco  almeno,  idealista!  O  non  gli  passò  pe  '1  capo 
di  dir  qualche  parola  gentile  al  signor  comico 
Luigi  Alberti  e  stendergli  la  mano?  Ha  avuto 
quello  che  si  meritava.  Il  comico  gli  ha  risposto 
accusandolo  di  non  so  quanti  reati  e  conchiu- 
dendo con  dargli  del  rospo. 

Io  non  conosco  il  signor  Luigi  Alberti;  ma  a 
vederlo  come  ce  lo  presentano  i  tipi  déìV  Arie 
della  stampa  ne'  suoi  P  r  e  f  a  z  i  i  e  nella  sua  P  o- 
lemica  nuovissima,  mi  torna  a  mente,  non 
so  perché,  ciò  che  in  uno  di  quegli  sfoghi  di  bizze 


NOVISSIMA    POLEMICA.  305 

municipali  che  rallegrano  e  confortano  di  quando 
in  quando  la  nostra  unità  nazionale,  fu  detto 
de' fiorentini:  che  sono,  cioè,  i  cinesi  d'Italia. 
O  mia  bella  e  gloriosa  città,  o  mia  città  cara  e 
infelice,  dove  le  pietre  sono  tanto  eloquenti  e  cosi 
piene  d' inni,  e  il  vino  è  generoso,  sereno,  raz- 
zente di  salute  e  di  vigore  e  d'  arguzia  e  di  estro 
come  un  coro  d'  Aristofane,  e  le  rose  fioriscono 
d'  ogni  mese  con  tale  una  dolce  soavità  di  colori 
e  di  effluvi  che  paiono  cantare  un'  elegia  di  Mi- 
mnermo,  e  gli  olivi  hanno  cosi  fantastica  varietà 
di  tinte  su  i  colli  in  mezzo  ai  cipressi,  e  i  laureti 
hanno  ombre  e  bisbigli  divini  al  tramonto,  quando 
anche  l' Arno,  il  brutto  e  sudicio  fiume,  diventa 
splendido  sotto  il  sole,  tutto  superbo  d'illuminare 
a  porpora  e  oro  una  distesa  di  monumenti  che 
paiono  fatti  per  un  popolo  di  eterni  giovani  quale 
può  averlo  imaginato  Sofocle  o  desiderato  Pla- 
tone; o  mia  bella  e  gloriosa  città,  perdonami;  ma 
oltre  i  lumaconi  che  sbavano  pe*tuoi  roseti,  oltre 
le  vipere  che  lingueggiano  sotto  i  bianchi  tuoi 
marmi,  tu  nutri,  dentro  il  nuovo  cerchio  daziario 
del  Peruzzi,  tu  nutri,  o  mia  cara  città,  dei  cinesi. 
Questi  cinesi  pensano:  —  Noi  siamo  i  soli  che 
sappiam  parlare,  —  e  non  imparano  a  scrivere: 
—  Noi  siamo  dalla  natura  e  dalle  circostanze  ar- 
tistiche educati  al  bello,  —  e  non  imparano  a  leg- 
gere: —  Noi  siamo  i  discendenti  di  Dante,  del 
Petrarca,  del  Boccaccio,  del  Machiavelli,  di  Miche- 
langiolo,  di  Galileo,   —  e  non  fanno    nulla.    E  se 

Carducci.  4.  20 


3o6  NOVISSIMA    POLEMICA. 

qualcuno  legge  o  scrive  o  fa  come  nelle  menti 
loro,  di  necessità  vuote  e  inculte  e  rese  anguste 
dalla  strettura  delle  loro  abitudini,  non  entra  che 
s'  abbia  a  leggere  a  scrivere  a  fare,  Dio  guardi  ! 
Tutto  quello  che  essi  non  sanno  lo  condannano, 
nella  impavidità  della  loro  ignoranza,  senza  esame, 
con  un  giudizio  universale;  e  poi  si  vestono 
un'aria  di  superba  commiserazione,  e  poi  sbotto- 
neggiano,  o  con  tracotanza  prudente  o  con  impu- 
denza triviale,  a  motti  e  proverbi;  e  poi  accen- 
nano a  un  questurino,  e  —  Badi  un  po'  :  quel 
signore  li  non  pensa  né  scrive  come  noi  pensiamo, 
senza  scrivere,  che  sia  giusto  e  degno  pensare  e 
scrivere  in  Italia;  come  in  Italia  si  è  pensato  e 
scritto,  se  bene  noi  non  leggiamo,  da  Dante  al 
Giusti  :  faccia  un  po^  il  piacere,  lo  frughi;  e'  ci  deve 
aver  rubato  almeno  il  fazzoletto. 

Tra  questi  cinesi,  che  del  resto  ce  ne  sono 
anche  fuor  di  Firenze,  il  più  cinese  di  tutti  a 
me  pare  il  signor  Alberti,  se  bene  egli  sappia 
scrivere,  cioè  dia  a  stampare.  Egli  se  ne  va  per 
il  mondo,  volevo  dire  lung'  Arno,  co'  suoi  bravi 
mustacchi  bene  spioventi  all'  in  giù,  co  '1  suo  bravo 
codino  ben  pettinato  all'  in  su,  co  '1  suo  cappello 
a  timpano;  e  porta  in  mano  il  suo  ideale,  un 
Gesù  bambino  di  Lucca,  stoppa  e  gesso  acre- 
mente colorato,  e  lo  chiama  Dio.  Passa  un  ga- 
lantuomo affrettato  per  le  sue  faccende,  e  sospinto 
dalla  folla  lo  tócca,  senza  volere,  d'un  leggero 
colpo   nel   gomito,    si    che    il    bambino    tentenna. 


NOVISSIMA   POLEMICA.  307 

Ecco  il  signor  Alberti  a  sbraitare  come  un  onesto 
facchino  —  Va  là,  birbante!  Tu  hai  ammazzato 
tuo  padre,  hai  prostituita  tua  sorella,  insegni 
a'  tuoi  figliuoli  rubare  e  batter  la  madre!  —  Ma 
veda,  signor  cinese:  io  Le  chiedo  scusa,  se  l'ho 
disturbato:  non  ci  ho  colpa:  è  la  folla  che  spinge. 
Del  resto,  io  non  ho  fatto  né  faccio  quelle  brutte 
cose  che  Ella  dice.  —  Zitto,  birbante!  fosti  tu 
che  desti  al  Passanante  il  coltello  per  ferire  il 
re,  e  poi  sei  corso  co  '1  tuo  compagno  in  Firenze 
a  tirar  le  bombe  in  via  Guelfa  — . 

Fino  a  qui  ho  idealizzato  il  signor  Alberti  se» 
condo  il  suo  sistema.  Ora,  la  storia. 


V. 


Dopo  pubblicate  le  Postume  e  le  Odi  bar- 
bare, il  signor  Alberti  mise  fuori  un  prefazio  in 
versi,  con  avanti  un  altro  prefazio  e  con  dietro 
una  appendice,  ambedue  in  prosa,  pagine  21  in  16°. 
Nel  prefazio  in  versi  discorreva  di  "  viltà  feroce  „ 
e  d'  "  insensato  orgoglio  „,  mirando  particolar- 
mente air  autore  delle  Odi  barbare;  e  anche, 
mirando  più  in  generale,  discorreva  di 

una  turba  mal  nota 
Che  incauta  incede  in  suo  delirio  orrendo 
Tutto  irridendo. 

Neir  appendice  in  prosa  citava  alcune  strofe  delle 
Odi  barbare,  dove  le  idee  del  Rousseau  del 
Gibbon  e  di  altri  più  recenti  su  '1  cristianesimo  di- 


3o8  NOVISSIMA   POLEMICA. 

rimpetto  alla  virtù  civile  e  al  sentimento  umano 
della  vita  erano  svolte  artisticamente,  e  glossava 
cosi:  "  Parole  vuote  di  senso,  perché  sono  la 
negazione  viva  e  palese  d'  ogni  verità  storica  e 
filosofica  contro  la  idea  cristiana  iniziatrice  della 
civiltà  moderna  „  ;  non  glossava,  com'  era  il  caso, 
anche  per  la  grammatica,  la  glossa  sua,  ma  sem- 
plicemente seguitava  imputando  1'  autore  dei  versi, 
che  egli  cosi  "  togliesse  alle  coscienze  dei  gio- 
vani la  responsabilità  di  certe  intime  ribellioni 
alla  morale  imparata  fin  da  bambini  all'  ombra 
dell'  amore  materno  „  ;  come  se  la  morale  in  una 
società,  per  non  dir  altro,  di  cui  sono  tanta  parte 
politica  ed  economica  gli  isdraeliti,  dipenda  dalla 
divinità  di  Gesù  creduta  o  no.  (Notino  bene  al- 
cuni lettori:  a  dispetto  del  mio  nome  ebraico,  la 
mia  famiglia  è  latina  e  cattolica  dalle  più  lontane 
origini).  Nel  prefazio  in  prosa  il  signor  Alberti 
anche  diceva:  "  Se  poi  vi  fosse  qualcuno  che, 
ritenendo  il  contrario,  credesse  combattermi,  come 
oggi  suole  [il  signor  Alberti  per  conto  suo  com- 
batte la  grammatica],  colle  armi  indegne  dell'in- 
sulto e  del  ridicolo,  lo  sappia  fin  d'  ora  :  io  non 
accetto  polemiche  nel  campo  sereno  dell'  arte, 
oltre  i  confini  segnati  dal  reciproco  rispetto  „.' 

Io  non  gli  risposi  nulla.  Il  Guerrini,  anch' egli 
assalito  con  le  solite  armi,  gli  rispose  alcune  gen- 
tilezze. Bene!  Pubblicate  che  furono  le  Nova 
Polemica,  nelle  quali  a  punto  si  possono  leg- 
gere   quelle    gentilezze    del    Guerrini,    il    signor 


NOVISSIMA    POLEMICA.  309 

Alberti  dà  a  stampare  una  Polemica  novis- 
sima coi  soliti  versi  che  vanno  ognuno  per 
conto  lorO;  più  piccoli  e  più  lunghi,  come  tanti 
montoni  e  pecore  sbandate,  e  con  una  prefazione 
dove  le  ragioni  in  prosa  vanno  a  conto  loro 
anche  peggio  che  i  montoni  e  le  pecore  de*  versi. 
Mi  provo  a  raccogliere  quelle  randage  be- 
stiuole.  11  signor  Alberti  discorre  presso  a  poco 
cosi.  —  La  tolleranza  è  bella  e  buona,  ma  e*  è 
un  limite  a  tutto.  Quand'  uno  mi  dà  uno  schiaffo, 
io  reagisco;  e  faccio  bene  per  rispetto  alla  di- 
gnità umana.  (Parentesi.  Io  non  nego  che  il  si- 
gnor Alberti  possa  avere  in  vita  sua  ricevuto 
degli  schiaffi;  ma  quanto  al  reagire,  se  allude 
alla  Polemica  novissima,  io  mi  concedo  di 
ricordargli  V  utile  avvertimento  dell*  assennato  scu- 
diere air  ultimo  dei  paladini,  le  cui  imprese  contro 
i  mulini  a  vento  finivano  con  una  fiocca  —  ahimè, 
ideale  cavalleresco!  —  di  bastonate).  Ora  —  se- 
guita il  signor  Alberti;  e  parrebbe  da  vero  che 
qualcuno  1'  avesse  bastonato,  tanto  strilla  —  voi, 
"  sotto  il  pretesto  delle  cresciute  libertà  „,  vi 
servite  della  penna  come  d' un  pugnale  :  voi  ci 
vorreste  morti,  perché  non  vogliamo  piegare  il 
capo  alle  vostre  matte  teorie  :  voi,  in  arte,  in 
filosofia,  in  politica,  in  tutto,  volete  rovesciata  e 
distrutta  ogni  cosa;  e  rovesciate  senza  edificare; 
e  a  rovesciare  e  distruggere  tutto  quanto  resta 
ancora  d'  antico  voi  reputate  necessario  il  delitto  ; 
lo  reputate  il  mezzo  unico  e  meglio  efficace.  E  per 


3IO  NOVISSIMA   POLEMICA. 

ciò  deturpate  l' arte,  che  di  per  sé  è  morale  in 
quanto  è  bella;  e  dell*  arte  cosi  deturpata  vi  ser- 
vite a  sovvertire  ogni  onesto  principio  di  mora- 
lità; ve  ne  servite  come  di  un  vino  fatturato  per 
ubriacare  i  reluttanti,  e  ubriachi  spingerli  inconscii 
al  delitto;  ne  fate  uno  specifico  di  cantaridi  per 
eccitare  i  giovani  a  popolare  le  suburre. 

Cosi,  ma  un  pò*  peggio,  "  nei  confini  segnati 
dal  reciproco  rispetto  „,  il  signor  Alberti  :  e'  è, 
come  sentite,  del  comico.  Se  non  che  il  signor 
Alberti  è  anche  filosofo;  non,  come  il  MoHère, 
epicureo,  ma  idealista.  Egli  protesta: 

Non  ci  venite  a  dire  che  in  arte  non  ci  sono  né  veristi  né 
idealisti.  Non  confondiamo  gli  ebrei  coi  samaritani.  Giacché 
si  ha  a  parlar  chiaro,  diciamo  le  cose  come  stanno.  E  senza 
tanti  rig-iri  di  parole,  senza  tanto  lusso  di  frasi  e  di  concetti 
espressi  a  balzi  e  senza  costrutto,  procuriamo  di  afferrar  la 
questione  per  la  gola:  e  la  questione  st^ì  (sic)  in  questo:  nelle 
tendenze  diverse:  avete  millanta  ragioni  da  vendere.  E  lo 
confesso  e  lo  proclamo  io  pure  a  voce  alta.  Infatti  noi  idealisti 
(state  attenti  e  tenetelo  bene  a  mente)  ci  serviamo  dell'arte 
e  dei  suoi  mezzi  a  idealizzare  tutto  ciò  che  è  vero,  ma  bello: 
perchè  in  quello  vediamo  riflessa  la  immagine  vera,  per  quanto 
astratta,  di  un  tipo  ideale  e  sovrasensibile  che  è  Dio,  aspira- 
zione eterna  della  coscienza  umana.  Voi  vi  servite  deU' arte  e 
dei  mezzi  a  idealizzare  il  vero,  anche  brutto;  in  quanto  è  la 
negazione  di  quel  tipo  astratto  e  sovrasensibile  che  è  vita  e 
ragione  della  nostra  scuola  vecchia. 

Ah  si?  Dunque  gì'  idealisti  si  servono  dell'arte 
€  de'  suoi  mezzi  a  idealizzare  tutto  ciò  che  è  vero 
ma  bello?  Dunque  per  voi  il  vero  non  è  propria- 
mente il  vero?  anzi  ci  sono  due  veri,  il  vero  bello 


NOVISSIMA   POLEMICA.  3II 

€  il  vero  brutto?  E  il  vero  bello  lo  distinguete  per 
questO;  che  ci  vedete  riflessa  la  imagine  vera,  per 
quanto  astratta,  di  Dio  tipo  ideale?  E,  cosi,  ri- 
dealizzate  quello  che  è  già  ideale?  E  discorrete 
cosi  di  filosofia?  E  fate  di  cotesti  versi?  Me  ne 
sa  male  pe  '1  vostro  Dio.  Si,  fate  di  cotesti  versi, 
e  respingete  tra  i  reprobi,  che  idealizzano  il  vero 
anche  brutto.  Eschilo,  per  esempio,  e  Dante  e 
Shakespeare.  "  Non  confondiamo  gli  ebrei  co'  sa- 
maritani „,  Eschilo,  Dante  e  Shakespeare  può  darsi 
non  siano  nostri,  perché  noi  siamo  troppo  piccini. 
Ma  vostri?  vostri,  no,  no,  no,  non  sono,  per  tutto 
il  vostro  arcadico  Dio!  Perché  io  non  credo  che 
voi  crediate  che  Dio  rifletta  la  imagine  sua,  per 
esempio,  in  "  Taide  la  p....  con  l'unghie  m....  „ 
Ora,  se  Dio  non  si  riflette  in  quella  signora. 
Dante  è  un  poeta  verista,  che  idealizza  il  vero 
anche  brutto.  Se  poi  ci  si  riflettesse,  allora  anche 
lo  Stecchetti  sarebbe  un  poeta  idealista  :  o  perché 
Dio,  che  si  riflette  nella  Taide  di  Dante,  non 
avrebbe  a  riflettersi  nelle  Emme  e  nelle  Caroline 
dello  Stecchetti,  che  almeno  sono  più  pulite? 

Il  signor  Alberti  ha  "  afferrato  „,  com'  egli  si 
esprime,  "  la  questione  per  la  gola  „.  Questo 
carabiniere  del  buon  gusto,  del  buon  costume  e 
specialmente  del  buon  senso,  merita  una  me- 
daglia al  valor  militare.  Ha  agguantato  un  pas- 
serotto. 


312  NOVISSIMA    POLEMICA. 

VI. 

Non  giudichi  il  lettore  da  questa  agguantatura 
male  riuscita:  il  signor  Alberti  in  critica  è  pur 
sempre  un  buon  poliziotto,  miglior  poliziotto  di 
certo  che  filosofo.  Nel  lavoro  poetico  dei  tre  o 
quattro  scrittori  recenti,  che  amici  e  nemici  de- 
nominano con  un  po'  d*  improprietà  e  con  maggior 
confusione  la  scuola  del  verismo,  egli  odia,  de- 
nunzia, accusa  le  tendenze  ;  co  '1  laccio  del  qual 
vocabolo  barbaramente  elastico  accalappia  le  ma* 
nifestazioni  e  i  sintomi  non  tutti  belli  della  vita 
sociale  d' oggigiorno,  che  resultano  da  quella 
poesia  a  punto  perché  quella  poesia  intende  a 
rappresentare  tutto  il  vero,  anche  quello  dove  non 
c'è  pur  troppo  né  meno  un  micolin  di  Dio;  gli 
accalappia,  dico,  e  li  presenta  a'  suoi  lettori  in 
quel  fascio  di  vituperii  che  ho  riferito  più  sopra. 

Eccone  un  altro  esempio.  Il  Guerrini  nel  pro- 
logo della  Nova  polemica  dice  —  Voi  che 
rimproverate  i  veristi  di  non  saper  fare  altro  se 
non  all'  amore,  v'  accorgerete  un  giorno  se  sotto 
il  verismo  c'era  soltanto  l'oscenità  — ;  dice,  e 
tra  gli  altri,  stampa,  intitolandolo  alla  signorina 
Vera  Zassoulich,  un  canto  Justitia,  nel  quale,  ri- 
voltato a  vedere  certe  infami  iniquità  sociali,  esce 
gridando. 

Io  che  pur  soglio  lacrimar  di  pietà 
de'  vati  su  le  carte, 


^r 


NOVISSIMA   POLEMICA.  315 

io  e' ho  in  petto  il  gentil  cor  del  poeta 

se  me  ne  manca  l'arte, 
che  piango  insino  gli  scordati  eroi 

d' Ilio  combusto  e  domo, 
io  non  ho  senso  di  pietà  per  voi, 

non  ho  viscere  d'uomo, 

€  segue  rappresentando  con  cruda  efficacia  i  sel- 
vaggi sogni  di  vendetta  degli  affamati  e  degli 
schiacciati.  Non  ci  voleva  altro!  Ecco  i  veristi 
divenuti  nihilisti,  attizzatori  degl'  incendi,  Siìzza.- 
tori  delle  stragi,  provveditori  delle  forche,  ana- 
creonti  della  ghigliottina.  Ecco  Olindo  Guerrinì 
"  acceso  d' ira  violenta  contro  quanti  possiedono 
ancora  qualcosa  al  sole....  „.  Ma,  poliziotti  del- 
l' anima  mia,  Olindo  Guerrini  ha  per  V  appunto 
qualche  cosa  al  sole,  vedete,  e  qualche  altra  cosa 
al  coperto  ;  e  non  è  uomo  da  levarsi  il  gusto,  per 
dar  ragione  alle  vostre  bizze  accademiche,  di 
guidar  le  plebi  invidiose  (come  le  chiamate  voialtri 
co' 1  vostro  eufemismo  retorico)  in  casa  sua,  con- 
clonando  —  Cittadini,  mettete  in  atto  la  giustizia 
si  nelle  cose  come  nelle  persone  :  fatemi  il  piacere 
di  spogliarmi  ;  e  poi,  per  onesta  baldoria,  bruciate 
la  casa,  questa  casa  che  fu  murata  con  1*  ossa 
de'  vostri  figliuoli  morti  di  fame,  stemperate  nel 
sudore  delle  vostre  fronti  e  nel  sangue  dei  vostri 
cuori;  e  poi  su  le  fumanti  macerie  fucilatemi,  o 
cittadini,  perch'  io  sono,  come  vedete,  un  grasso 
borghese  — .  Quello  che  il  signor  Alberti  chiama 
tendenza  del  poeta  è  il  fenomeno  storico  del  mo- 


314  NOVISSIMA   POLEMICA. 

mento  sociale  che  si  rivela  nell'  opera  sua,  perché 
quest*  opera  è  schietta  e  vera.  La  poesia,  per  noi, 
anche  con  la  minima  importanza  che  oggigiorno 
ha,  è  pur  sempre  un*  emanazione  dello  spirito  col- 
lettivo, che,  accolta  o  tutta  o  parte,  secondo  le 
capacità,  dallo  spirito  individuale,  è  da  questo 
modificata  e  plasmata  secondo  le  disposizioni  e 
attitudini  sue.  Le  tendenze  perquisite  in  noi  sono 
anche,  diversamente,  secondo  le  diverse  disposi- 
zioni, secondo  i  momenti  diversi,  espHcate  nella 
poesia  di  Vittore  Hugo,  in  quella  di  Heine,  in 
quella  dello  Shelley  e  del  Byron,  in  quella  dello 
Schiller  e  anche,  me  lo  perdoni  sua  olimpica 
Maestà,  del  Goethe. 

Ma  torniamo,  torniamo  a  noi.  La  questione 
sociale  e' è  o  non  c'è?  Altro  se  e*  è,  risponde  il 
signor  Alberti,  che  anzi  pare  ne  ammetta  pili 
d*  una  ;  e  scrive  : 

Insomma  pur  troppo  i  signori  conservatori  conservano  da 
un  pezzo  nei  loro  scrigni  tutte  quelle  ricchezze  che  essi  avreb- 
bero dovuto  impiegare  a  vantaggio  del  prossimo  loro.  Qtwd 
superest  date  pauperibtis,  'ita  scritto  da  secoli  nel  Vangelo, 
ma  di  questo  i  ricchi  né  si  ricordarono  né  si  ricordano;  epperò 
il  proletario  macilento  e  stremato  si  duole,  e  in  nome  di  Cristo 
grida  a  voce  alta  implorando  pietà  e  lavoro.  Ma  dal  dolore 
profondo  che  suscita  nell'animo  di  tutti  gli  onesti  cotesto  grido 
disperato  (in  cui  si  accoglie  forse  la  più  seria  questione  so- 
ciale dei  tempi  moderni)  a  desiderare  di  essere  il  boia  in  per- 
sona per....  ecc. 

Il  resto  a  me  non  importa.  Il  signor  Alberti  non 
ha   capito  o  non  ha  voluto  capire  V  idealizzazione 


NOVISSIMA   POLEMICA.  315 

(perché  anche  i  veristi  ideaUzzano)  che  il  Guer- 
rini  fece  a  modo  suo  di  cotesto  "  grido  dispe- 
rato „,  e  con  ciò  mostra  di  non  essere  né  filosofo 
né  critico. 

Bene.  Sia  poeta  ;  e  giacché  una  tendenza  V  ha 
anch'  egli,  come  chiaramente  dimostra  nei  periodi 
sopra  recati,  ed  è  una  tendenza  ragionevole,  la 
estrinsechi  in  poesia;  e  faccia  de' versi  migliori 
di  quelU  d'  Olindo  Guerrini.  Cosi  si  combatte,  cosi 
si  vince,  cosi  si  ha  ragione. 

Forti  eran  essi,  e  combattean  co'  forti. 

Ma  fin  che  il  signor  Alberti  fa  de'  periodi  rimati 
con  questa  eloquenza  e  sintassi  qui, 

Tu,  che  di  nuovo  accesa 

Vuoi  la  prisca  virtù  nei  forti  petti, 

Tu  che  d'alti  concetti 

E  di  poesia  civile 

Ritempri  il  nuovo  stile. 

Tu,  dell'  idea  cristiana 

Che  fu  germe  fecondo 

E  ravvivò  nel  mondo 

La  fratellanza  umana,' 

Nemico  di  te  stesso, 

Avverso  a  ogni  progresso, 

Tenti  indarno  tarpar  delle  grand'  aìi 

L' irresistibil  volo; 

fin  che  fa  de'  settenari  cosi, 

E  di  poesia  civile 

Della  poesia  novella.... 
Di  tue  deitadi  ignude...., 


3l6  NOVISSIMA    POLEMICA. 

fino  che  maneggia  il  linguaggio  proprio  e  figu- 
rato cosi; 

E  a  coglier  l'ardua  mèta; 

fin  che  scrive  sta  con  l'accento  su  Va)  il  signor 
Alberti  potrà  esercitare  benissimo  il  moralista  o 
il  poliziotto^  ma  non  ha  il  diritto  di  farsi  avanti 
in  letteratura  tra  persone  che  si  sono  lavate  le 
mani  nella  grammatica. 


VII. 


Altri  perdoni  al  signor  Alberti  le  innocenti  vel- 
leità dei  suoi  pistolotti;  triviali  in  tutto,  compresa 
r  ortografia.  Io  no.  Questa  volta,  giacché  il  signor 
Alberti  è  recidivo,  io  per  amore,  non  dell'  arte 
(qui  non  è  quistione  d'arte),  ma  dell'educazione 
del  popolo  italiano,  io,  "  non  afferro  per  la  gola  „,. 
ma  piglio  gentilmente  per  un  orecchio  questo  si- 
gnore, e,  come  facevano  gli  Spartani  dell'ilota 
ubriaco,  lo  espongo  a  spettacolo  dei  giovani;  ac- 
ciò ne  imparino  un  salutare  abominio  per  l'acca- 
demia dei  dilettanti  scribacchiatori,  che  contami- 
nano, che  guastano,  che  rendono  contennenda  la 
nostra  generazione.  Ahimè!  ogni  italiano,  per 
quanto  rivoluzionario,  per  quanto  realista  o  ve- 
rista o  nuUista,  per  quanto  anche  bohémien,  ha  un 
indigeno  caprifico  d'Arcadia  nel  cuore.  E  io  vorrei 
sterpare  tutti  quei  caprifichi,  a  rischio  anche  di 
strappar  qualche  cuore.  Torniamo  al  signor  Al- 
berti, che  tengo  preso  gentilmente   per  un   orec- 


NOVISSIMA   POLEMICA.  317 

chic,  e  finiamola.  Ah,  signore  idealista!  Ella  dunque 
fa  e  dedica  ai  Poeti  veristi  una  delle  solite  etopee 
del  solito  rospo,  "  rettile  immondo,  animalaccio 
vile  „,  che  "  vive  sdraiato  sulla  riva  della  morta 
gora  „,  che  "  gracida  „,  che  "  schizza  il  ve- 
leno a  chi  lo  tocca  „,  che  incanta  il  solito  usi- 
gnuolo ecc.  ecc.,  e  poi  si  vanta, 

....  È  più  di  mille 
Secoli  che  nel  mondo 
Nessun  t'ha  ricordato, 
Brutto  rettile  immondo. 

Non  è  vero,  signor  Alberti:  Ella  ménte.  Io  Le  ri- 
cordo che  il  povero  calunniato  e  torturato  animale 
fu  rivendicato  da  Vittore  Hugo  in  versi  immor- 
tali, dove  r  asino  almeno  ha  pietà  di  lui;  Le  ricordo 
che  io  nell'Intermezzo,  pubblicato  dello  scorso 
febbraio  nella  Rassegna  Settimana/e  di  Firenze, 
introdussi  il  rospo  vero,  il  rospo  innocente,  il 
rospo  utile,  a  giudice,  guardi  un  po'  Lei,  de'  poeti 
idealisti.  Passa,  ne'  miei  versi,  un  poeta  idealista 
facendo  e  dicendo  sue  scede  alla  natura  e  al 
proprio  io: 

Due  rospi  intanto  all'  orlo  della  strada. 

Benefici  e  modesti, 
Séguitan  liberando  la  contrada 

Dagl'insetti  molesti. 
L'un  dice:  Nelle  età  che  molte  e  lente 

Ci  passar  su  '1  groppone, 
Vedestu  mai,  fratel  mio  paziente. 

Un  tal  fior  di  cialtrone  ? 


PER  LA  POESIA 


PER    LA    LIBERTA 

DISCORSO 

AGLI    ELETTORI   DEL   COLLEGIO   DI    I.UGO 
NEL   BANCHETTO    OFFERTOMI   IL   19   XOVK.MRRE    1876 


Dal    Lavoro    di  Lugo  26  novembre  1876; 

in  C  o  n  f  e  s  s  i  0  n  1   e   Battaglie   di  G.  C  l'i  ser., 

Roma,  Sommaruga,  1883. 


Elettori  del  collegio  di  Lugo! 
Cittadini  di  Romagna! 


opo  che  con  pochi  uomini  egregi 
di  tutte  le  sezioni  di  questo  col- 
legio mi  ebbero  offerta  la  candida- 
re tura  di  vostro  rappresentante  ai 
parlamento  della  nazione,  dopo  che  io  V  ebbi  ac- 
cettata, io  né  a  voi  mi  rivolsi,  né  mi  feci  più 
vivo  con  loro.  Credei  debito  a  me,  credei  degno 
di  voi,  non  frapporre  né  meno  V  ingerenza  d'  una 
parola  tra  me  e  il  vostro  vóto.  Il  mio  nome,  sia 
detto  con  la  m^odesta  franchezza  conveniente  ad 
uomini  liberi,  significava  pur  qualche  cosa;  e  per 
ciò  a  punto  quei  vostri  cittadini  ve  lo  avevan 
proposto.  Il  mio  manifesto  politico  era  ne'  miei 
scritti,  qualunque  sieno;  nella  mia  vita,  che,  oscura 
e  solitaria  com'  è,  è  pur  nota  a  bastanza  a  Bolo- 
gna e  alla  Romagna.  Io  volli  lasciarvi  pienamente 


Carducci.  4. 


21 


322  PER   LA   POESIA 

e  puramente  liberi  nel  vostro  giudizio.  Ora  che 
la  maggioranza  del  collegio  mi  ha  giudicato  ed 
elettO;  io  vi  ringrazio  (applausi). 

Io  vi  ringrazio,  o  elettori  di  Lugo,  e  sono  su- 
perbo che  mi  abbiate  giudicato  degno  di  rappre- 
sentare un  collegio  di  questa  nobile  Romagna, 
e  propriamente  il  collegio  che  mandò  alla  Con- 
stituente  romana  Giuseppe  Mazzini  (vivissimi  ap- 
plausi). Da  che  toccai  queste  terre,  da  che  nelle 
fronti  calme  e  pensose  degli  uomini  scampati  alle 
prigioni  e  alle  galere  del  papa,  nel  dolore  rasse- 
gnato e  glorioso  delle  vedove  e  degli  orfani  di 
quelli  che  caddero  intorno  alle  mura  di  Roma,  di 
quelli  che  morirono  per  la  mannaia  dei  preti  o  per 
il  piombo  degli  stranieri,  ebbi  ammirato  la  storia 
della  guerra  da  voi  guerreggiata  continua  con  la 
peggior  tirannia  che  abbia  mai  contristato  l'Italia; 
da  che  nella  baldanza  dei  giovani,  i  quali  si  ver- 
sarono come  torme  di  leoni  in  tutte  le  patrie  bat- 
taglie, io  vidi  splendere  con  empito  primitivo  tanto 
entusiasmo  d'ogni  alta  cosa,  tanta  ardenza  di  vita 
nuova;  da  allora  il  mio  cuore  fu  sempre  con  voi, 
o  Romagnoli  (applausi).  E  vidi  in  questo  popolo 
tanta  saldezza  di  persuasioni  e  di  propositi,  e  un 
cosi  maturo  senso  civile,  e  la  disposizione  alla 
vita  pubblica  e  la  serietà  del  prendervi  parte  e 
r  istinto  della  discipHna  cosi  innato  e  comune  e 
gagliardo,  che  mi  apparve  giustissimo  il  giudizio 
di  Massimo  d'  Azeglio,  l' Italia  aver  molto  da  spe- 
rare e  da  contare    su  questo   popolo;  e  credei  e 


E    PER    LA   LIBERTA.  323 

credo  che  voi  portiate  degnamente  un  avanzo 
del  nome  di  Roma,  e  molta  parte  della  virtù 
quirite  in  voi  sapravviva  (applausi).  Oltre  che, 
nelle  ricordanze  della  mia  vita  io  ritrovo  un 
vincolo  tutto  intimo  che  a  voi  mi  congiunge, 
un  sentimento  che,  non  senza  vanità  forse,  mi 
porta  ad  amare  la  Romagna,  come  mia  patria 
seconda,  come  patria  elettiva.  Tra  voi  la  mia  fa- 
coltà poetica  si  rafforzò  e  tentò  un  secondo  e  più 
largo  volo.  Quando  sentii  i  cuori  della  gioventù 
romagnola  battere  con  simpatia  d' assentimento 
a'  miei  sensi,  quando  vidi  dagli  occhi  loro  riper- 
cuotermisi  raddoppiata  la  luce  de*  miei  fantasmi; 
io  ripresi  fiducia,  e  dissi  trepidamente  a  me  stesso: 
Anch'  io  son  poeta  (vivissimi  applausi). 

Ahi!  ma  la  poesia  a  punto  è  la  macchia  ori- 
ginale, che,  secondo  i  nostri  avversari,  mi  esclude 
dalla  casta  politica.  Veramente  i  nostri  avversari 
sono  d'  accordo  con  Platone,  che  primo  bandi  i 
poeti  dalla  repubblica.  Ma  quella  repubblica  pla- 
toniana  era  più  lirica  d'  un'  ode  di  Pindaro  ;  e  a 
Platone  poi  pareva  che  non  disconvenisse  ai  filo- 
sofi il  disputare  su  '1  logos  nelle  corti  dei  tiranni 
di  Sicilia.  Solone,  per  contro,  componeva  elegie, 
e  pure,  potendo  farsi  tiranno  della  patria,  la  do- 
tava in  vece  d' una  constituzione  che  fece  la  gloria 
e  la  grandezza  di  Atene.  Gittandoci  in  faccia, 
come  qualificazione  di  inabilità  politica,  il  nome 
di  poeta,  gli  avversari  mostrano  di  non  conoscere 
altra  poesia  che  quella  d'Arcadia.  E  non  ricordano 


324  PER   LA   POESIA 

qual  tempera  di  cittadino  fosse  Giovanni  Milton, 
che  fece  con  potenti  scritti  1'  apologia  del  popolo 
d'  Inghilterra  contro  le  usurpazioni  dello  Stuart. 
E  non  ricordano  che  la  Germania  mandò  a  di- 
scutere nel  parlamento  di  Francfort  le  leggi  della 
sua  nazionale  riconstituzione  Ludovico  Uhland, 
per  il  merito  di  avere  gloriosamente  cantato  le 
tradizioni  e  le  aspirazioni  del  suo  popolo  e  dotta- 
mente illustrato  la  storia  della  poesia  tedesca; 
e  il  nobile  vecchio  poeta  fu  pari  alla  sua  gloria 
e  degno  della  fiducia  della  patria,  sopportando 
magnanimo  i  maltrattamenti  della  violenza  mi- 
litare che  disciolse  gli  ultimi  avanzi  dell'  Assem- 
blea nazionale.  E  non  ricordano,  che,  caduta 
neir  ignominia,  per  gli  errori  di  un  dottrinario, 
Francesco  Guizot,  la  monarchia  borghese  di 
Luigi  Filippo,  un  poeta,  il  Lamartine,  oppose 
per  intiere  giornate  la  sua  eloquenza  ed  il  petto 
ai  furori  di  piazza,  e,  a  rischio  della  fama  e 
della  vita,  salvò  almeno  Y  onore  francese  e  la 
bandiera  tricolore.  E  in  Italia,  per  aver  fatto  dei 
versi  che  non  dispiacciono,  ci  si  vorrebbe  to- 
gliere i  diritti  civili!  in  Itaha!  (bene).  Presento 
quel  che  mi  possono  opporre  gli  avversari  —  Ma 
voi  non  siete  né  il  Milton  né  l'Uhland  né  il  La- 
martine. —  Né  voi,  che  bandite  i  poeti  dallo 
stato,  siete  Fiatoni  (ilarità  e  applausi). 

Ma  lasciamo  gli  epigrammi  e  le  recriminazioni. 
Voi,  o  elettori,  confidandomi  il  mandato  del  col- 
legio   di    Lugo,    avete    dimostrato:    che  in  Italia, 


E    PER    LA    LIBERTA.  325 

dove  Dante  Alighieri  ragionò  e  propugnò  nel  me- 
dio evo  la  indipendenza  dello  stato  dalla  chiesa, 
dove  Ludovico  Ariosto  governando  una  provincia 
sapeva  infrenare  i  banditi  e  scrivere  al  principe 
—  Finch'  io  starò  in  questo  ufficio  non  sono  per 
avervi  amico  alcuno  se  non  la  giustizia  — ;  in  Italia, 
dove  Vittorio  Alfieri  inaugurò  il  risorgimento  della 
nazione,  e  Ugo  Foscolo,  svelando  con  severo  in- 
gegno e  cuor  securo  e  pietoso  le  piaghe  della  pa- 
tria, fondò  quella  letteratura  civile  che  fu  gran 
parte  della  nostra  rivoluzione;  voi,  dico,  o  elet- 
tori, avete  dimostrato  che  in  Italia  seguire  quei 
grandi  esempi,  amare  un'  arte  che  fu  gloria  della 
nazione,  amarla  quanto  la  patria,  e  coltivarla  con 
mente  fedele,  con  animo  disinteressato,  con  liberi 
spiriti,  con  mani  pure,  non  è  tal  colpa  per  cui 
un  uomo  abbia  a  soffrire  la  diminuzione  civile 
(applausi  replicati). 

L'  onorevole  presidente  del  Consiglio  dei  mi- 
nistri nel  discorso  di  Stradella  invocava  con  no- 
bili e  italiani  sensi  l' Italia  intellettuale,  l' Italia 
dello  spirito;  e  affermava  che  un  paese  non  vive 
solamente  di  armi,  di  pane,  di  milioni,  ma  si  an- 
che di  anima  e  di  pensieri.  Voi,  elettori  di  un  col- 
legio ricco  e  fiorente  d'  agricoltura  e  d' industria, 
eleggendo  a  vostro  deputato  un  cultor  delle  let- 
tere, affermate  lo  stesso  :  affermate  che  l' Italia 
oggi,  come  una  volta,  vuole  lo  svolgimento  in- 
tellettuale insieme  con  1'  economico,  la  industria 
e  il    commercio    insieme    con  1'  arte,  il  benessere 


326  PER    LA    POESIA 

non  senza  T  aureola  della  poesia.  Io  per  me  son 
poca  cosa:  ma  il  vostro  vóto,  qui,  tra  la  tomba 
di  Dante  e  la  culla  di  Vincenzo  Monti,  è  nobile, 
è  degno.  Io  ve  ne  ringrazio,  o  elettori:  non  per 
me,  non  per  me,  vi  ripeto  ;  ma  per  i  nostri  grandi 
scrittori,  per  i  miei  immortali  maestri,  che  sono 
i  geni  della  nazione,  i  quali  voi,  nel  nome  di  un 
umile  discepolo,  avete  italianamente  onorato  {ap- 
plausi prolungati) . 

Se  non  che,  fosse  sola  la  mia  colpa  la  poesia  ! 
Altra  ve  n'  è,  e  peggiore.  Mi  accusano  repub- 
blicano. Si,  io  sono  repubblicano  (scoppio  di 
fragorosi  e  replicati  applausi).  E  repubblicano 
divenni  non  per  rapimento  giovanile  né  per  di- 
spetti eh'  io  avessi  co  '1  governo  dei  moderati.  Che 
anzi  del  governo  dei  moderati  io  personalmente 
non  avrei  che  a  lodarmi.  Mi  chiamarono,  ancor 
molto  giovine,  senza  che  io  ne  li  chiedessi,  a  in- 
segnare in  una  delle  prime  università:  mi  diedero 
anche,  sempre  non  richiesti,  altre  onorificenze  e 
commissioni  didattiche:  un  solo  torto  mi  fecero, 
e  ben  lieve,  e  scusabile  in  tempi  di  tanta  conci- 
tazione di  partiti.  Né  prima  io  avevo  partecipato 
ad  associazioni  politiche,  né  vi  presi  parte  poi, 
per  un  pezzo.  La  mia  gioventù  fu  tutta  negli 
studi;  e  nella  solitudine  degli  studi  nacque,  crebbe, 
si  afforzò  in  me  la  idea  repubblicana.  Il  sessanta 
mi  lasciò  democratico  monarchico,  il  sessanta- 
sette mi  trovò  repubblicano.  Ma  la  repubblica  mia 
non  è  la  repubblica   per   sorpresa:  anche  questa 


E   PER   LA   LIBERTA.  327 

potrebbe  sorgere  a  certi  momenti,  ma  non  è  la 
più  desiderabile  ai  veri  repubblicani;  come  troppo 
difficile  a  mantenere  e  ad  assodare.  E  né  meno 
è  la  repubblica  oligarchica  d'  un  partito  anche  ot- 
timO;  e  tanto  meno  la  repubblica  dittatoria  d'  una 
fazione.  Non  per  questo  io  credo  che  quella  della 
repubblica  sia  solamente  questione  di  forma:  la 
repubblica,  per  me,  è  T  esplicazione  storica  e  ne- 
cessaria e  r  assettamento  morale  della  democrazia 
ne'  suoi  termini  razionali  :  la  repubblica,  per  me, 
è  il  portato  logico  delF  umanesimo  che  pervade 
oramai  tutte  le  instituzioni  sociali  (applausi).  Tale 
essendo  per  me  la  repubblica,  è  naturale  che  essa, 
questo  governo  di  tutti  per  tutti,  deve  uscire  dalle 
persuasioni  della  maggioranza;  e  dai  vóti  della 
maggioranza  io  T  aspetto  e  spero  non  s' abbia  a 
dir  col  poeta, 

Qual  di  te  lungo  qui  aspettar  s'è  fatto! 

Per  intanto  io  credo  con  Giuseppe  Mazzini,  cosi 
grande  filosofo  come  repubblicano,  che  "  corra 
obbhgo  più  ai  repubblicani  che  ad  altri  d'insegnare 
il  rispetto  al  dogma  della  sovranità  popolare  e 
di  sottomettersi  „.  E  anche  credo  che  sarebbe 
consiglio  non  buono,  se  dessimo  ascolto  a  coloro 
i  quali  (sono  sempre  parole  di  Giuseppe  Mazzini, 
che  li  riprovava  già  nel  Pensiero  ed  Azione) 
"  avrebbero  voluto,  che,  serbandoci  puri  da  ogni 
concessione  all'  errore  e  gittato  anatema  sopra  a 
ogni  cosa  che  non  fosse  repubblica,  ci  fossimo  ri- 


328  PER    LA   POESIA 

tratti  ravvolti  nel  manto  della  nostra  fede,  e,  come 
Trasea  Peto  usci  del  senato,  fossimo  usciti  del- 
l' arena  dei  fatti  isolandoci  ed  aspettando  giustizia 
dal  tardo  avvenire  „.  Lo  stato,  la  patria,  è  cosa 
di  tutti;  e  un  partito  come  il  repubblicano,  che 
tanto  sangue  ha  sparso  per  questa  patria,  che 
questo  stato  ha  cementato  con  tanta  abnegazione 
(  io  parlo  dei  maggiori  di  me  ),  non  può,  non  vuole, 
non  deve  abbandonare  la  patria  e  lo  stato  a  posta 
di  tutti  gli  altri  (vivi  applausi).  Rivendichiamo 
il  nostro  posto  nella  rappresentanza  nazionale, 
in  cui  tutti  debbono  entrare  gli  elementi  della 
vita  politica  del  paese  (vivi  applausi).  E  noi 
siamo  vivi;  e  anche  noi  abbiamo  il  diritto  dì 
vedere  questo  stato  come  lo  maneggiate,  e  dir- 
vene  il  parer  nostro  e  farlo  valere  (reiterati  ap- 
plausi). So  che  uomini  venerandi,  e  da  me  vene- 
rati, tengono  altra  opinione,  e  credono  che  la 
parte  repubblicana  non  possa  entrare  in  parla- 
mento senza  perdere  dell*  integrità  sua,  pur  non 
conferendo  nulla  al  vantaggio  della  patria.  Io  non 
intendo  di  lasciare  la  mia  fede  su  la  porta  della 
Camera  dei  deputati,  e  dentro  la  Camera  spero  di 
non  dimezzarmi  (bravissimo,  viva  Carducci).  Ma 
se  anche  dovessi  nella  pericolosa  prova  soccom- 
bere, se  anche  il  mio  partito  avesse  a  respin- 
germi nel  giorno  della  vittoria,  io  saluto  ancora, 
con  l'anima  piena  di  fede,  il  nostro  ideale:  — Ave, 
respublica,  morituri  te  salutant  —  (prolungati 
applausi). 


E    PER    LA    LIBERTA.  329 

Dissi  onde  vengo:  dirò  a  che  vado.  Non  starò 
a  dirvi  che  in  parlamento  io  non  sarò  mai  per 
sanare  co'l  mio  vóto  a  qualsiasi  ministero  enor- 
mezze  come  quelle  di  Villa  Ruffi  (bene!  ap- 
plausi); voi  potreste  rispondermi  —  Sciagurato! 
chi  ti  ha  dato  il  diritto  di  tenere  noi  e  te  in  cosi 
picciol  conto  da  proclamarci  in  faccia  che  tu  non 
sarai  un  cortigiano  di  tirannidi?  (benissimo)  — - 
E  né  pure  vi  farò  un'esposizione  di  tesi  economi- 
che e  finanziarie:  sono  troppo  recente  di  poesia^ 
e  voi  non  mi  credereste:  ma  certe  questioni  vi 
prometto  di  studiarle,  prima  di  dare  il  mio  vóto. 
Le  riforme  tributarie;  amministrative,  politiche, 
enunziate  nel  discorso  di  Stradella,  mi  paiono 
serie  ed  oneste,  e  tanto  più  con  le  esplicazioni 
che  un  autorevole  capo  della  sinistra  intende  re- 
carvi. Ma  non  sono,  come  lo  stesso  onorevole  De- 
pretis  riconosceva,  le  colonne  d'  Ercole:  le  colonne 
d'  Ercole  oramai  sono  men  che  un  mito,  una  meta- 
fora. Io  voterò  le  riforme,  in  quanto  le  riforme  im- 
portano libertà,  e  nella  libertà  è  il  vero  progresso* 
Libertà,  libertà  anzi  tutto  :  T  Italia  è  assetata  di  li- 
bertà; libertà  in  cui  ha  da  svolgersi  la  vera  sua 
vita,  economica,  industriale,  comunale,  regionale^ 
politica,  intellettuale;  libertà,  per  cui  tanto  com- 
battemmo; libertà,  che  tante  volte  ci  fu  promessa^ 
e  non  ancora  la  conseguimmo  intera  e  sincera: 
libertà,  di  cui  siamo  degni  (frenetici  applausi), 
E  tanto  più  alzo  la  voce  per  la  libertà  quanto  più 
della   libertà    si   fece  in  queste    provincie   iniquo 


33°  PER    LA    POESIA 

Strazio  (applausi).  Io  vi  prometto  che,  se  sarà  il 
caso,  reclamerò  dal  governo  tra  noi  eguale  trat- 
tamento per  tutte  le  persone,  per  tutte  le  opi- 
nioni, per  tutte  le  associazioni  che  si  affermano 
e  si  dimostrano  onestamente  e  legalmente  (ap- 
plausi). Riforme  dunque,  in  quanto  le  riforme  ci 
devono  portare  maggior  libertà,  e  nella  libertà  ha 
da  svolgersi  il  progresso.  Ma  il  progresso  per  me 
è  illimitato.  Nessuno  venga  a  dirmi:  si  avanzerà 
fin  qui.  Che  ne  sa  egli?  che  ne  so  io?  Io  solamente 
auguro  che  il  nostro  progresso  sia  degno  delle  tra- 
dizioni e  dei  fati  d' Italia  !  (fragorosi  applausi). 

\J  ItaHa!  Mi  hanno  accusato  di  averla  chiamata 
vile!  E  non  ricordarono  (se  non  fosse  troppo  in- 
nocente ed  ingenuo  appellarsi  alla  memoria  degli 
avversari),  e  non  ricordarono,  per  un  verso  solo, 
le  molte  pagine  di  prosa  nelle  quali  vendicai  da 
ingiustizie  di  stranieri  e  di  nostri  l' Italia,  l' Italia 
che  io  salutavo  cara  e  santa  patria  (applausi 
vivissimi).  Quando  un  governo  italiano  lasciò 
operare  su'  petti  di  cittadini  italiani  le  meraviglie 
dei  chassepots  (applausi),  quando  delle  zolle  in- 
sanguinate di  Mentana  e  delle  fosse  dei  nostri 
martiri  certi  moderati  non  seppero  farne  altro  che 
tanti  banchi  di  barattieri  (applausi),  allora  io 
chiamai  vile  la  patria:  ma  non  la  patria  di  Dante, 
di  Mazzini,  di  Garibaldi;  non  la  patria  dei  glo- 
riosi, non  la  patria  dei  martiri;  si  la  patria  di 
quei  signori  (vivi  e  prolungati  applausi).  Oh, 
non    è  da    cercare   nella  parte  nostra  chi  disami 


E   PER   LA   LIBERTA. 


331 


la  patria.  Noi  possiamo  giurare,  che  non  diremo 
mai  noi  :  Perisca  o  s'  avvilisca  la  patria,  purché 
trionfi  la  parte.  All'  Italia,  dunque,  alla  immor- 
tale, alla  gloriosa  Italia,  o  elettori,  io  v'  invito  di 
bere  :  all'  Italia  !  (applausi  prolungatissimi) 


l 


ETERNO  FEMMININO  REGALE 


Dalla   Cronaca   Bizantina   del  1»  gennaio  1882: 

nell'opuscolo   Eterno   Femminino   regale   diG.  C 

Roma,  Sommaruga,  1882; 

e  in   Confessioni   e   Battaglie    diG.  C,  ser.  3», 

Roma,  Sommaruga,  1884. 


RA  un  venerdì   sera;   e   per  il   de- 


^  serto  scenario  dei  portici  di  Strada 
Maggiore  frizzava  acuto  il  presen- 
timento della  neve  che  le  nuvole 
con  immensa  malinconia  andavano  meditando  nel 
cielo. 

Tornavo  a  casa  in  compagnia  di  Luigi  Lodi, 
e  si  discorreva  dell'  entusiasmo  lasciato  nella  po> 
polazione  di  Bologna  dalla  visita  del  Re  e  della 
Regina.  Questa  popolazione  che  fece  cosi  fiera 
solitudine  per  la  città  e  in  Italia  con  lo  sciopero 
del  marzo  1868;  che  fu  cosi  ostentatamente  fredda 
al  passaggio,  pochi  mesi  dopo,  de'  due  novelli 
sposi  di  casa  Savoia,  con  quanta  espansione  cor- 
diale e  con  quale  rumorosa  famigliarità  non  si 
era  ella  accalcata  intorno  al  passo  dei  novelli 
Reali!  Inutile   negare   il   fatto    o   girarvi    intorno- 


33^  ETERNO    FEMMININO    REGALE. 

con  arzigogoli  miseri  e  con  isbocconcellamenti 
dispettosi:  cosi  fu.  Né  le  ragioni  mancavano: 
splendida  tra  le  prime  T  eterno  femminino,  la 
maestà  della  Regina:  tra  le  seconde,  la  ministe- 
rialità  di  Benedetto  Cairoli. 

E  passammo  a  discorrere  della  risposta  che  il 
Fanfulla  del  giorno  (15  novembre  1878)  aveva 
fatto  a  una  mia  lettera. 

Questa  la  lettera. 


Bologna  10  novembre. 


Onorevole  signor  direttore 
della  Patria, 


Il  Fanfulla  d' oggi,  riportando,  dal  giornale 
che  V.  S.  dirige,  alcuni  particolari  del  mio  in- 
conU'o  con  le  Maestà  del  Re  e  della  Regina, 
aggiunge  commenti  che  può  parere  opportuno 
rettificare. 

Il  Fanfulla  scrive:  "  Il  professore  Carducci 
avrà  veduto  che  il  soldato  di  Villafranca  può 
essere  giudicato  in  un  modo  un  po' più  benevolo 
di  quello  che  ha  usato  qualche  volta  una  musa 
imbizzita  „. 

Se  la  "  musa  imbizzita  „  volesse  retoricamente 
significar  me,  io  pregherei  il  Fanfulla  a  ricercare, 
non  pur  ne'  miei  versi,  ma  nelle  prose,  un  pe- 
riodo qualunque,  nel  quale  sia  espresso  un  giu- 
dizio qualunque  su  Umberto  principe  o  su  Um- 
berto re. 


ETERNO   FEMMININO   REGALE.  337 

Ancora  :  il  Fanfulla  accenna  all'  "  onore  della 
patria  e  a  quello  della  croce  di  Savoia,  che  brilla  sul 
petto  di  qualche  grande  poeta  lealmente  accolto  „. 
Ecco:  se  quel  grande  poeta  fossi  io  (me  ne  sa- 
prebbe male  per  il  qualificativo  di  "  grande  „),  nes- 
suno ha  veduto  mai  brillare  su'l  mio  petto  nessuna 
cosa.  Io  non  potei,  con  mio  dispiacere,  accettare 
r  insigne  onorificenza  della  croce  del  merito  ci- 
vile, per  ragioni  che  possono  essere  valutate  da 
chi  mi  conosce.  La  mia  rispettosa  rinunzia  fii 
mandata  all'  onorevole  Ministro  dell'  interno  nel 
luglio  passato. 

Sono  dolente  di  intrattenere  il  pubblico  con 
queste  che  possono  anche  parere  dichiarazioni  o 
vanterie  volgari.  Ma  la  colpa  non  è  mia.  E  se 
Vostra  Signoria  vorrà  pubblicarle  come  rettifica- 
zioni, le  ne  sarò  molto  grato;  come  le  sono,  con 
vera  stima,  ecc.   ecc. 

Il  Fanfulla  aveva  risposto:  "  Confesso  la  mia 
ignoranza:  non  sapevo  che  il  prof.  Giosuè  Car- 
ducci avesse  ricusato  la  onorificenza  della  croce 
di  Savoia  al  merito  civile,  perché  non  s'  è  letto 
su  nessun  giornale  :  sapevo  che  la  croce  di  Savoia 
egU  l'ha  cantata;  e  non  mi  pareva  che  l'averla 
cantata  fosse  una  ragione  per  rifiutarla.  È  vero 
che  al  mondo  si  può  perdonare  tutto,  meno  il 
proprio  torto  „.  E  alludendo  a  una  mia  frase  un 
po'  brusca.  Né  aspetto  né  vorrei  cortesie  dai  ne- 
mici, conchiudeva  "  Io  amo  di  essere  diverso  da 

Carducci.  4.  22 


338  ETERNO    FEMMININO   REGALE. 

lui;  e  di  fargli  ciò  che  in  linguaggio  giornalistico 
si  chiama  appunto  la  cortesia  di  accogliere  e  di 
stampare  la  sua  rettificazione.  Sono  realista,  non 
sono  repubblicano,  e  imito,  dove  si  può,  il  mio 
re  che  è  stato  cortese  di  una  croce  a  un  nemico 
che  non  la  vuole  „. 

Ora  di  tutto  ciò  che  di  me  può  parere  mi 
addolora  solo  e  anzi  tutto  V  apparire  ingrato  e 
disobbligante  a  chi  m'  abbia  fatto  segno  di  bene- 
volenza e  di  attenzione.  E  veda,  dicevo  a  Luigi 
Lodi,  se  io  non  fossi  io,  cioè  il  poeta  (come  mi 
chiamano)  della  democrazia,  poco  mi  ci  vorrebbe 
per  mostrare  a  questi  monarchici  borghesi  come 
uno  può  esser  cavaliere  senza  aver  mai  a'  suoi 
giorni  portato  una  croce. 

Faccia  un'  ode  alla  Regina  —  dice  Luigi  Lodi. 

Chi  sa?  —  rispondo  io. 

La  mattina  dopo  gittai  giù  le  prime  strofe 
dell'  ode  alla  Regina  d' Italia. 


IL 


E  ora  un  passo  a  dietro,  a  Ravenna. 

A  Ravenna,  dove  io  era  il  6  giugno,  per 
r  inaugurazione  del  monumento  al  Farini,  rappre- 
sentando la  Deputazione  storica  romagnola  insti- 
tuita  già  dal  dittatore,  rividi,  per  la  prima  volta 
da  che  ministro.  Benedetto  Cairoli.  O,  a  dir  me- 
glio, egli  primo  vide  me;  e  per  la  sala  affollata 
di  deputati,  di  senatori,  di  generali,   mi  corse  in- 


ETERNO  FEMMININO  REGALE.         339 

contro  con  quella  sua  bella  faccia  serena  com^ 
un  maggio  di  Lombardia,  e  mi  abbracciò;  e  mi 
strinse  forte  le  mani  guardandomi  in  viso,  e  mi 
batté  su  le  spalle;  e  trattomi  in  disparte,  e  chia- 
mati a  sé  gli  onorevoli  Baccarini  e  Zanardelli, 
tutti  tre  mi  furono  a  dosso  a  mezza  spada  perché 
mi  rendessi  alla  croce  del  merito  civile  di  Savoia. 
Io  risposi:  ci  pensassero  su  dell'altro,  e  vedreb- 
bero che  si  per  me  si  per  loro  il  meglio  sarebbe 
non  ne  far  nulla. 

La  sera  al  tardi  rividi  gli  onorevoli  Baccarini 
e  Zanardelli  in  un  ritrovo  di  progressisti  a  cena 
Con  i  progressisti  di  Ravenna  si  può  anche  an- 
dare a  cena,  senza  pericolo  che  vi  appioppino  su 
le  spalle  un  macigno  di  discorso  politico  o  vi 
facciano  scattare  in  faccia  qualche  macchinetta 
elettorale.  E  li  in  mezzo  a  tutti  quei  progressisti, 
di  colore  anzi  che  no  acceso,  e  taluno  anche,  se 
volete,  repubblicano  largo  a  cintura,  il  Zanardelli, 
con  quel  suo  fare  tra  dinoccolato  e  nervoso,  co- 
minciò a  movere  il  discorso  su  la  grande  pene- 
trazione d'ingegno  e  la  squisita  coltura  di  S.  M. 
la  Regina.  E  poi,  con  un  atto  di  testuggine  ri- 
traendo il  collo  per  entro  le  spalle  quasi  per  non 
parere  d'  esser  lui,  seguitò  della  molta  stima  in 
che  ella  aveva  i  versi  del  Carducci  e  specialmente 
le  odi  barbare.  A  questo,  riallungando  il  collo  e 
volgendo  in  qua  e  in  là  la  testa  fine  e  la  fronte 
irrequieta,  come  un  baco  da  seta  che  vada  al 
bosco   (chiedo   perdóno   all'autore    della   riforma 


340  ETERNO    FEMMININO   REGALE. 

elettorale^  a  cui  sono  con  molta  stima  affezionato; 
ma  per  la  fedeltà  della  descrizione  mi  abbiso- 
gnano questi  paragoni  ),  prese  a  raccontare  come 
la  Regina  ricevendolo  a  udienza  lo  salutasse  coi 
versi; 

Lieta  del  fato  Brescia  raccolsemi, 
Brescia  la  forte,  Brescia  la  ferrea, 
Brescia  leonessa  d' Italia,  ecc. 

e  poi  rifacendosi  da  capo  gli  dicesse  a  mente 
tutta  l'ode.  E  qui  mi  guardava  con  que'  suoi  occhi 
sbadatamente  interrogatori. 

Io  sorridevo.  E  il  ministro  seguitava  come  la 
Regina  conchiudesse  —  Ah  si,  il....  è  da  vero  il 
primo  dei  nostri  poeti  viventi  —  (qui  il  ministro 
è  proprio  mallevadore  lui  di  tutto).  Al  che  egli 
rispose  con  democratica  cortigianeria  —  Non  so 
se  a  tal  giudizio  rimarrebbero  contenti  altri,  ma 
non  io  oserò  contraddire  alla  Maestà  Vostra  — . 
Poi  si  passò  ad  altro  ;  ma  su  V  uscire  egli  mi 
disse  cosi  sottovoce  —  In  somma  la  Regina  vor- 
rebbe che  voi  aveste  la  croce   del   merito   civile. 

La  mattina  di  poi,  avviandomi  con  alcuni  amici 
alla  Pineta,  ci  scontrammo  nelle  carrozze  che 
traevano  i  ministri  alla  stazione.  E  Benedetto 
Cairoli  allungando  e  agitando  le  braccia  tra  i 
molti  saluti  mi  gridò  —  Dunque  è  fatto  — ;  e  il 
rumore  delle  ruote  trascorrenti  si  portò  il  resto 
e  mi  tolse  il  rispondere. 

Io  non  ci  pensava  già  più,  quando  di  li  a  un 
mese  mi  venne  il  decreto  di  nomina  con  gli  sta- 


ETERNO  FEMMININO  REGALE.         34I 

tuti  deir  ordine,  ove  è  fermato  V  obbligo  di  giu- 
rare fedeltà  al  re  e  ai  successori,  ponendo,  ingi- 
nocchiato, la  mano  destra  su  gli  evangeli,  tra  due 
testimoni,  dinanzi  al  ministro  dell'  interno,  che  ha 
da  firmare  il  verbale  del  giuramento. 

Rinunziai;  dico  vero,  con  dispiacere;  coM  di- 
spiacere di  dover  apparire,  non  essendo,  scono- 
scente a  chi  mi  tenne  non  indegno  d'  una  nobile 
onorificenza,  fatta  più  insigne  dall'  assentimento^ 
che  richiedesi  a  conferirla,  degl'  illustri  signori  se- 
denti nel  consiglio  dell'  Ordine. 


III. 


Si  che,  quando  il  rettore  dell'  Università,  un 
giorno  prima  che  i  Reali  d' Italia  arrivassero  a 
Bologna,  chiamatomi  a  sé,  cominciò  a  sollecitarmi 
che  andassi  anch'  io  alla  visita  di  ossequio,  tanto 
più  che  la  Regina  aveva  mostrato  desiderio  di 
vedermi,  ecc.  ecc.,  1'  egregio  rettore  e  amico  se- 
nator  Magni  non  ebbe  a  spendere  parole  molte. 
Che  la  Regina  volesse  proprio  veder  me,  mi 
parve  un  tiro  degli-  amici  ministeriali  per  battermi 
nel  debole  ed  espugnarmi.  Ma  io,  che  tante  regine 
aveva  cercate  e  osservate  e  studiate  nella  storia 
neir  epopea  e  nel  dramma,  era  ben  io  curioso  di 
vedere  una  regina  viva  e  vera  e  compiacentesi 
della  poesia  e  delle  arti. 

Intanto  i  Reali  vennero.  Erano  di  quelle  gior- 
nate quali  il  novembre  non  ne  dà,   credo,  che   a 


342  ETERNO    FEMMININO    REGALE. 

Bologna.  Fango  in  terra  e  fango  in  cielo:  stil- 
lanti, grondanti,  chiazzati  in  tetra  umidità  i  tetti, 
le  case,  i  muri:  cinereo  e  grigio  tutto:  e  dalla 
monotona  deformità  delle  nubi  filtrava  un'acque- 
rugiola lenta,  fredda,  ostinata^  che  non  si  vedeva 
e  immollava  V  anima,  che  non  si  sentiva  ed  em- 
pieva le  contrade  di  una  poltiglia  mobile  e  ap- 
piaccicaticcia,  lubrica  e  attaccaticcia  e  impacciante, 
come  eloquenza  parlamentare:  erano  di  quelle 
giornate  che  vien  voglia  di  dar  delle  pedate  alla 
gente  in  cui  uno  si  abbatte,  pensando  —  Guarda 
quest'altro  fango  che  anche  si  move  — .  In  quel 
brutto  vespero  dunque  del  4  novembre  la  confu- 
sione dell'  ingresso  per  via  Galliera  fu  strana.  Il 
popolo  avea  rotte  e  turbate  le  file  e  mescolati  i 
colori  officiali:  erano  aiuole  di  bianco  e  di  tur- 
chino, di  rosso  e  di  nero,  e  sprazzi  e  barbagli 
d' oro  e  d' argento  dagli  elmi  dai  galloni  dalle 
decorazioni  dai  gioielli  per  mezzo  una  gran  massa 
oscura,  una  materia  uniforme,  che  moveva  mo- 
veva mugghiando  e  trasportando  con  sé  ca- 
valli e  carrozze,  e  ufficiali  e  signore,  e,  al  di 
sopra,  le  selve  delle  bandiere  crollantisi  e  bar- 
collanti quasi  a  un  vento  invisibile.  Io  era  tra 
la  folla  che  si  pigiava  innanzi  dai  portici;  e  in 
quella  confusione  la  figura  della  Regina  mi  passò 
avanti  come  un  che  bianco  e  biondo,  come  una 
imagine  romantica  in  mezzo  una  descrizione  ve- 
rista, potente  se  volete,  ma  che  non  finisce  mai 
ed  annoia. 


ETERNO   FEMMININO    REGALE.  343 

La  sera,  nella  piazza  di  San  Petronio  e  nella 
attigua  del  Nettuno,  lo  spazio  era,  al  paragone, 
più  libero  e  V  uomo  poteva  girare.  E  quando,  on- 
deggiante per  la  fosca  storica  piazza  la  varia- 
zione dei  bengala,  uno  dei  finestroni  di  quel  pa- 
lazzo di  mattone  s'apri,  e  chiamati  dagli  applausi 
il  Re  e  la  Regina  comparvero  al  verone,  e  dietro 
loro  lo  splendore  della  sala  impallidiva  in  faccia 
alla  gran  tenebra  e  al  fantastico  alternare  e  me- 
scolare dei  tre  colori,  verde,  candido,  rosso;  quei 
due  giovani,  allora,  risalutanti  con  effusione  di 
gentilezza  il  popolo  salutante,  da  quel  luogo  ove 
i  legati  pontificii  s' affacciavano  a  spargere  le  be- 
nedizioni per  la  morte  e  le  maledizioni  e  le  im- 
piccagioni e  le  taglie  e  tutti  i  danni  e  i  disonori 
della  servitù  e  della  viltà  su  la  vita  e  su  V  Italia, 
doverono,  io  lo  sento,  toccare  il  cuore  ai  credenti 
di  fede  nelle  sorti  della  monarchia  unite  alle  sorti 
della  patria. 

Io  guardai  la  Regina,  spiccante  mite  in  bianco, 
bionda  e  gemmata,  tra  quel  buio  rotto  ma  non 
vinto  da  quelli  strani  bagliori  e  da  quel  rumore 
fluttuante.  E  una  fantasia  mi  assali,  non  ella  fosse 
per  avventura  una  delle  Ore  che  attorniano  il 
carro  di  Febo  trionfante  per  1'  erte  del  cielo,  e 
che  attratta  da  un  mago  nordico  nella  notte  del 
medio  evo  e  imprigionata  in  quel  castello  di  preti 
si  affacciasse  a  vedere  se  anche  venisse  il  mo- 
mento di  slanciarsi  a  volo  dietro  il  carro  del  dio 
risalente.  Ma  la  torre  intanto  del  Potestà  in  quel- 


344  ETERNO    FEMMININO    REGALE. 

r  emisfero  di  tenebre  superiore  si  coronava  di 
luce;  e  io  che  ho  pratica  grande  con  quei  monu- 
menti, e  ne  so,  massime  di  notte,  tutti  i  segreti,, 
vidi  Enzo  re  di  Sardegna  ritto  in  piedi  tra'  merli,, 
senza  spada  e  senz'  elmo,  appoggiata  la  sinistra 
su  lo  scudo  con  1'  aquila  nera  dell'  impero  e  la 
destra  su  '1  petto  ;  e  salutava  e  sorrideva,  biondo 
anch'  egli  e  mestamente  sereno.  San  Petronio  ta- 
ceva; se  non  che  quando  un  insolente  riflesso  di 
bengala  osava  spingersi  a  quell'  ardua  sua  fronte 
ciclopica,  cui  questa  grande  intelligenza  borghese 
vorrebbe  appiccicare  la  maschera  bianca  d' una 
facciata,  pareva  corrugarsi  di  dispetto:  il  vecchio 
gigante  ingrugnato  pensava  ancora  al  suo  piccolo 
comune  trionfatore  di  re  e  di  duchi,  e  non  cono- 
sceva o  non  volea  riconoscere. 

Gli  entusiasmi  andarono  crescendo  e  vampeg- 
giando più  accesi  il  giorno  appresso.  Ai  fuochi 
d'  artifizio  e  di  frasi  della  gente  per  bene  e  sen- 
nata  io  non  credo  e  non  bado  o  rispondo  con 
motti.  Ma  l'entusiasmo  degli  artieri,  dei  lavoranti, 
dei  facchini,  l' entusiasmo  delle  donne  e  dei  ra- 
gazzi, mi  trascina,  mi  eleva,  m'inumidisce  qualche 
volta  gli  occhi.  Ecco,  io  dico,  questa  parte  men 
ragionevole  e  men  eulta,  affermano,  della  razza 
umana,  della  razza  in  cui  il  primo  e  naturale  re- 
ciproco saluto  tra  due  individui  che  si  riscontrino 
nella  selva  primitiva  o  nella  selva  civile  è  Io  ti 
voglio  mangiare  o  Io  ti  voglio  ingannare)  questa 
parte  men  ragionevole  e  men  eulta  di  un  popolo 


ETERNO   FEMMININO   REGALE.  345 

il  quale  da  molti  e  molti  secoli  crede  (le  ecce- 
zioni confermano)  e  crede  che  oltre  e  sopra  la 
fisica  tutto  al  mondo  è  impostura  e  ciarlataneria^ 
che  bisogna  per  altro  mantenere  pur  con  la  forza 
per  amore  delle  armonie  sociali;  ecco,  questa 
parte  della  razza  feroce,  questa  classe  del  popolo 
scettico,  si  espande  ancora  spontanea  ad  amare 
e  credere  e  godere  qualche  cosa  fuori  di  sé,  che 
a  lei  non  giova;  l'ideale.  Perché,  non  mi  si  esca 
fuori  con  la  servilità,  con  la  viltà,  con  V  igno- 
ranza e  con  simili  frasi  fatte.  Quei  facchini,  quei 
ragazzi,  quelle  donne,  che  sperano  o  che  si  ri- 
promettono da  que*  due  giovani  per  sé  ?  D'  esser 
fatti  ministri,  come  voi,  repubblicani  e  papalini  e 
borbonici  dell'  altr'  ieri  ?  Di  avere  una  prefettura  o 
un  posto  di  canattiere,  uno  spaccio  di  tabacco  o- 
una  cattedra  d' economia?  No.  La  monarchia  fu  ed 
è  un  gran  fatto  storico,  e  rimane  per  molta  gente 
una  idealità  realizzata:  e  il  popolo  acclama  in 
que*  due  giovani  a  punto  una  idealità  realizzata. 
Di  due  sorte  re  ha  la  gente  ariana:  il  conntng- 
germanico,  quello  che  è  forte  ;  il  rex  latino,  quella 
che  regge  :  nel  primo,  che  vien  da  Dio,  il  popolo 
adora  chi  l'ha  fatto  forte,  Dio:  nel  secondo,  che 
procede  dall'  elezione,  il  popolo  vede  e  riconosce 
la  forma  e  il  fine  del  reggimento,  la  legge  e  la 
patria.  Ecco  tutto.  Altre  idealità  dovranno  rea- 
lizzarsi: va  bene.  O,  più  tosto,  altre  realità  avver- 
ranno, che  idealizzarsi  non  devono:  va  benissimo; 
e  vedremo. 


346  ETERNO   FEMMININO    REGALE. 

Queste  cose  io  filosofo  peripatetico  andavo 
rimuginando  sotto  i  portici  del  Pavaglione  tra  la 
folla.  E  mi  fermai  al  negozio  Zanichelli.  Dove 
indi  a  poco  entrò  un  signore,  vecchio  oltre  gli 
ottanta/  e  dimandò  volgendosi  attorno  —  Ma  dove 
sono  i  repubblicani?  In  Italia  repubblicani  non  ce 
ne  può  essere;  o,  se  ce  n'  è,  non  sono  italiani  — . 
Io  guardai  quel  vecchio  signore;  poi  volgendomi 
a.  un  giovine  dissi:  Ecco,  io  son  uno;  e  al  di  là 
delle  Alpi  credono  che  io  sia  italiano. 


IV. 


E  la  mattina  di  poi  andai  ad  ossequiare  i  Reali 
d'Italia.  La  mia  bambina  piccola  mi  disse  —  Sa- 
iutami la  Regina  — .  Ella  ha  nome  Libertà;  e 
V  augurio  fu  buono. 

Aspettando  nelF  anticamera  la  nostra  volta 
(l'anticamera  era  divisa  in  due  spartimenti,  in 
uno  gli  ufficiali,  nell'altro  gli  abiti  neri)  io  pen- 
sava meco  stesso  come  io  sapessi  benissimo  che 
fosse  un  re.  Il  re  è  un  uomo  allevato,  vestito, 
decorato,  stipendiato,  nominato  e  salutato  in  una 
maniera  convenuta,  al  quale  anche  si  presta  da 
alcuni  o  da  molti  leale  e  onorata  obbedienza  come 
da  altri  si  fanno  vili  e  perfide  adulazioni.  Ma  in 
fondo  il  re  è  un  essere  governato,  il  quale  dee 
moversi  a  posta  di  questo  e  di  quello  e  cedere  a 
esigenze  e  imperii  anche  impersonali.  Sua  Maestà 
è  il  più  governato  dei  sudditi  di  Sua  Maestà.    Io 


ETERNO  FEMMININO  REGALE.         347 

per  me  non  vorrei  esser  re,  né  meno  per  pro- 
clamar la  repubblica.  Ma  il  mondo  quale  ce  lo 
siamo  fatti  o  lo  concepiamo  e  lo  percepiamo  noi 
è  tutto  fittizio:  il  discendente  di  Prometeo,  ani- 
male plastico  e  artistico  per  eccellenza,  fa  suoi 
idoli  diversi,  e  li  vagheggia  e  adora  o  li  vitupera 
€  batte,  perché  rapito  all'  ammirazione  o  all'  odio 
della  sua  idea  nella  imagine  figurata  dimentica 
che  è  opera  sua,  o  perché  1'  ha  fatta  a  posta  per 
isfogarci  sopra  i  suoi  capricci. 

E  seguitavo  discorrendo  tra  me  e  me.  —  Io 
non  ho  per  casa  Savoia  le  antipatie,  per  esempio, 
della  democrazia  lombarda,  suggellate  in  pagine 
di  fuoco  da  Carlo  Cattaneo.  Degli  Estensi  non  ce 
ne  sono  più,  e  furon  tutti  mediocri:  i  Medici  anche 
finirono  come  doveva  finire  una  famiglia  di  ban- 
chieri illustrata  dalla  porpora  e  non  dalla  corazza: 
né  la  corazza  deterse  i  Farnesi  dalla  macchia 
originale  d'  esser  figli  di  preti.  Dunque,  se  il  po- 
polo italiano,  persuaso  non  si  potesse  unificare  la 
patria  senza  la  monarchia,  chiamò  i  Savoia,  che 
colpa  ne  hanno  essi,  amico  Alberto  Mario?  L'am- 
bizione storica  e  politica  della  dinastia  sarebbiesi 
probabilmente  hmitata  all'Italia  superiore:  noi,  noi 
stessi,  Giuseppe  Mazzini  a  capo,  la  tirammo  nel- 
r  Italia  centrale  :  il  generale  Garibaldi  le  conquistò 
il  mezzogiorno  e  la  conquistò  al  mezzogiorno. 
Ora,  grazie  a  quella  tendenza  plastica  dell'  ani- 
male umano  a  realizzare  personalmente  le  sue 
idealità  per  poterle  efficacemente  adorare  o  vitu- 


348  ETERNO   FEMMININO    REGALE. 

penare  a  sua  posta^  il  capo  della  famiglia  di  Sa- 
voia rappresenta  V  Italia  e  lo  stato.  Dunque  viva 
r  Italia  !  Valletti;  alzate  la  portiera,  e  passiamo  a 
inchinare  il  Re. 

E  la  Regina  ancora,  V  eterno  femminino. 

Ella  stava  diritta  e  ferma  in  mezzo  la  sala;  e 
il  Re,  da  parte,  verso  una  finestra,  passava,  par- 
lando accalorato  e  con  forti  strette  di  mano  a 
tutti,  di  cerchio  in  cerchio.  Benedetto  Cairoli, 
raccolto  nel  suo  giubbone  di  ministro,  s'  era  ri- 
parato in  un  canto;  e  di  li,  tal  volta  passando  la 
mano  destra  sui  mustacchi  memori  di  una  ca- 
stanea  sincerità  e  su  la  bocca  sorridente,  come 
per  accarezzarsi,  tale  altra  appoggiando  il  gomito 
sinistro  a  una  colonna,  mandava  intorno  intorno 
lo  sguardo  scintillante  di  contentezza. 

Diffuso  era  per  gli  occhi  e  per  le  gene 
Di  benigna  letizia,  in  atto  pio, 
Quale  a  tenero  padre  si  conviene. 

E  avea  ragione.  Cotesto  superstite  d'una  famiglia 
di  cittadini  morti  tutti  per  la  patria;  cotesto  cit- 
tadino che  aveva  il  solo,  assai  curioso  per  un 
soldato,  titolo  di  dottore;  cotesto  uomo  che  cam- 
minando zoppica  un  po'  sempre  e  si  appoggia  vo- 
lentieri al  braccio  di  chi  lo  avvicina;  Benedetto, 
in  fine,  come  noi  lo  chiamiamo;  in  quei  giorni 
sorreggeva  egli  e  portava  e  presentava  agli  en- 
tusiasmi del  popolo  d' Italia  la  più  antica  famiglia 
reale  d'  Europa,  due  giovani,  cui  la  morte  improv- 


ETERNO   FEMMININO    REGALE.  349 

vìsa  del  padre,  forte  ed  esperto  nocchiero,  avea 
slanciato  d' un  tratto  nel  difficile  mareggio  del 
regno  e  della  popolarità. 

La  Regina  intanto,  senza  darsene  l' aria  e  non 
essendo  nella  sala  né  men  Y  apparenza  del  trono, 
troneggiava  ella  da  vero  in  mezzo  la  sala.  Tra 
quelli  abiti  neri  a  coda,  come  si  dice,  di  rondine, 
e  quelle  cravatte  bianche,  ridicole  insegne  d' egua- 
glianza sotto  cui  r  invidia  cinica  del  terzo  stato 
accomunò  l' eroe  al  cameriere,  ella  sorgeva  con 
una  rara  purezza  di  linee  e  di  pòse  nell'  atteg- 
giamento e  con  una  eleganza  semplice  e  vera- 
mente superiore  si  dell'adornamento  gemmato  si 
del  vestito  (color  tortora,  parmi)  largamente  ca- 
dente. In  tutti  gli  atti,  e  nei  cenni,  e  nel  mover 
raro  dei  passi  e  della  persona,  e  nel  piegar  della 
testa,  e  nelle  inflessioni  della  voce  e  nelle  parole, 
mostrava  una  bontà  dignitosa;  ma  non  rideva  né 
sorrideva  mai.  Riguardava  a  lungo,  con  gli  occhi 
modestamente  quieti,  ma  fissi;  e  la  bionda  dol- 
cezza del  sangue  sassone  pareva  temperare  non 
so  che,  non  dirò  rigido,  e  non  vorrei  dire  im- 
perioso, che  domina  alla  radice  della  fronte;  e 
tra  cigUo  e  ciglio  un  corusco  fulgore  di  aquiletta 
balenava  su  quella  pietà  di  colomba.  Delle  soavità 
di  colomba,  de'  sorrisi  più  rosei,  ella,  la  discen- 
dente degli  Amidei  e  di  Vitichindo,  è  cortese  al 
popolo:  in  palazzo  è  regina.  E  se  io  le  dissi  Si- 
gnora,  non  è  vero  che  mi  correggessi  —  Volevo 
dire  Maestà,  non  sono  avvezzo    a  parlare  con  le 


350  ETERNO    FEMMININO    REGALE. 

regine  — .  Cotesto  è  un  madrigale  ignorante.  Come 
al  Re  nel  vocativo  si  dice  Sire,  cosi  alla  Maestà 
della  Regina  d' Italia  si  dice  Signora,  come  Se- 
fiora  a  quella  di  Spagna  e  Madame  a  quella  di 
Francia  quando  ce  n'  era.  Cortigiani  delle  gazzette, 
imparate  almeno  le  prime  creanze  del  servaggio. 


V. 


Tali  le  impressioni  e  le  ricordanze  che  dì  Sua 
Maestà  la  Regina  d' Italia  io  riportai  e  conservai 
da  palazzo.  Dove  gentiluomini  tutti  croci  e  co- 
lonnelli tutti  oro  mi  furono  d'intorno  con  grandi 
carezze,  e  mi  lisciavano  il  pelo  come  a  una  belva 
oramai  addomesticata.  Alcune  signore  di  Bologna 
indi  a  pochi  giorni  mi  mandarono  gentilmente 
chiedendo  volessi  scrivere  certo  indirizzo  alla 
Regina:  dovei  rispondere  che  sentivo  mancarmi 
ogni  abilità  per  tali  componimenti. 

L'ode  l'avevo  fatta  di  pensieri  e  di  sentimenti 
raccolti  in  piazza  e  per  istrada. 

Levavo  la  mano  dall'  ultimo  verso,  quando  la 
mia  figlia  maggiore  m'  entrò  nello  studio,  annun- 
ziando tutta  spaventata  —  A  Napoli  hanno  tirato 
al  Re  — .  Ecco  un  de'  danni  —  pensai  tra  me  — 
delle  idealità  realizzate. 

Quando  l'ode,  non  a  pena  pubblicata,  si  ven- 
dea  per  le  strade,  incontrai  sotto  il  Pavaglione 
Aurelio  Saffi,  e  mi  disse  —  Avete  fatto  cosa 
degna  in   tutto   della   gentilezza   italiana   — .    Ma 


ETERNO   FEMMININO   REGALE.  35 1 

un  repubblicano^  che  per  la  repubblica  ha  com- 
messo molta  prosa  lombarda  e  molti  spropositi 
di  storia,  mandavami  in  vece  a  scuola  di  dignità 
dal  Foscolo,  il  quale  pur  trovò  modo  a  cantare 
"  Madre  del  popol  suo  „  la  principessa  straniera 
moglie  al  visconte  viceré  francese,  che  diceva 
degli  italiani  non  temere  né  meno  le  pugnalate 
alle  spalle,  e  che  egli,  il  greco-italico,  paragonava 
ad  Ajace.  Qualche  onorevole  in  una  memorabile 
tornata  della  Camera  riferi  quell'ode  a  merita 
politico  di  Benedetto  Cairoli,  che  avesse  amman^ 
sato  e  conciliato  la  democrazia  nel  suo  torbido 
poeta.  Il  corrispondente  della  Perseveranza  in  vece 
affermava  che  "  al  suono  delle  odi  alcaiche  gli 
evoluzionisti  volevano  seppellire  la  monarchia  „. 
Io  credo  avesse  ragione  un  signore  che  mi  scri- 
veva da  Conegliano  per  cartolina  postale  "  Il 
sottoscritto,  avendo  letto  la  di  Lei  ode  alla  Re- 
gina e  non  avendola  capita,  ne  desidererebbe  la 
traduzione  in  prosa.  Anticipa  i  ringraziamenti  „. 
I  più,  in  fatti,  dal  repubblicano  fra'  Ghisleri  al 
gesuita  padre  Zocchi,  "  per  la  penna  che  sa  le 
tempeste  „  intesero  la  penna  d'  oca  o  vero  questa 
povera  cannella  con  la  punta  d*  acciaio  che  finisce 
di  vergare  queste  pagine  tristi.  Ah  vii  maggio- 
ranza! A  te  il  suffragio  universale,  e  tante  scatole 
di  penne  di  ferro  quante  servano  a  scrivere  al- 
trettanti romanzi  che  t' appestino  e  muoian  con 
te.  Ma  strofe  a  te,  mai.  Sciagurato  il  poeta  che 
pensi  a  te  !  Da  lui  la  strofe  alata  rifugge  su  penna 


352  ETERNO    FEMMININO    REGALE. 

d' aquila   o   d' usignolo,    cantando    Odi  profanum 
vulgus  et  arceo. 


Appendice  inserita  nel  fascicolo  Eterno  femminino  regale 
estratto  dalla  Cronaca  bisantina. 

Essendo  nella  pubblicazione  che  di  questo  scritto 
fu  fatta  la  prima  volta  nella  Cronaca  Bizantina  del 
1°  gennaio  1882  (anno  2.°,  numero  i)  occorsi  alcuni 
piccoli  errori  di  stampa,  V  autore  mandò  al  diret- 
tore di  quel  periodico  la  lettera  seguente: 

Sig.  Dr.  Pertica. 

Tant'  è.  Un'  altra  volta  mi  mandi  a  rivedere 
le  prove  di  stampa.  Ella  e  Papiliimculus  sono  i 
più  sicuri  correttori  di  stampe  (  perdóno,  oltre  gli 
altri  loro  meriti  grandi  )  che  io  mi  abbia  conosciuti. 
Ma  io  amo  vedere  il  mio  pensiero  rispecchiato 
ferocemente  e  volgarmente  nelle  bozze.  Allora 
co  '1  freno  della  memoria  ragionante  fermo  gli  er- 
rori della  penna,  che  sa,  se  non  le  tempeste,  le 
scórse. 

Il  re  che  è  stato  cortese  di  una  croce  a  un 
nemico  che  la  vuole  „  (pag.  i,  colonna  4).  Cosi, 
secondo  la  stampa  o  la  mia  cattiva  copia,  direbbe 
il  Fanfulla.  Ma  Fanfulla  non  fu  tanto  spiritosa- 
mente maligno.  "  Che  non  la  vuole  „,  disse  Fanfulla. 


ETERNO   FEMMININO   REGALE.  353 

"  Di  due  sorte  ne  ha  la  gente  ariana  „  (pag.  2, 
col.  3).  Di  che?  "  Idealità  realizzate  „  sarebbero 
troppo  poche  da  vero.  Re,  re,  o  monarchi.  Sono 
troppo  pochi,  forse? 

"  O  piuttosto  altre  realità  avverranno  che  rea- 
lizzarsi non  devono  „  (  pag.  2,  col.  3  ).  Come  poco 
furono  svegli  i  giornali  cortigiani,  Corriere  della 
sera  ecc.,  a  non  capire  quanto  profitto  potevano 
trarre  da  questa  contraddizione  tautologica  !  "  Idea- 
lizzarsi „,  caro  dottor  Pertica,  "  idealizzarsi  „.  Noi 
(io  m' intendo,  e  queUi  che  pensano  come  me)  non 
abbiamo  né  avremo  bisogno  di  realizzare  il  vero 
e  il  giusto. 

"  Io  per  me  non  vorrei  essere  re  „  (pag.  2, 
col.  3).  Va  bene,  anche  perché  non  potrei.  Ma 
aggiunga  "  né  meno  per  proclamar  la  repubblica  „. 
Questo  pensavo,  e  questo  la  mia  penna  omise. 

"  Proclamar  la  repubblica  „  io  a  fra'  Ghisleri 
e  compagni?  Li  mando  in  seminario. 

P.  S.  Tra  i  compagni  di  fra'  Ghisleri,  in- 
tendiamoci, non  metto  già  lo  scrittor  del  Dovere. 
Nobile  animo,  a  cui,  pur  non  convenendo  in  tutte 
le  conseguenze  con  lui,  è  onorevole  e  caro  ri- 
cordarsi amicamente. 


La  Lega  della  Democrazia  nel  numero  34  del 
3  febbraio  1882  pubblicò  parte  di  una  lettera  in- 
dirizzata   dal  Carducci  ad  Achille  Bizzoni  a  pro- 

Carducci.  4.  23 


354         ETERNO  FEMMININO  REGALE. 

posito  di  un  articolo  che  questi  inseri  nel  numero 
6-7  gennaio  del  giornale  La  Provincia  Pavese, 

Possiamo,  per  consentimento  dell*  illustre  au- 
tore, dare  intiera  quella  lettera. 

Bologna,  26  gennaio  1879. 

Caro  amico, 

Ieri  F  altro  a  notte  tornai  da  Roma,  ieri  trovai 
tra  altri  giornali  La  Provincia  Pavese,  oggi  ti  scrivo» 

Tu  avevi  il  diritto  di  giudicare,  secondo  ti  det- 
tavano r  anima  e  la  ragione  tua,  T  ultimo  mio 
scritto;  non  avevi  il  diritto,  permettimi,  di  repu- 
tarmi leggero  e  bugiardo  e  ingiusto  e  cattivo  tanto 
quanto  mostri  avermi  reputato  pigliando  per  al- 
lusivo a  te  un  periodo  di  quello  scritto. 

Non  ne  avevi  il  diritto.  Quando  mai  io  ho 
trattato  male,  pur  leggermente,  alcuno  che  mi  ab- 
bia voluto  del  bene,  e  che  io  pochi  mesi  prima 
abbia  abbracciato  e  con  effusione  d*  animo  salu- 
tato amico? 

Hai  avuto  anche  il  torto.  Come  potevi  ricono- 
scerti in  quel  "  repubblicano  che  per  la  repubblica 
ha  fatto  molta  prosa  lombarda  „  ?  Tu  per  la  re- 
pubblica hai  fatto,  o  parmi,  qualche  cosa  di  più  e 
di  meglio. 

Arcangelo  Ghisleri,  sùbito  dopo  l'ode  alla  Re- 
gina, scrisse  nella  Rivista  repubblicana  —  tra  altre 
molte  contro  di  me  —  queste  parole  :  Che  direbbe 
lo  sdegnoso  cantore  delle  Grazie  nel  vederle  oggi 


ETERNO  FEMMININO  REGALE.         355 

buttate  in  pascolo  alla  folla  come  un  istrumentum 
regni? 

Nella  ristampa,  che  a  questi  ultimi  giorni  fece 
di  queir  articolo  nel  Preludio  di  Milano,  il  Ghisleri 
—  furbo  —  omise  quel  periodo. 

Lo  riconosci  ora  il  "  repubblicano  che  per  la 
repubblica  ha  fatto  molta  prosa  lombarda  e  molti 
spropositi  di  storia  „  e  che  mi  mandava  a  scuola 
di  dignità  dal  Foscolo? 

Non  d'  altro  mi  lagno  o  mi  giustifico.  Non  ho 
tanto  orgoglio  da  appellarmi  al  tempo^  ma  ho  dalla 
forte  anima  il  coraggio  di  esser  sicuro  del  fatto  mio. 

Addio  dal  cuore. 

E  già  che  il  signor  Bizzoni  ristampò  nella 
Provincia  Pavese  altra  lettera  che  il  Carducci 
ebbe  a  mandargli  a  proposito  di  un  giudizio  su 
r  ode  alla  Regina  inserito  nel  numero  2  del  pe- 
riodico La  Bandiera  (gennaio  1879),  cosi  la  ri- 
stamperemo anche  noi,  assensiente  Y  autore. 

Il  quale,  per  altro,  avverte  che  quella  lettera 
era  tutta  confidenziale,  né  destinata  pur  con  lon- 
tana intenzione  alla  pubblicità  (  lo  attestò  anco  il 
Bizzoni).  Ciò  a  scusa  della  intonazione  —  che 
può  parer  leggera  —  onde  sono  dette  certe  cose. 

Bologna,  19  gennaio  1879. 

Caro  Achille, 

Tu  farai  benissimo  a  non  rinnegare  lo  sciolto 
del   Foscolo,    per  tante  ragioni  che  tu  sai  da  te. 


356  ETERNO    FEMMININO    REGALE. 

e  per  una  anche  che  piace  ed  è  utile  a  me,  che 
il  verso  sciolto  fu  il  primo  de'  metri  barbari.  Che 
cosa  aveva  da  fare  nel  '500,  quando  da  prima  ap- 
parve, lo  sciolto  con  le  ottave,  con  le  terzine, 
con  le  canzoni,  coi  sonetti? 

A  te,  perché  sei  tu,  perché  cioè,  sei  Achille 
Bizzoni,  cavaliere,  benché  tu  non  abbi  o  disde- 
gni le  croci,  e  poeta,  benché  io  non  conosca  dei 
tuoi  peccati  in  verso,  e,  forse  a  punto  per  code- 
sto, poeta,  che  che  tu  ne  dica,  per  quanto  tu  per- 
seguiti, o  Saulo,  i  poveri  metri  barbari  ;  a  te  dun- 
que Achille  Bizzoni,  cavaliere  e  poeta,  io  dirò  le 
ragioni,  che  a  nessun  altro  ho  voluto  dire,  del- 
l' avere  inviato  la  strofe  alcaica  a  far  tre  giri 
augurali  intorno  a  una  bionda  testa  incoronata. 

Prima  di  tutto,  la  Regina  amava  e  sapeva  a 
mente  le  odi  barbare  :  si  compiaceva  di  ripetere  al- 
l'on.  ZanardelU  1'  ode  alla  Vittoria  di  Brescia.  Ora, 
per  un  poeta,  che  una  gentile  e  eulta  signora  lo 
approvi  è  delle  massime  soddisfazioni.  Se  questa 
signora  non  fosse  stata  la  Regina  d' ItaHa,  nes- 
suno mi  avrebbe  recato  a  colpa  di  dimostrarle  la 
mia  gratitudine.  Ora,  perché  ella  è  regina  e  io 
sono  repubblicano,  mi  sarà  proibito  d'  essere  gen- 
tile, anzi  dovrò  essere  villano? 

In  secondo  luogo,  fu  la  regina  che  persuase 
il  ministro  dell'  interno  a  darmi  1'  onorificenza  del 
merito  civile  di  Savoia.  Io  rinunziai  a  quella  ono- 
rificenza e  all'  annessa  pensione.  Dopo  ciò  mi 
pareva    di    poter    essere    libero    di  mostrare  alla 


ETERNO    FEMMININO    REGALE.  357 

Regina  che  io  le  ero  riconoscente  anche  di  quella 
che  per  lei  era  la  somma  dimostrazione  di  stima. 

In  terzo  luogo,  la  Regina  è  una  bella  e  gen- 
tilissima signora,  che  parla  molto  bene,  che  veste 
stupendamente:  ora  non  sarà  mai  detto  che  un 
poeta  greco  e  girondino  passi  innanzi  alla  bel- 
lezza e  alla  grazia  senza  salutare. 

Addio,  caro  Bizzoni.  Ti  ringrazio  e  ti  stringo 
la  mano. 


RAPISARDIANA 


Neil'  opuscolo   Carducci   e   Rapisardi. 

Bologna,  Zanichelli,  1881; 

in   Confessioni    e   B  a  1 1  a  g  1  i  e  di  G.  C,  l<i   serie, 

Roma,  Sommaruga,  1883. 


■'C/7X> 


jAn  i^r<s. 


ARIO  Rapisardi  nel  suo  poema  Lu- 
cifero, pubblicato  del  1877  a  Milano 
pe*  tipi  del  Brigola,  al  canto  xi  ha 
questi  versi  (parla  Dante  Alighieri). 


Sento  tra  una  venal  turba  chiamarmi  , 
Chi  d'alma  vuoto  e  d'onestà  digiuno 
Libertà  grida,  e  il  vulgo  aizza  all'  armi; 

E  chi  in  aspetto  di  plebeo  tribuno 
Giambi  saetta  avvelenati  e  cupi, 
E  fuor  di  sé  non  trova  onesto  alcuno; 

Idrofobo  cantor,  vate  da  lupi, 
Che  di  fiele  briaco  e  di  lièo 
Tien  che  al  mio  lato  il  miglior  posto  occupi. 


IL 


In  una  nota  dell'elegia    Al T Aurora,    pub- 
blicata   nel    Fanfulla    della    domenica    il    2   gen- 


362  RAPISARDIANA. 

naìo  1881  (anno  iii,  n.  i),  Giosuè  Carducci  av- 
vertiva: 

II  canto  degli  Aria  fu  a  posta  ritessuto  con  parecchie  ri- 
membranze degl'  inni  vedici,  dei  quali  il  professore  Kerbaker 
va  da  qualche  tempo  pubblicando  versioni  metriche,  dove  non 
so  se  più  ammirare  la  larga  e  forte  dottrina  o  la  corretta  e 
varia  facilità  e  felicità  del  verseggiare  italiano.  Di  coteste 
versioni,  e  dell'  altra  pur  bellissima  in  ottava  rima  d' un  epi- 
sodio del  Mahabhàrata,  è  un  torto  della  critica  giornaliera 
essersi  a  pena  avveduta;  ma  essa  ha  tutti  i  suoi  gusti  occu- 
pati in  certi  arcadici  impiastri  che  qualche  scempio  e  ignorante 
versaiuolo  vorrebbe  gittar  su  '1  viso  di  qualche  poeta  latino. 

E  nel  frammento  Dalle  mie  memorie,  che  fu 
del  pari  pubblicato  nel  Fanfulla  della  domenica  il 
6  febbraio  1881  (anno  iii,  n.  6),  preludeva  a 
certi  suoi  bozzetti  con  queste  parole: 

Notino  i  lettori:  io  non  fo  come  certo  arcade  cattivo  sog- 
getto, il  quale  rovescia  il  brodo  di  lasagne  de'  suoi  versi  sciolti 
su  chi  gli  ha  fatto  del  bene,  e  poi  protesta  che  la  sua  ribal- 
daggine  è  poesia,  e  della  poesia  non  rende  .conto;  io  dichiaro 
anzi  che  i  miei  bozzetti,  fatti  e  da  fare,  sono  tutti  dal  vero. 

IIL 

Luigi  Lodi  a'  primi  di  marzo  pubblicava  il  suo 
libro  Lorenzo  Stecchetti;  ricordi,  prose  e 
poesie  (Bologna,  Nicola  Zanichelli,  mdccclxxxi). 
In  proposito  della  strana  confusione  d' idee  che 
mostravano  le  scuole  poetiche  in  Italia  nella  po- 
lemica su  '1  verismo,  scrisse  : 

Gli  idealisti  giurarono  di  seguitare  —  essi!  —  la  scuola  del 
Manzoni,  del  Parini,  di  Dante;  affermarono  che  singolarmente 


RAPISARDIANA.  363 

il  loro  maestro  era  proprio  l'autore  dei  Promessi  Sposi! 
E  i  realisti  lo  credettero,  e,  per  non  essere  da  meno,  giu- 
rarono di  derivare  da  Orazio,  dal  Boccacci,  dall' Ariosto,  e 
più  modernamente  dal  Praga,  dal  Tarchetti,  dal  Rovani  e 
sino  dal  Guerrazzi^  sino  —  non  parrebbe  vero  —  sino  da 
«  queir  arcade  cattivo  soggetto  »  che  innaffia  col  brodo  lungo 
de'  suoi  versoni  frugoniani  la  tomba  di  Tito  Lucrezio  Caro 
(pag.  xii-xiii). 


IV. 


Nel  numero  117,  anno  ii,  del  periodico  Capitan 
Fracassa,  il  28  aprile  1881,  leggevasi  la  seguente 
corrispondenza  da  Catania: 

PER  RAPISARDI 

Catania,  25  aprile. 

D' una  importante  dimostrazione  è  stata  ieri  spettatrice 
Catania.  La  scolaresca  di  tutta  questa  città,  specie  universi- 
taria, giustamente  risentita,  dalla  guerra  plateale,  che,  da 
qualche  tempo,  e  più  di  questi  giorni,  vien  fatta  al  poeta  Ma- 
rio Rapisardi,  ha  voluto  dare  unanime  prova  di  affetto  al  suo 
illustre  professore.  Atteso  sotto  il  portone  dell'  università  al- 
l' ora  della  lezione,  venne  accolto  e  acclamato  entusiastica- 
mente, fra  le  grida  di:  viva  Rapisardi,  abbasso  i   detrattori l 

L'egregio  studente  Maiorana,  in  nome  dei  giovani  tutti, 
disse  brevi  ma  belle  parole,  le  quali,  oltre  a  una  solenne  pro- 
testa contro  le  calunnie,  includevano  eziandio  le  più  ampie  ras- 
sicurazioni all'  illustre  uomo  che  i  giovani  si  sarebbero  tenuti 
fortunati,  ov'  egli,  in  qualunque  modo,  avesse  voluto  giovarsi 
di  loro. 

Il  Rapisardi.  commosso,  mentre  ringraziava  di  quella  prova 
d' affetto   la  gioventù  studiosa,   aggiungeva   che,   se   alle   dia- 


364  RAPISARDIANA. 

tribe  contro  il  Lucifero  aveva  risposto  col  Lucrezio, 
anche  ora  unica  risposta  ai  suoi  detrattori  sarebbe  stata  la 
serena  concezione  del  Giobbe. 

Applausi  frenetici  interruppero  e  coronarono  tanto  le  pa- 
role del  Maiorana,  quanto  quelle  del  Rapisardi. .. 

Sin  da  quando  Mario  Rapisardi  cominciò  a  porre  su  solide 
basi  la  sua  riputazione  di  poeta  e  letterato  insigne  —  gl'in- 
vidiosi, di  cui  in  Italia,  grazie  a  Dio,  non  s'è  patito  mai  di- 
fetto, presero  a  malignare  sulle  intenzioni  puramente  arti- 
stiche del  poeta  catanese  Ma,  impotenti  da  soli,  pensarono 
bene  e  riuscirono  a  trarre  dalla  loro  un  nome  illustre,  all' om- 
bra delle  cui  grandi  ali  essi  si  rifugiarono  per  tentare  a  ogni 
costo  r  impresa  demolitrice. 

Fu  alto  egregiamente  dignitoso,  per  l'illustre  traduttore 
di  Lucrezio,  il  coprire  di  silenzio  e  d'oblio  il  ringhiare  impo- 
tente dei  botoli. 

Non  cosf  parve  ai  nostri  giovani,  i  quali  —  fieramente  ge- 
losi della  fama  di  colui  eh'  è  rappresentante  e  palladio  delle 
loro  idee  generose  —  si  credettero  in  dovere  di  prt)testare. 

E  in  questi  sensi  appunto  era  concepita  la  dimostra- 
zione.... 

Un'ultima  parola,  di  cui  sento  forte  bisogno. 

Fa  pena,  davvero,  il  vedere  ingegni  robusti,  le  più  cospi- 
cue personalità  poetiche  che  vanti  oggi  l'Italia,  guardarsi  in 
cagnesco,  senza  una  ragione  al  mondo.  Voglia  il  cielo  che  si 
muti  registro. 

Etxèo. 


V. 


Il  4  maggio  1881  (anno  i,  n.  4)    il   Don   Chi- 
sciotte, periodico  bolognese,   pubblicava  la  lettera 


RAPISARDIANA.  365 

che    segue    di    Giosuè    Carducci  al    direttore    di 
Capitati  Fracassa. 

Bologna,  3  maggio  1881. 

IH.  sig.  Direttore  del   Capitan  Fracassa, 

Solamente  ieri  sera  mi  fu  mostrato  il  n.  117 
(28  aprile  scorso)  del  giornale  diretto  dalla  S.  V., 
e  notai  in  una  corrispondenza  da  Catania  (  25 
aprile)  due  periodi,  nei  quali,  a  giudizio  di  tutti 
e  mio,  si  accenna  a  me. 

Si  dice  da  prima,  che  gì'  invidiosi  del  signor 
Mario  Rapisardi,  impotenti  da  soli,  pensarono  bene 
e  riuscirono  a  trarre  dalla  loro  un  nome  illustre^ 
all'  ombra  delle  cui  grandi  ali  essi  si  rifugiarono 
per  tentare  a  ogni  costo  V  impresa  demolitrice. 

Io  non  so  chi  siano  e  che  facciano  gli  invi- 
diosi del  signDr  Rapisardi;  so  che  io  per  me  non 
ho  ali  né  grandi  né  piccole  e  non  sono  né  il 
perdono  di  Dio  né  un  papero,  da  accettar  tutti 
e  tutto  e  da  lasciarmi  trarre  dalla  sua  a  questo 
e  a  quello.  Quando,  più  anni  fa,  il  signor  Rapi- 
sardi lasciò  stampare  in  non  so  più  qual  gior- 
nale, credo  il  Bersagliere,  certe  sue  terzine  ove 
metteva  Dante  a  dirmi  villanie,  due  miei  cono- 
scenti bolognesi,  lettori,  non  letterati,  mi  mostra- 
rono il  giornale;  e  un  amico  me  ne  scrisse  dì 
Toscana.  Queir  amico  è,  per  sua  disgrazia,  un 
letterato;  ma  vive,  non  in  Firenze,  in  Livorno,  e 
non  aveva  né  ha  ragione  veruna  d'  odio  o  d' invi- 


366  RAPISARDIANA. 

dia  al  signor  Rapisardi^  che  egli  né  conosceva  ne 
conosce,  come  né  meno  io  lo  conosco,  se  non  di 
lontano,  indicatomi.  Dopo  ciò  e  dopo  allora,  nes- 
suno facente  professione,  o  fortemente  indiziato, 
d'invidia  al  signor  Rapisardi,  mi  parlò  mai  di  lui; 
nessuno  fece  mai  pur  dalla  lontana  un  piccol 
cenno  di  mettermi  su  contro  lui. 

Si    dice    da    ultimo  :    Fa  pena //  vedere 

ingegni  ecc.  ecc.  ecc....  guardarsi  in  cagnesco,  senza 
una  ragione  al  mondo. 

Non  so  se  il  signor  Rapisardi  guardi  in  ca- 
gnesco me:  io  per  me  non  guardo  in  cagnesco 
né  lui  né  nessuno  :  io  dico  quello  che  penso.  E  i 
miei  pensieri  possono  non  piacere  al  signor  Ra- 
pisardi e  a' suoi  amici;  ma  fondati  su  ragioni 
sono,  su  molte  ragioni,  su  troppe  ragioni,  esteti- 
che e  morali.  Per  un  esempio.  Il  signor  Rapi- 
sardi, pubblicato  che  ebbe  il  Lucifero,  dove  tra 
molte  altre  cose  figurano  quelle  terzine  nelle 
quali  Dante  evocato  da  uno  spiritista  si  diverte 
a  dir  villanie  in  lingua  e  grammatica  accademica 
a  quelle  persone  che  il  signor  Fanfani  e  il  signor 
Rapisardi  avevano  antipatiche;  il  signor  Rapi- 
sardi, dico,  pubblicata  che  ebbe  la  sua  polimetra 
policroma  polimorfa  e  polisensa  rapsodia,  me  ne 
mandò  una  copia,  con  i  suoi  complimenti  in  una 
carta  da  visita.  Ecco:  sentirmi  trattar  male  per 
bocca  di  Dante  non  mi  aveva  fatto  né  freddo  né 
caldo:  ho  la  pelle  dura,  signor  Direttore:  i  miei 
connazionali    cominciarono    a    incoraggiarmi  con 


RAPISARDIANA.  367 

ingiurie  e  sciocchezze^  che  avevo  vent'  anni  :  è 
giustissimo  che  i  bene  intenzionati  seguitino  sino 
alla  fine.  Ma  vedermi  arrivare  il  libro  con  de'com- 
plimenti  dall'  autore  mi  fece  male,  non  per  me, 
per  lui.  Ciò  che  io  gli  scrissi  allora  e  ciò  che  egli 
mi  rispose,  il  signor  Rapisardi  lo  sa;  e  sa  ciò 
che  egli  scrisse  a  me  nel  passato  mese  e  come 
gli  risposi  io. 

E  qui  avrei  finito,  se  non  dovessi,  per  dile- 
guare e  distruggere  tutte  le  preoccupazioni  e 
tutti  i  pregiudìzi  possibili,  fare  ancora  una  di- 
chiarazione. Io  dichiaro  per  la  prima  e  T  ultima 
volta,  per  sempre,  che  io  non  sono  né  il  capo 
né  la  coda  di  alcuna  o  scuola  o  parte  o  accade- 
mia o  consorteria.  Quelli  a  cui  fa  comodo  e  piace 
possono  imaginare  o  vedere  una  scuola  bolognese, 
ma  scuola  bolognese  non  esiste.  Ci  sono  in  Bo- 
logna degli  scolari  che  studiano  e  si  ritrovano 
tra  loro  e  si  divertono,  ma  non  hanno  V  uso,  e 
nessuno  si  permetterebbe  certo  d' introdurlo,  di 
fare  dimostrazioni  a  favore  di  alcun  professore  i 
cui  libri  non  piacciano  a  qualcuno.  Ci  sono  in 
Bologna,  tra  quelli  che  leggono  e  scrivono,  due 
o  tre  o  quattro  che  stampano  più  spesso  e  più 
sono  in  vista.  Questi  due  o  tre  o  quattro  signori 
hanno  la  più  perfetta  stima  gli  uni  degli  altri, 
non  senza  amicizia,  e  si  vedono  volentieri,  ogni 
due  o  tre  mesi,  qualche  minuto.  Del  resto,  ognuno 
va  per  la  sua  via,  co'  suoi  intendimenti,  secondo 
le    sue    idee.    Io  poi,    per   rimanere  indipendente 


368  RAPISARDIANA. 

affatto  e  di  spìrito  e  di  cuore  si  nella  critica  sì 
neir  arte,  mi  condannai  fin  dalla  gioventù  alla 
solitudine  e  alla  segregazione,  specialmente  dagli 
scrittori.  Per  ciò,  soffrendo  i  danni  della  condi- 
zione che  mi  feci,  intendo  goderne  almeno  i  po- 
chi e  magri  vantaggi:  sono:  fare,  pensare,  scri- 
vere, combattere  di  mio  moto,  a  modo  mio,  senza 
rispetti  ipocriti,  senza  vigliacche  sentimentalità, 
dentro  i  limiti,  s' intende,  del  giusto,  o  di  ciò  che 
il  mio  ragionamento  mi  dice  essere  giusto. 

Prego  dunque  d'  essere  creduto,  se  dico  che 
nel  libro  di  Luigi  Lodi  intitolato  Lorenzo  Stec- 
chetti non  lessi  il  periodo  che  concerne  il  Ra- 
pisardi  se  non  quando  il  libro  era  in  vendita. 
Ma,  se  non  ispirai,  partecipo  quel  giudizfo  del  ^ 
fiero  e  ardito  critico,  co  '1  quale,  del  resto,  non  vo 
d'  accordo  in  tutte  le  teoriche  e  in  parecchie  opi- 
nioni. Anche,  gli  devo  grazie  dell'  aver  rivelato 
a  chi  intendessi  co  '1  qualificativo  d'  "  arcade  cat- 
tivo soggetto  „. 

Il  mio  parere  su'  poemi  originali  e  tradotti  del 
signor  Rapisardi  V  avevo  buttato  giù  di  corsa, 
senza  risparmio  di  nome  e  cognome,  in  certi  ar- 
ticoli scritti  nel  febbraio  dell'  anno  scorso  per  il 
Fanf lilla  della  domenica;  ma  l' onorevole  Fer- 
dinando Martini  mi  pregò,  per  ragioni  con- 
venientissime,  di  sopprimere  quelle  linee.  Ora 
dunque. 

Me,  me,  adsum  qui  feci;  in  me  convertite  ferrum, 
Rutuli. 


RAPISARDIANA.  369 

Ma  badino  i  Rutuli  del  signor  Rapisardi.  Dato 
che  essi  co  '1  numero  e  coi  bollori  delle  loro  giovi- 
nezze giungessero  anche  a  sopraffarmi/  la  cagione 
sarebbe  della  debolezza  mia  e  non  del  torto  che 
io  avessi.  Sono  venticinque  anni  che  faccio  il 
Don  Chisciotte  dell'  arte  italiana  (  e  potrei,  vo- 
lendo, godere  un  mestiere  più  riposato  e  meglio 
accettevole  all'universale);  ma  ho  cercato  sempre 
di  darne  e  non  di  buscarne.  Se  dovessi  questa 
volta  cadere,  cadrei,  avverto,  come  il  cavalier 
della  Mancia  sotto  i  colpi  del  barbier  mascherato, 
protestando  per  la  giustizia  della  mia  causa: 
—  Lucifero  è  un  vecchio  parabolano  frugonesco 
che  ha  preso  le  cantaridi,  la  bionda  Ebe  è  una 
vecchia  pastorella  arcade  ritinta  infranciosata  dal 
Parny.  Puah! 

La  riverisco,  signor  Direttore,  e  La  ringrazio 
anche  nel  caso  che  Ella  credesse  di  non  stam- 
pare nulla  di  questa  lettera. 

VL 

La  Stella  d' Italia,  periodico  bolognese,  pub- 
blicava nel  suo  numero  del  13  maggio  1881  (anno 
IV,  n.  133)  la  lettera  seguente  di  Mario  Rapisardi 
ai  direttori. 

Di  villa  (Catania).  8  maggio  18S1. 

Pregiatissimi  Signori, 

Dalla  lettera  del  signor  Carducci,  stampata 
nel  n.  4  del  Don  Chisciotte,  si  rileva  chiaramente 

Carducci.  4.  .   24 


370  RAPISARDIANA. 

che  egli  mi  vuol  male  per  certi  versi  satirici  del 
Lucifero;  chC;  non  so  con  quanto  rispetto  a  sé 
stesso,  ei  volle  credere  allusivi  alla  sua  persona. 
I  suoi  giudizi  sul  conto  mio  son  dunque  fatti  col 
fegato  e  scritti  con  la  bile  :  e  se  quelli  che  trincia 
con  ammirabile  sicumera  sui  miei  poemi  possono 
avere  il  merito  singolare  di  farmi  ridere,  quelli 
che  avventa  su  la  mia  condotta  provano^  tutt'  al 
più,  che  i  suoi  meschini  risentimenti  lo  spingono 
qualche  volta  a  svillaneggiare  chi  lo  disprezza. 

Neir  uno  e  nell'  altro  caso,  dichiarando  che 
non  ho  tempo  da  perdere  in  simili  guerricciòle, 
a  me  giova  ripetere  col  vecchio  Eschilo,  che 

i  vituperi 
Di  nemici  a  nemico   onta  non  fanno. 

Con  perfetta  osservanza  mi  credano 

obbligatissimo 
Mario  Rapisardi. 


VII. 


Il  Don  Chisciotte  nel  suo  numero  del  15-16 
maggio  1881  (anno  i,  n.  15)  pubblicava  il  se- 
guente scritto  di  Giosuè  Carducci. 

ANCORA  PER  MARIO  RAPISARDI 

!  !  ! 

Dunque  il  signor  Mario  Rapisardi  si  risolve 
di  mandarmi  a  far  sapere,  per  mezzo  del  perio- 
dico del  fu  barone  Mistrali,  che  egli  mi  disprezza. 


RAPISARDIANA.  37 1 

Troppo  tardi;  e  imitando;  e  dicendo  il  falso. 
Pare  impossibile.  Queir  uomo  non  sa  né  può  es- 
sere originale  e  sincero  né  meno  nelF  ira. 

Ristabiliamo  i  fatti,  per  amore  della  verità  e 
della  dignità  dell'arte:  due  idee  e  due  cose,  che 
gli  ammiratori  del  Lucifero  starebbero  freschi 
se  avessero  bisogno  di  cercare  in  quel  libro  di 
versi. 

Io  in  una  nota  dell' elegia  al T Aurora,  pub- 
blicata nel  Fanfulla  della  domenica  il  2  gennaio 
1881,  accennai  agli  "  arcadici  impiastri  che  qual- 
che scempio  e  ignorante  versaiuolo  vorrebbe  git- 
tar  su'l  viso  di  qualche  poeta  latino  „;  e  ad  ogni 
dimanda  risposi  poi  chiaro  e  netto  che  intendevo 
le  versioni  di  Catullo  e  di  Lucrezio  fatte  dal  si- 
gnor Rapisardi. 

In  un  frammento  Dalle  mie  memorie,  pub- 
blicato pur  nel  Fanfulla  della  domenica  il  6  feb- 
braio 1881,  scrissi:  "  Io  non  fo  come  certo  ar- 
cade cattivo  soggetto  il  quale  rovescia  il  brodo 
di  lasagne  de'  suoi  versi  sciolti  su  chi  gli  ha  fatto 
del  bene,  e  poi  protesta  che  la  sua  ribaldaggine 
è  poesia  e  della  poesia  non  rende  conto  „.  E  ad 
ogni  dimanda  risposi  chiaro  e  netto,  che  inten- 
devo di  certe  caricature  fatte  dal  signor  Rapisardi 
nel  canto  undecimo  del  Lucifero,  e  nomina- 
tamente delle  due  nelle  quali  tutti  riconoscono 
ingratamente  oltraggiati  Angelo  De  Gubernatis  e 
Aleardo  Aleardi;  il  secondo  dei  quali  a  me  non 
fu  mai  amico  né  forse  benevolo;   il  primo,  in  un 


372  RAFISARDIANA. 

momento  d'  oblio,  due  anni  fa,  scrisse  in  inglese 
e  in  italiano  cose  davvero  non  gentili  su  '1  mio 
asserto  verismo. 

Passano,  dopo  quegli  accenni,  due  mesi:  ed 
esce  il  Lorenzo  Stecchetti  di  Luigi  Lodi, 
nel  qual  libretto,  a  proposito  della  ignoranza  e 
imbecillità  di  certi  realisti  italiani,  è  detto  che  ce 
II'  è  di  quelli  che  "  giurano  di  derivare,  non  par- 
rebbe vero,  sino  da  quelV  arcade  cattivo  soggetto 
che  innaffia  col  brodo  lungo  dei  suoi  versoni  fru- 
goniani  la  tomba  di  Tito  Lucrezio  Caro.  „ 

Allora  un  giornale  di  Catania  incominciò  a 
sfogarsi  in  invettive  contro  il  Lodi,  e  anche  ac- 
cennò in  qualche  punto  al  Guerrini  e  a  me,  con 
molta  convenienza,  a  dir  vero,  anzi  non  senza 
elogi;  ma  non  senza  lasciar  capire  che  il  malu- 
more contro  il  Rapisardi  derivava  da  differenza 
di  scuole  (scuola  siciliana  e  scuola  bolognese, 
proprio  come  nel  secolo  decimoterzo),  che,  la- 
sciando da  parte  i  libellisti,  i  belH  ingegni  era 
bene  s' intendessero  tra  loro,  aiutandosi  T  un  T  al- 
tro delle  loro  migliori  qualità,  e  1'  altro  imparando 
dall'  uno  ;  e  un  via  uno  fa  due,  come  al  solito  in 
queste  storie. 

Quand'  eccomi  arrivare,  il  14  d'  aprile,  giovedì 
santo,  una  lettera  da  Catania,  raccomandata. 

11  signor  Mario  Rapisardi  mi  apostrofava  fie- 
ramente co  '1  voi.  I  suoi  nemici,  diceva  press'  a 
poco,  andavano  ripetendo  che  io  nelle  mie  Me- 
morie del  Fanf ulta  domenicale  miTdiwo  a  lui:  egli 


RAPISARDIANA.  373 

mi  avea  fatto  V  onore  di  non  credere  cotesto:  ma 
poiché  un  Luigi  Lodi  ecc.  ecc ;  egli  non  vo- 
leva prendersela  con  quel  ecc.  ecc.;  che  non  si 
vergognava  ecc.  ecc.:  invece  intimava  a  me  di 
dichiarar  sùbito  nel  Fanfulla  che  io  con  la  qualifi- 
cazione di  "  arcade  cattivo  soggetto  „  ecc.  ecc.  non 
intendevo  accennare  a  lui:  altrimenti  mi  avrebbe 
dichiarato  egli  in  pubblico  per  un  miserabile  ca- 
lunniatore ecc.  ecc.  Che  volete?  a  questo  punto 
diedi  in  uno  scoppio  di  risa.  Mi  pareva  di  ve- 
dermi ritta  dinanzi  li  su  '1  tavolino  co  '1  dito  teso 
la  figuretta  del  signor  Mario  Rapisardi,  non  quale 
mi  era  stata  mostrata  a  passeggiare  beata  e  im- 
pettita per  le  vie  di  Firenze,  ma  agitante  la  onda 
impomatata  della  criniera  corvina  nelF  atteggia- 
mento di  Giove  tonante.  E  senza  finire  di  leg- 
gere racchiusi  in  una  busta  la  epistola,  con  una 
cartolina  da  visita  nella  quale  scrissi  quieta- 
mente cosi: 

■     '  -        Bologna,  14  aprile  1881. 

-  "  Giosuè  Carducci  con  le  parole  arcade  cat- 
tivo soggetto  ecc.  intese  accennare  e  qualificare 
proprio  il  Rapisardi  Mario:  tornerà  su  l'argo- 
mento quando  e  come  gli  piacerà,  sempre  per 
la  rivendicazione  della  moralità  letteraria  e  del 
buon  gusto;  senza  attendere  per  nulla  alle  inso- 
lenze di  un  individuo  che  egli  Jia  ragione  di  non 
stimare.  „ 


374  RAPISARDIANA, 

E  mandai  il  tutto^  raccomandato,  a  Catania. 
La  sera  comunicai  a  Luigi  Lodi  la  parte  della 
epistola  mariana  che  riguardava  lui,  consiglian- 
dolo del  resto  a  non  confondersi:  tanto  Luci- 
fero non  si  batte:  lo  dice  egli  stesso,  l'eroe 
nel  fine  del  canto  undecimo. 

Ora,  dopo  V  intermezzo  di  circa  un  mese  dalla 
mia  carta  di  visita,  il  signor  Mario  Rapisardi  mi 
disprezza,  disprezza  me  e  i  miei  giudizi,  non  ha 
tempo  da  perdere  in  guerricciòle.  Disprezza  i  miei 
giudizi,  dopo  avermi  in  vano  intimato  di  ritirarli  : 
disprezza  me  dopo  aver  subita  la  mia  disistima 
presentatagli  con  fredda  e  perfetta  correzione: 
parla  di  guerricciòle,  dopo  essersi  lasciato  far  di- 
mostrazioni contro  di  me,  dopo  essersi  atteggiato 
a  pudica  ma  compiacente  virginea  cagione  d*  un 
nuovo  incruento  vespro  siciliano  contro  me  e  la 
scuola  bolognese.  Ma  che  Bologna!  Ma  che  Sicilia! 
Siamo  tutti  italiani.  Almeno  io  non  ho  nulla  che 
dire  con  la  Sicilia  e  con  la  sua  letteratura,  se 
qualche  cosa  ho*  che  dire  co  *1  signor   Rapisardi. 

E  non  ho  mica  nulla  che  dire  su  le  due  ter- 
zine poste  in  bocca  a  Dante  contro  di  me.  Suo- 
nano cosi: 

E  chi  in  aspetto  di  plebeo  tribuno 

Giambi  saetta  avvelenati  e  cupi, 

E  fuor  di  sé  non  trova  onesto  alcuno; 

Idrofobo  cantor,  vate  da  lupi, 

Che  di  fiele  briaco  e  di  lièo 

Tien  che  al  mio  lato  il  miglior  posto  occupi. 


RAPISARDIANA.  375 

Su  coteste  e  le  altre  terzine  che  precedono  e  se- 
guitano avrebbero  assai  che  dire  il  buon  senso,  il 
buon  gusto,  il  rispetto  al  nome  di  Dante,  non  che 
la  decenza,  la  grammatica  e  la  prosodia.  Di  pas- 
saggio, i  du€  versi 

Sento  tra  una  venal  turba  chiamarmi 
Chi  ecc. 


Tien  che  al  mio  lato  il  miglior  posto  occupi 

vanno  contro  la  sintassi.  E  dell*  altra  terzina,  non 
per  me, 

E  incipriato  le  chiome  e  torto  il  collo, 
Co  '1  ciglio  imbambolato  e  il  guardo  losco 
Va  a  confettar  gli  stronzoli  d'Apollo, 

il  primo   verso   è   di  dodici   sillabe   e   il   terzo   è 
porco. 

Ma  perché  il  libro  ove  sono  le  due  terzine  il 
signor  Rapisardi  lo  mandò  "  divotamente  „  a  me 
"  uomo  illustre  „?  Io  gli  scrissi:  reputare  dover 
mio  avvertirlo,  che  tutti  in  Firenze,  ove  il  signor 
Rapisardi  era  allora  frequente  e  avea  fervide 
amicizie  e  ammirazioni,  dicevano  in  quelle  terzine 
riconoscere  me,  e  anche  a  me  pareva  di  ricono- 
scervi non  me,  ma  i  soliti  colori  retorici  coi  quali 
gente  che  non  mi  conosce  e  che  io  non  conosco 
credeva  poter  figurarmi:  di  che  a  me  non  impor- 
tava: ma  reputavo,  da  poi  che  egli  mi  offriva 
"  devotamente  „  il  suo  libro,  dover  mio  renderla 
avvertito  che  sapevo  e  avevo  letto:  tutto  ciò  senza 


37^  RAPISARDIANA. 

ringraziamenti  e  senza  formole  di  stima.  Egli  mi 
rispose:  non  porgessi  orecchio  ai  suggestori  in- 
vidiosi; egli  avere  scritto  da  poeta;  esser  sicuro 
nella  sua  conscienza.  Sciagurato!  E  il  suo  amico 
Pietro  Fanfani  andava  leggendo  nei  circoli  le  ter- 
zine e  commentandole  e  facendo  rilevare  agli 
inaccorti  il  preciso  riscontro  satirico  che  e*  era 
tra  il  verso  fatto  dal  Rapisardi  sgrammaticare  a 
Dante 

Tien  che  al  mio  lato  il  miglior  posto  occupi 

e  il  principio  d'  un  mio  sonetto 

Dante,  il  vicin  mio  grande. 

Sciagurato  !  Se  il  negare  la  verità  conosciuta  deve 
essere  un  peccato  contro  lo  spirito  per  tutti  gli 
uomini  di  ragione,  anche  se  non  di  fede;  negare 
la  verità  conosciuta,  per  lusingare  opportunamente 
un  uomo  che  prima  avete  voluto  infamare,  è  un 
peccato  contro  la  dignità  umana.  Perché,  voi  che 
i  versi  vostri  giovanili  mi  mandaste  tutti  —  a  me 
che  disprezzate  —  perché  non  mi  mandaste  nel  '6g 
la  Palingenesi?  I  maligni  tra*  miei  amici,  e  ce 
ne  sono  pur  troppo,  dicevano  che  noi  faceste, 
perché  allora  io  era  in  cattiva  vista  presso  i  po- 
tenti. Perché  mi  mandaste  "  devotamente  „  nel 
febbraio  del  '77  il  L  u  e  i  f  e  r  o  ?  Perché,  seguita- 
vano a  dire  quei  maligni,  quando  il  Lucifero 
fu  finito  di  stampare,  i  tempi  erano  mutati,  ed  io 
era  deputato. ... 


RAPISARDIANA.  377 

Io  non  credo  a  tanto:  ma  sono  stufo  dì  parlare 
del  signor  Rapisardi.  Al  quale  io  non  pensavo 
più  da  un  pezzo,  quando  tempo  fa  mi  capitò  tra 
le  mani  certo  suo  discorso  ove  spropositava  di 
alcune  innovazioni  artistiche  con  quel  tono  d' igno- 
ranza presuntuosa  che  è  così  seccante  e  irritante 
in  quella  sua  retorica  sgrammaticata.  E  volli  co- 
minciar bene  1'  anno  castigandolo. 

Faccia  de*  G  ì  o  b  b  i  il  signor  Mario  Rapisardi, 
faccia  de*  Giobbi. 

Vili. 

Per  allora,  cioè  pochi  giorni  dopo,  il  signor 
Mario  Rapisardi  fece  un  sonetto,  e  lo  mandò  a 
certi  giornali,  pregando  lo  pubblicassero  solleci- 
tamente. Diceva  cosi: 

GIOSUÈ  CARDUCCI 

Testa  irsuta,  ampie  spaUe,  ibrida  e  tozza 
Persona,  in  canin  cefifo  occhio  porcino; 
Bocca  che  sente  di  fiele  e  di  vino; 
Se  biasma,  onora;  quando  loda,  insozza; 

Mevio  da  un  soldo,  Orazio  da  un  quattrino 
Che  ad  arte  di  mosaico  \sic\  i  versi  accozza. 
Or  Cerbero  che  i  re  squarta  ed  ingozza. 
Or  di  gonne  regali  umil  lecchino; 

Tal  è  costui,  che  la  Musa  baldracca 

Sbufifando  inchioda  ed  inquinando  ammazza, 
Sopra  a  latina  prosodia  bislacca. 

La  Fama,  che  con  lui  fornica  in  piazza, 
Posto  il  trombon  fra  1' una  e  l'altra  lacca 
Ai  quattro  venti  il  nome  suo  strombazza. 


378  RAPISARDIANA. 

Io  lessi  questo  sonetto  in  un  fascicolo  stampato 
poco  di  poi  in  Catania.  Dal  quale  anche  imparai 
che  il  signor  Rapisardi  ha  "  una  villetta  „  e  oltre  la 
villetta  una  "  olimpica  serenità  —  suo  pregio  sin- 
golare —  „,  e  che  con  questa  "serenità  olimpica  „^ 
tra  i  "  silenzi  di  quella  villetta  „,  interroga  "  devo- 
tamente la  Musa  e  ne  registra  i  responsi  „.  E  con 
quella  "  olimpica  serenità  „  ad  armacollo,  domando 
io,  con  i  "  silenzi  d'  una  villetta  „  tra  le  gambe,, 
con  la  Musa  all'  ordine  del  suo  registro,  il  signor 
Rapisardi  scrive  soltanto  un  sonetto  cosi? 

Quel  libretto  di  Catania,  per  altro,  composto 
d'  articoli  di  più  signori,  che  dicono  molte  volte 
di  essere  giovini,  è  un'  amenità.  Ci  s' inciampa  a 
ogni  passo  in  olimpi  che  servono  per  li  aggettivi 
positivi,  in  titani  e  giganti  che  portano  il  peso  dei 
comparativi,  nei  nomi  di  Eschilo  di  Sofocle  di 
Goethe  spicciolati  sotto  i  passi  del  signor  Rapi- 
sardi. C  è  perfino  un  appello  "  ai  nostri  nepoti  „. 
È  da  vero,  un  libretto,  non  ostante  certe  cattiveriole 
e  molti  spropositi  di  grammatica,  anzi  a  punto 
per  cotesto,  divertente:  divertente  per  un  poco; 
come  un  giuoco  di  ragazzi  che  facciano  alle  com- 
marcile,  che  uno  s'intitola  imperatore,  l'altro  re, 
cinque  o  sei  sono  generali,  e  cavalcano  con  un 
igienico  affaccendamento  delle  proprie  gambe  chi 
una  canna,  chi  una  scopa,  chi  un  manico  di  gra- 
nata, con  di  gran  picchi  su  le  rispettive  cosce, 
con  di  grandi  urrà  a  sé  stessi:  le  galline  del  cor- 
tile stanno  a  guardare  immote. 


RAPISARDIANA.  379 

Del  resto  —  notino  bene  quelli  egregi  signori 
—  non  è  vero  che  il  nessun  conto  o  il  conto 
negativo  che  io  faccio  dei  lavori  in  rima  e  in  prosa 
del  signor  Rapisardi  cominciasse  o  proceda  dal 
Lucifero  o  da  qualche  parte  del  Lucifero. 
Io  posso  mostrare  un  mucchio  di  opuscoli  man- 
datimi pe  '1  corso  di  più  anni  dal  signor  Rapi- 
sardi, ed  egli  può  vantarsi  di  non  avere  avuto 
mai  da  me  né  anche  un  grazie.  Alla  cortesia  nes- 
suno è  obbligato,  quando  per  esser  cortese  bisogni 
esser  bugiardo.  Da  que'  fascicoli  veniva  su  tale 
un  tanfo  tra  di  spezieria  e  drogheria  parnassiana 
e  di  mòccoli  spenti  di  sagrestia  civile-cristiana, 
tale  un  refrigerante  freschiccio  di  cerotto  diachylon 
frugoniano  e  di  bionda  classico-romantica,  che  era 
una  consolazione.  Nel  Rapisardino  e'  era  già  il 
Rapisardone  :  e'  era  già  nel  poetuncolo  la  gobba 
davanti  del  grand'  uomo  :  cioè  T  impostatura  e 
r  impettitura  d'  un  tenorino  di  provincia  in  busto 
e  co  '1  rossetto,  che  sbercia,  tenendosi  con  le  due 
mani  il  piccolo  petto  albergo  di  cotanto  cuore. 

Cosi  Mario  cresceva.  E  nessuno  gli  badava. 
Alla  fine  pensò  bene,  dopo  Mentana,  di  pigliar- 
sela co  '1  papa:  e  fece  un  polpettone  palingenesiaco 
di  lesso  avanzato,  cioè  di  cristianesimo  riformato. 
E  nessuno  gli  badava.  E  allora  scrisse  una  tra- 
gedia. E  nessuno  gli  badava.  E  allora,  per  farsi 
badare,  il  collegiale  cominciò  a  bestemmiare  e  a 
dir  porcherie;  e  come  a  lui  pareva  che  io  nel 
Satana  avessi  detto  dio  sagrato,  egli  nel  L  u  e  i- 


380  RAPISARDIANA. 

fero  disse  dio  birbone;  e  come  io  avevo  detto 
verità  amare  a  certa  gente  che  secondo  me  avea 
fatto  e  faceva  del  male  all'  Italia,  cosi  egli  disse 
bugie  e  insolenze  a  persone  che  avevano  avuto 
il  torto  di  far  del. bene  a  lui.  Ieri  napoleonista  e 
cantelliano  si  raccomandava,  a  cui  poi  oltraggiò, 
per  r  intercessione  di  una  croce;  oggi  fa  canti 
carnescialeschi  internazionalisti,  con  grande  am- 
mirazione di  qualche  Quasimoduccio  d' una  re- 
pubblica non  si  sa  come;  dimani  farà  l'Anacreonte 
della  ghigliottina,  e  sommoverà  con  strambotti  e 
stornelli  il  volgo  a  squartarmi.  Tutto  questo  non 
per  malvagità  —  egli  non  ha  quella  tanta  facoltà 
di  pensare  che  ci  vuole  per  esser  malvagio  —, 
ma  per  la  frase,  per  il  pun-pun,  per  la  smanac- 
ciata, per  la  religione  del  suo  bel  mostaccino: 
perché  queir  amorino  li.  Narciso  della  gagliofferia 
impomatata,  ha  la  satinasi  di  sé  stesso. 

Del  resto,  io  non  dico  mica  che  i  poemi  del 
signor  Rapisardi  non  piacciano  e  non  debbano 
piacere.  Piacquero  in  fatti,  e  di  molto,  a  Pietro 
Fanfani:  piacciono  al  signor  Luigi  Alberti,  ài  si- 
gnor Ghisleri,  al  signor  MammoH  :  piacciono  ad 
altri  molti:  c'è  tanto  volgo  e  tanta  accademia  in 
Italia!  A  me,  per  quel  poco  che  ne  potei  scorrere 
di  quando  in  quando,  fanno  l'effetto  che  sono  per 
dire.  Non  mi  ricordo  più  dove  lessi  che  il  signor 
Rapisardi  ebbe  a  maestri  due  frati;  né  so  se  véro, 
né  me  ne  importa.  Ma  il  fatto  è  che  la  poesia 
sua>  anche,  anzi  più,.  dove<  bestemmia  e  anela  dò 


RAPISARDIANA.  38 1 

scandalo,  è  sempre  fratesca.  Procede  tra  la  ca- 
nonica e  il  trivio,  tra  la  tautologia  e  la  scatologia, 
con  il  roccetto  a  gale  inamidate  e  le  brache  puz- 
zolenti ;  finisce  il  kirie  dell'  aitar  maggiore  con  le 
flatulenze  in  coro;  dalla  espettorata  enfasi  del 
pulpito  passa  alla  celia  sporcacciona  del  refettorio; 
mette  un  mazzo  di  fiori  dinanzi  alla  statua  della 
sua  madonna  che  è  in  legno  di  fico,  co  '1  visino 
di  biacca,  vestita  di  broccato  celeste  tutto  rigido, 
alla /om/>«</owr  e  co '1  cerchio,  e  con  in  mano  un 
fazzoletto  di  tela  batista  smerlata;  e  scende  in 
cucina  per  palpare  di  dietro  la  serva  inchinata 
su  '1  tacchino  nello  spiedo  e  per  dare  un  calcio 
al  gatto  che  miagola  con  lirica  aspirazione.  Già, 
per  tutti  quei  volumi  mi  par  sempre  di  vedere  il 
signor  Rapisardi  con  ai  fianchi  le  sue  muse,  i 
suoi  due  fratacchioni  maestri:  uno  canta  Tantum 
ergo)  r  altro,  come   il  fra'  minore   del   Burchiello, 

per  fuggrir  ozio  in  quel  viagjrio 
Col  e.   sempre  parlò  d'ogni  linguaggio. 

Ripeto  che  il  nessun  conto  o  il  conto  nega- 
tivo che  io  faccio  della  facoltà  e  dell'  opera  poe- 
tica del  signor  Rapisardi  non  ha  né  causa  né 
origine  dalle  allusioni  ingiuriose  del  Lucifero, 
se  bene  è  vero  che  quelle  ingiurie  ci  sono  e  sono 
proprio  per  me.  La  prova  allegra  è  il  sonetto.  La 
prova  schiacciante  è  che  il  signor  Rapisardi  nega. 
Quando  un  uomo  ha  trattato  da  amico  un  altro 
e  gli  ha  chiesto  ancora  de'  piaceri,  mentre  aveva 


382  RAPISARDIANA. 

•già  consegnato  al  tipografo  vitupèri  contro  di  lui, 
quando  un  uomo  s*  è  portato  come  il  signor  Ra- 
pisardi  si  portò  co  '1  prof.  De  Gubernatis,  quel- 
r  uomo  non  ha  pili  diritto  a  esser  creduto;  anzi, 
se  egli  dice  di  no,  gli  uomini  buoni  e  savi  hanno 
diritto  a  credere  di  si,  e  per  converso.  Egli  sputa 
dove  prima  baciò,  e  poi  vorrebbe  baciare  dove 
ha  sputato.  Piano,  caro  signore!  Si  accomodi 
co*  suoi  simili. 

Né  di  ciò  io  gli  facevo  o  faccio  colpa;  o 
gliene  faccio  sino  a  un  certo  punto  soltanto. 
Perché  in  tutte  le  cose  e  le  azioni  del  mondo 
egli  altro  non  guarda  che  il  suo  io  rispecchiato, 
se  sia  in  posizione  comoda  e  appariscente  o  no. 
Anche  quando  fa  all'amore,  io  penso  si  distragga 
a  vagheggiare  e  carezzare  la  sua  imaginetta  dentro 
il  vivo  specchio  delle  pupille  eh'  ei  crede  amare; 
e  più  e  meglio,  credo  io,  s' innamora  di  quelle 
donne  nelle  cui  retine  più  civettuola  dameggi 
la  figuretta  sua.  Non  ha  insomma  il  discerni- 
mento morale:  sia  della  parte  politica  e  dell' ami- 
-cizia,  sia  della  giustizia  e  della  verità,  egli  si 
serve  per  gli  usi  suoi  esteriori.  Non  che  egli  non 
creda  di  credere  alla  verità  e  alla  giustizia,  di 
essere  fedele  all'amicizia  e  aderente  alla  parte; 
egli  è  di  bronzo  o  di  marmo  pano;  ma  per  lui 
ci  sono  tante  verità,  tante  giustizie,  tante  amicizie, 
quante  gli  occorrono  cravatte  per  abbigliare  in 
fogge  diverse,  alle  diverse  stagioni  e  occasioni, 
r  Antinoo  menecmo    eh'  egli    custodisce    sotto   le 


RAPISARDIANA.  383 

scriminature  del  suo  ben  capelluto  pensiero  e 
nutrisce  con  le  poppe  della  sua  gloriosa  soddi- 
sfazione. 

Per  ciò  io  non  mi  era  per  nulla  risentito  delle 
ingiurie  luciferiane  :  mi  urtò  e  provocò  al  castigo, 
ripeto,  la  presunzione  del  signor  Rapisardi  a  par- 
lare di  cose  che  non  sa,  cioè  di  arte  e  di  critica. 
Scriva  il  signor  Rapisardi  quante  vuole  Palinge- 
nesi, Arrighi,  Manfredi  e  Giobbi;  ma  non  entri 
a  discorrere  di  arte  e  di  critica;  egli  è  un  cam- 
panaio. 

Del  resto,  si  rassicurino  pure  il  Capitan  Fra- 
cassa il  Bersagliere  e  la  democrazia  ragunata  in 
comizio  a  Catania,  io  non  ho  co  '1  signor  Rapisardi 
né  rancore  né  odio:  anzi,  a  mirarlo  in  persona  o 
dipinto  mi  diverte.  Se  potessi,  lo  compererei;  e 
me  lo  patullerei  a  biscotti  nel  naso  per  vedere  le 
facce  che  facesse;  e  poi  gli  darei  un  savoiardo  e 
uno  specchietto.  Egli  farebbe  un  bocconcino,  una 
frase  e  una  posa;  e  tutti  lesti. 

Tornando  ai  signori  dell'  opuscoletto  catanese, 
sola  una  cosa  in  quello  mi  spiacque  e  mi  addo- 
lorò: il  sentire  che  essi,  giovini  italiani,  tanto 
povero  concetto  serbino  dell*  Italia  e  del  suo  av- 
venire, da  tener  per  certo  che  i  nostri  nepoti 
qualche  cura  o  memoria  avranno  delle  miserie 
nostre  e  di  noi.  Troppo  più  alti  ideali  io  avevo 
sognato  per  voi,  o  giovini  del  mio  paese.  E  se 
dovesse  esser  vero  che  cosi  misero  fosse  l'av- 
venire d' Italia,  che  i  nostri    nepoti    avessero    da 


384 


RAPISARDIANA. 


ricordarsi  del  Rapisardi  e  di  me^  mi  colga  sùbito 
la  dissoluzione  nel  nulla;  perché  vorrebbe  dire 
che  il  naviglio  dei  mille  salpò  in  vano  da  Quarto. 


QA   IRA 


Carducci.  4.  25 


Dalle  Confessioni  e  Battaglie  di  G.  C,  ser.  Sa 
Roma,  Sommaruga,  1884. 


UNQÙE  anche  una  volta  difendia- 
moci: cioè,  esponiamo,  con  molta 
soddisfazione  del  nostro  satanico 
orgoglio,  dinanzi  alla  folla  dei  let- 
tori maligni,  le  perfezioni  o  imperfezioni  segrete 
dei  nostri  pensieri,  la  benignità  o  pravità  meditata 
dei  nostri  intendimenti. 

Ma  badiamo,  o  lettori  maligni:  non  venite  poi 
fuori  a  dirmi  che  io  per  recar  da  torno  il  mio  me 
son  sempre  a  ordine,  che  troppo  dura  da  un  pezzo 
questa  perennità  di  mie  processioni  a  occupare  lo 
spazio  pubblico  impacciando  la  circolazione  della 
buona  letteratura,  e  sarebbe  ora  che  la  polizia 
della  critica  relegasse  V  ottavario  del  mio  Corpus- 
Domini  dentro  o  intorno  al  sacrato  della  mia  do- 
mestica vanità.  No,  cari  lettori  maligni:  questa 
volta  è  proprio  la  polizia   critica  che  si  fa,  come 


388  ^A   IRA. 

non  di  rado  usa  quell'altra,  provocatrice:  questa 
volta  è  l'onorevole  Bonghi,  il  quale  da  quella 
stessa  Domenica  Letteraria,  che,  secondo  voi,  let- 
tori maligni,  è  la  ròcca  della  mia  tirannide  e  il 
tempio  della  mia  religione,  mi  grida,  occupati  i 
minareti  e  i  battifredi,  all'  ingiù  —  Io  Le  dico 
che  Ella  è  uno  sconsigliato,  un  dissennato,  un 
manigoldo  inconsapevole  o  un  furioso  a  freddo, 
peggio  anche  del  parrucchiere  che  trucidò  la  Lam- 
balle:  ed  Ella  che  dice  di  quello  che  Le  dico  io? 
che  risponde  a  quello  che  io  affermo?  — 

Le  stesse  o  simili  accuse,  e  sempre  con  quel 
tono  benevolo  e  con  queir  onesto  accento  di  me- 
raviglia misericordiosa  che  accatta  grazia  e  cre- 
denza, mi  avevano  mosso  il  prof  Licurgo  Cap- 
pelletti nella  Provincia  di  Brescia  del  30  maggio, 
il  signor  Domenico  Cancogni  nella  Libertà  del- 
l'11  giugno,  e  nella  Rassegna  italiana  dello  stessa 
mese  un  M.  T.,  iniziali  che  indicano  per  avven- 
tura il  nome  di  un  senatore  a  cui  ho  molta 
stima. 

Ecco  dunque  in  moto  per  una  dozzina  di  so- 
netti la  scuola  e  il  giornalismo,  il  Senato  e  la 
Camera  dei  Deputati,  e  1'  onorevole  Bonghi  che 
m' interpella  come  farebbe  a  un  ministro.  Ma 
che?  la  poesia  conterebbe  dunque  da  vero  qual- 
che cosa  in  Italia  ?  Oh,  no  del  tutto.  È  per  paura  o 
per  odio  di  quelle  due  parole  p?  ira,  che  quei 
signori  traducono,  troppo  Uberamente  a  dir  vero, 
in   fa  viendra. 


9A    IRA.  389 

Michele  Lessona,  che  io^  se  mi  fosse  lecito 
contaminare  una  qualificazione  rigidamente  mo- 
derna con  un'  antica  eleganza,  direi  scienziato  di 
molte  arti;  ed  è  amico  buono  e  collega  utile,  spe- 
cialmente in  certe  gravi  sessioni,  per  le  tante 
storie  allegre  e  le  tante  persone  rallegranti  che 
ei  sa  con  efficacia  rinnovatrice  raccontare  e  imi- 
tare, scotendo  V  ampia  capelliera  grigiastra  con 
tutta  la  testa  scultoria,  tra  tali  impeti  e  scatti  di 
riso  da  parere  un  Padre  Eterno  che  faccia  in 
un  momento  d'  allegria  un  terremoto  sussultorio; 
il  Lessona,  dico,  neir  aprile  scorso,  mi  raccon- 
tava d'  un  amico  suo  piemontese,  un  capitano  in 
riposo,  il  quale  a  ogni  motto  che  un  gli  facesse 
dei  casi  più  spesso  occorrenti,  un  marito  tradito, 
un  banchiere  fallito,  un  ministero  caduto  o  un 
pollaio  derubato,  soleva,  puntando  forte  il  piede 
sinistro,  avanzando  il  destro,  con  le  braccia  in- 
crociate su  '1  petto,  e  caracollando  leggermente  obh- 
quo  il  viso  abbronzato  tra  i  folti  mustacchi,  uscire 
in  questa  esclamazione  interrogativa  :  Sas  tu  e'  al 
è  forti  Pochi  giorni  dopo,  in  una  di  quelle  tali 
sessioni,  io,  tra  una  discussione  e  1'  altra,  mi  at- 
tentai di  passare  al  Lessona  i  famosi  sonetti  nelle 
prove  di  stampa,  un  dopo  V  altro,  come  pillole 
o  ciliege  a  un  bambino.  U  amico  abboccava,  e 
ne  chiedea  tuttavia.  Dunque  eran  ciliege.  Finito 
che  ebbe,  —  E  che  titolo  metti  a  questa  diavole- 
ria? —  fa  ira.  —  Sas  tii  e  al  è  forti 

Si,  fu  proprio  forte,  o  Michele  Lessona. 


390  .9A   IRA. 

Repubblicani  in  Italia  ce  n*  è  da  un  pezzo,  e  da 
un  pezzo  se  ne  parla  come  d' un  partito  molto  mag- 
giore o  molto  minore,  molto  più  terribile  o  molto 
più  risibile,  di  quello  sia  in  effetto.  Venti  anni  fa 
non  e*  era  infamia  che  non  fosse  lecito  imaginare 
o  dire  contro  quel  partito,  che  pure  spogliandosi 
seguitava  a  dare  mantelli  di  porpora  e  giachi  di 
acciaio  alle  instituzioni.  Mi  sovviene  d' uno  stu- 
dente di  medicina,  che  facea  vita  insieme  con 
altri  studenti  romagnoli  di  legge  e  matematiche 
repubblicani,  lui  moderato;  e  solennissimo  imi- 
tatore e  contraffattore  di  persone  e  di  costumi 
com'  egli  era,  e  come  in  quella  età  e  in  quello 
stato  volentieri  si  usa,  rallegrava  le  cene  con 
sempre  nuove  trovate.  '  Certa  sera,  tutto  avvolto 
in  un  lenzuolo,  faceva  la  madre  dolente  sopra  il 
figliuolo  ammalato;  e  il  figliuolo  era  uno  de' gio- 
vani repubblicani  che  forse  avea  bevuto  oltre  il 
dovere  e  il  potere.  —  Povera  creaturina  mia  — 
diceva  —  e  povera  madre  !  Eccoti  li  su  quel  let- 
tuccio  a  più  struggerti  ogni  ora  che  passa.  E  io, 
miser'a  me,  non  ho  più  latte;  non  ho  un  boccon 
di  pane  da  farti  la  pappa,  né  un  gócciolo  di  vino 
o  di  giulebbe  da  immollarti  le  labbra.  Hai  sete, 
poverino,  eh?  Quel  birbone  di  tuo  padre  è  via 
da  una  settimana  a  batter  tutte  le  osterie  e  i  ca- 
sini della  contrada,  se  pure  non  è  cascato  in  ga- 
lera; e  non  mi  ha  lasciato  un  soldo.  Poverett'  a 
me,  che  quando  lo  presi  non  sapevo  che  fosse 
della  squadrazza  di  Pirùla  Ceneri.    Già,  cominciò 


^A   IRA.  391 

con  bastonar  sua  madre;  e  ammazzò  un  prete  la 
notte  di  Natale;  e  rubò  il  tesoro  di  San  Petronio. 
E  poi....  e  poi....  è  un  repubblicaaaano.  —  E  qui 
s'  apriva  nelle  braccia  distendendo  in  atto  di  spa- 
vento quanto  era  lungo  il  lenzuolo  che  gli  ser- 
viva da  velo,  come  a  riparare  il  tenero  capo  dal- 
l' alito  velenoso  e  pestifero  di  quella  parola.  Ciò 
che  r  allegro  studente  moderato  diceva  per  burla, 
molti  moderati  seri  lo  pensavano  da  senno;  e 
invocavano  e,  potendo,  spalancavano  le  prigioni 
per  salvare  le  novelle  generazioni  innocenti  dalla 
pèste  repubblicana.  La  Sinistra  al  potere  mutò 
registro.  —  I  repubblicani?  Puh!  Pochi  illusi, 
pochi  dottrinari.  Buona  gente  in  fondo;  ma  cri- 
stallizzata neir  idea,  incartapccorita  nella  forma, 
non  cava  un  ragno  da  un  buco.  È  un'  idea  me- 
tafisica! una  forma  bizantina!  Fatti  ci  vogliono, 
e  non  idee;  sostanza,  e  non  forma.  I  repubblicani 
sono  de'  poveri  accademici  !  Ma  esistono  da  vero 
de' repubblicani?  —  E  pure  non  mai  come  sotto 
i  governi  della  Sinistra  fu  levata  a  criterio  e  mezzo 
di  governo  la  caccia  del  cencio  rosso. 

E  ora  dodici  sonetti,  dove  la  repubblica  non 
è  mai  nominata,  perturbano,  a  giudizio  di  uomini 
che  delle  storie  antiche  e  moderne  hanno  cogni- 
zione e  sapienza  e  hanno  esperienza  e  uso  delle 
faccende,  perturbano,  dico,  lo  stato  e,  se  non 
offendono,  minacciano  le  instituzioni.  O  sonetto, 
o  bel  mio  sonetto  dei  fedeli  d'  amore,  del  dolce 
stil    nuovo,    dei    monsignori  e  dei    segretari    eie- 


392  (;a  ira. 

ganti,  degli  arcadi  incipriati,  che  onore  e  che 
orrore  per  te!  Nessuno  mai  ti  aveva  stimato  o 
temuto  reo  di  tanto;  nessuno,  se  non  un  ge- 
nerale francese  nella  Repubblica  Cisalpina.  Ma 
nel  sonetto  che  mosse  il  Murat  a  ordinare  s' im- 
prigionasse il  senatore  Filicaia  e'  era  una  men- 
zione almeno  di  "  gallici  armenti  „.  Io  che  ho  a  ri- 
spondere? e  come  debbo  o  come  posso  provare 
che  non  voglio  mettere  in  quarti  nessuna  dama 
d*  onore,  né  decapitare  la  Maestà  di  Margherita 
di  Savoia  graziosissima  regina  d'Italia? 

Dimostrerò  invece  due  cose  un  po'  meno  sem- 
plici, ma  certo  più  vere:  che  in  Italia  la  critica 
della  poesia  è  male  intesa  e  peggio  esercitata 
anche  dai  migliori,  e  come  torto  e  ombroso  e 
meschino  sia  il  senso  politico  anche  nelle  per- 
sone d'  autorità  e  di  giudizio  che  sono  dette  e  si 
credono  temperate. 


IL 


Io  ho  con  Eduardo  Scarfoglio  più  obblighi; 
tre,  fra  gli  altri,  strettissimi:  per  avermi  egli  re- 
galato, di  primo  impulso  del  suo  nobile  cuore, 
un  bel  mattino  di  maggio,  che  lasciavo  Roma  per 
la  solenne  e  pacifica  via  maremmana,  un  D  e  g  e- 
stis  Romanorum  in  rara  edizione  del  1527  a 
colonnine  di  carattere  gotico,  con  molte  pagnotte 
per  giunta,  che  mancavano  al  mio  companatico: 
per   non    avermi    mai    dimandato   o    fatto    capire 


(;a  ira.  393 

eh'  egli  aspettasse  il  mio  giudizio  intorno  a'  suoi 
Papaveri,  tra  i  quali  ce  ne  ha  di  fioriti  bene;  ri- 
cordo un  sonetto  rinterzato  che  dal  gambo  guit- 
toniano  si  culla  con  agile  movimento  ai  soli  nuovi: 
per  avere,  tutto  lungo  un  mese,  predicato  ai  no- 
vellatori e  romanzieri  italiani  la  necessità  e  il  do- 
vere di  studiare  il  Panciatantra.  Ma  gli  sono, 
non  se  ne  abbia  a  male,  un  po'  meno  tenuto  del- 
l' annunziare  eh'  ei  fece  nella  Domenica  Letteraria 
del  5  maggio  il  ^a  ira,  come  un  accenno,  un 
tentativo,  un  abbozzo,  forse  inconscio,  di  epopea 
storica,  o,  meglio,  d' una  epopea  nuova  a  cui 
dovesse  essere  elemento  o  fondamento  la  verità 
storica  pura,  e  che  per  que'  miei  sonetti  io  avessi 
cercata  e  attinta  materia  di  verità  nella  storia  che 
della  rivoluzione  francese  compose  nel  1837  Tom- 
maso Carlyle.  Indi  un  vespaio  intorno  a  lui  e  a  me. 
Pace,  ammiratori  e  dispregiatori:  io  non  intesi 
né  intendo  comporre  nessuna  epopea  storica. 
Hanno  ragione  il  signor  Francesco  Rossi  e  il  si- 
gnor G.  O.,  quegli  nel  Presente  del  17  e  questi 
nelle  Serate  torinesi  del  19  maggio:  ha  ragione  il 
prof  Domenico  Milelli  nella  Calabria  letteraria 
del  15  luglio:  né  i  dodici  sonetti  sono  un  lavoro 
epico,  né  1'  epopea  storica  è  fattibile  oggi.  L'  ho 
sempre  creduto,  lo  dissi  da  un  pezzo,  lo  ripeto 
anche  una  volta:  nella  civiltà  ora  vigente  la  epo- 
pea, la  vera  epopea,  è  morta  da  tempo,  è  morta 
per  sempre,  e  la  epopea  storica  non  nascerà  mai, 

per  la  contraddizion  che  no  '1  consente.    . 


394  9A  IRA. 

Epopea  e  storia  sono  due  termini  che  V  uno  am- 
mazza r  altro. 

Vedete  nello  svolgimento  intellettivo  artistico 
del  popolo  greco,  che  per  la  spontaneità  e  com- 
pitezza, per  la  fecondità  e  comprcnsività  sua,  rispec- 
chia tutti  gli  anteriori  e  successivi  svolgimenti 
degli  altri  popoli  ariani.  La  epopea,  la  poesia 
tranquilla,  oggettiva,  recitata  dagli  aèdi  con  so- 
lenne monotonia  senza  cori  né  danze,  finisce 
con  le  monarchie:  l'ombra  di  Omero  che  canta 
dilegua  dinanzi  alla  persona  di  Erodoto  che 
legge.  Con  le  nuove  constituzioni  democratiche 
fiorisce  la  lirica,  la  poesia  commossa,  soggettiva, 
cantata  al  suono  della  lira  da'  poeti  eolii  innanzi 
ai  gruppi  degli  amici  e  delle  donne,  cantata  e  dan- 
zata in  coro  al  suono  di  vari  strumenti  dai  dorii 
innanzi  ai  templi  e  intorno  le  are.  Dopo  le  guerre 
nazionali,  tra  le  guerre  civili,  nei  tumulti  del- 
l'agora  e  dell'eloquenza,  s'impianta  il  dramma,  la 
poesia  tranquilla  insieme  e  commossa,  nella  quale 
il  divino  e  l' umano,  1'  oggettivo  e  il  soggettivo, 
con  un  nuovo  e  alto  intendimento  civile,  si  fon- 
dono, e  la  poesia  e  la  danza  e  la  musica  in  un 
abbracciamento  di  sorelle  concordi  presentano  al 
più  civile  de'  popoli  i  più  nobili  e  subhmi  godi- 
menti dello  spirito  umano. 

La  civiltà  cristiana  fu  complessa  di  molti  più 
elementi  ed  elaborazioni  che  non  la  greca;  ma  an- 
che nelle  letterature  romanze  la  canzone  di  gesta 
cantata  in  monotone  lasse  dai  trovierifrancesi  cede. 


?A  IRA.  395 

Su*l  primo  apparire  delle  cronache  volgari,  alla 
lirica  di  Provenza  e  d' Italia.  Raccolto  di  su  lo 
strascico  della  tradizione  popolare  in  queir  ales- 
sandrinismo audace  e  fantastico  che  fu  il  rinasci- 
mento, il  cantare  epico,  alle  mani  del  Pulci  del 
Boiardo  dell'  Ariosto,  divenne  romanzo  epico  da 
leggere,  e  fu  voluto  trasformare  a  epopea  storica 
e  classica  dal  Tasso;  ma  e  questa  e  quello,  a  grado 
a  grado  che  la  storia  risorse  e  divenne  artistica 
e  politica  co  '1  Machiavelli  e  co  '1  Guicciardini  ed 
erudita  e  critica  co  '1  Sigonio,  sparirono.  La  nuova 
poesia  che  venne  su  tra  le  guerre  civili  della  cri- 
stianità scissa  nella  riforma  fu  la  drammatica,  in 
Inghilterra  e  in  Spagna.  Vero  è  che  il  sentimento 
religioso  della  riforma  ebbe  la  sua  individuale  rap- 
presentazione epica  della  fede  biblica,  come  il  sen- 
timento del  medio  evo  ebbe  quella  delF  universo 
cattolico  nella  Divina  Commedia.  Il  poema  del 
Milton,  tutto  puritano  e  inglese  di  concepimento, 
è  di  forma  etnico-latino;  e  tale  servi  di  modello, 
più  che  non  si  creda,  al  vestire  le  solitarie  ten- 
tazioni epiche  succedenti.  Ma  ora  tutte  queste  tre 
forme  di  epopea,  nessuna  delle  quali  primitiva, 
spontanea,  fatale,  ma  tutte  letterarie,  individuali, 
riflesse,  —  ciò  sono  la  visione  medievale  catto- 
lica in  terza  rima,  neir  andamento  cioè  del  sir- 
ventese di  piazza  nobilitato  e  fissato;  il  poema-ro- 
manzo del  rinascimento  in  ottava  rima,  nel  canto 
cioè  dello  strambotto  pur  popolare,  di  spicciolato 
che  era  or  raccolto  e  continuato;  la  rappresenta- 


39^  9^  iR^' 

zione  epica  solitaria  in  giambici  o  endecasillabi 
sciolti;  in  un  metro  cioè  nuovo  formato  da  let- 
terati;  annunziante  la  separazione  finale  della 
nuova  poesia  filosofica  dalla  vita  collettiva  del 
popolo,  accompagnante  una  poesia  la  quale  non 
potrà  più  essere  per  nessuna  guisa  cantata  e 
che  pure  avrà  la  metrica  presunzione  di  simulare 
tutti  gli  ondeggiamenti  del  pensiero  e  del  senti- 
mento nel  canto  —  queste  tre  diverse  forme  epi- 
che, dico,  la  terzina,  V  ottava  rima,  V  endecasil- 
labo sciolto,  sono  oramai  anch'  esse  finite,  esau- 
rite, sentenziate  al  museo.  Il  Monti,  un  de'  più 
ricchi  signori  del  verso  moderno,  rianimò  tra  il 
tumulto  della  rivoluzione  la  terzina,  ma  tentò 
in  vano  nel  Bardo  di  rendere  sotto  gli  addobbi 
della  gloria  imperiale  1'  agilità  e  il  muscolo  alla 
forte  e  volubile  ottava  epica  dei  Medici  e  degli 
Estensi.  E  il  buon  Grossi,  messo  su  dal  Manzoni 
contro  il  Tasso,  fé'  cecca.  Il  verso  sciolto  poi... 
Oh  il  verso  sciolto  lasciamolo  a'  suoi  vanti  nella 
satira,  nella  didascalica,  nella  descrizione,  nella 
traduzione  e  anche  nella  lirica;  ma  non  doman- 
diamogli, per  amor  delle  Muse,  poema  né  corto 
né  lungo.  E  non  mi  parlate  di  alessandrini.  La 
solenne  monotonia  di  cotesto  gran  metro  del 
duecento,  la  quale  ricorda  e  risuona  la  cadenza 
dei  gran  passi  d'  un  barone  crociato  che  smontato 
da  cavallo  camminasse  tutto  vestito  di  ferro,  voi 
non  avete  il  coraggio  né  la  forza  di  rifarla,  e  il 
vostro    pubblico    non   ha  la   pazienza  di  soppor- 


9A  IRA.  397 

tarla.  U  alessandrino  i  poeti  del  romanticismo 
francese  nella  metà  prima  di  questo  secolo  lo  frat- 
turarono per  renderlo  moderno  e  sermonatore: 
gli  odierni  ne  posson  fare  degli  spezzatini  mus- 
settiani  per  le  donnucce  più  o  meno  parnassiane. 
E  non  altrO;  non  altro. 

Non  domandiamo  dunque  più  epos  moderno  a 
nessun  metro.  Volete  voi  de' poemi  su  Napoleone, 
su  la  rivoluzione  italiana,  su  Giuseppe  Garibaldi? 
Non  ne  mancano,  e  non  mancano  di  pregi;  ma, 
disse  pur  troppo  bene  il  Milelli,  di  rado  riuscirono 
a  farsi  leggere,  sempre  a  farsi  dimenticare.  Sino  il 
poema  —  novella,  il  poema  romantico,  chi  lo  può 
oramai  sofferire?  Ma  non  sentite  voi  la  grande  fal- 
sità de'  poemi  di  Giorgio  Byron,  non  v'  annoiate 
in  quella  cavernosa  vuotezza  popolata  solo  dai  li- 
rici contorcimenti  e  dagli  ululati  di  quel  Laocoonte 
dell'anima  sua? 

Mi  si  vorrà  forse  opporre,  per  la  contenenza 
e  la  larghezza,  il  Don  Giovanni;  e  per  la  ver- 
seggiatura, le  ottave  del  Monti  nella  traduzione 
della  Pule  eli  a,  tanto,  oltre  quello  si  poteva  aspet- 
tare dal  bolso  gonfio  e  sciancato  uso  moderno,  fe- 
licemente e  facilmente  belle,  che  un  bizzarro  fante^ 
molto  mio  amico,  giura  il  Monti  avere  lui  com- 
posto la  Pulce  Ha  in  italiano  bene  e  il  Voltaire 
averla  tradotta  male  in  francese.  Oppongasi 
pure:  io  ribatto:  cotesta  poesia  a  punto  è  l'ul- 
tima prova  provata  che  non  esiste  più  né  più 
esisterà    epopea    di  nessuna  guisa.  Ogni  cartape- 


39^  9^  IRA. 

Cora  dissotterrata  nei  tanti  archivi  che  affliggono 
le  città  civili  soffoca  un  canto  di  epopea  del  pas- 
sato: ogni  chilometro  di  strada  ferrata  arrampi- 
cantesi  o  slanciantesi  per  le  selvagge  altezze  e 
pianure  delle  Alpi  o  degli  Apennini,  di  Calabria 
o  di  Sardegna,  spiaccica  un  pezzo  di  epopea  del- 
r  avvenire:  ogni  accento  e  sogghigno  di  poesia 
come  cotesta  del  Voltaire  e  del  Byron  spenge  a 
ghiado  tutti  i  possibili  fantasmi  di  epopea  per- 
sonale. 

O  begli  occhi  non  so  se  di  musa  o  di  donna, 
in  vano  arridete  sfolgorando  da  lungi:  io  nego  e 
non  affermo:  non  posso  dunque  fare  epopea. 

Il  criticismo  della  storia,  abbattuta  la  epopea 
e  la  tragedia,  lasciò  spuntare  tra  le  ruine,  come 
fiori  di  cardo,  il  romanzo  e  il  dramma  cosi  detti 
storici.  Ebbero  la  vita  dei  cardi.  E  nel  regno  della 
borghesia,  usurpando  insieme  le  forme  del  rac- 
conto epico  e  quelle  della  rappresentazione  dram- 
matica, spampanò  tutte  le  sue  glorie  e  le  sue  do- 
vizie il  romanzo  nuovo  anglo-francese.  Ora  il  po- 
sitivismo batte  in  breccia  anche  quello;  ed  è  venuto 
su  con  di  strane  pretensioni  il  romanzo  speri- 
mentale, che  andrà  a  finire  né  favola  né  scienza, 
a  quella  stessa  guisa  che  il  romanzo  storico  non 
era  né  epopea  né  storia.  Alla  prima  acqua  d'  ago- 
sto, —  pover  omo,  ti  conosco,  dice  il  proverbio  to- 
scano. O  panciuti  zoliani,  che  ora  vi  credete  de- 
molire Vittor  Hugo,  come  volete  allora  esser  buffi! 
Mandate  attorno  gli  spazzaturai  a  raccogliere  su  '1 


9A  IRA.  399 

lastrico  le  vostre  descrizioni,  che  non  ne  vor- 
ranno più  né  men  le  femmine  de*  porci.  Intanto 
positivismo  e  americanismo  lavorano  di  buzzo 
buono  a  macinare  tutto  il  mondo  de'  vecchi  iddei, 
tutto  r  ideale  e  tutto  il  fantastico,  tutto  il  classico  e 
tutto  il  romantico.  Nulla  ha  da  rimanere  in  piedi, 
se  non  il  vero  materiale,  il  vero  che  si  tócca,  che 
si  brancica,  che  si  compra  e  vende,  che  si  am- 
mazza. Coraggio,  Sancio  Panza,  sii  logico.  Tu 
cominci  ad  aver  paura  del  nulla  che  ti  si  discuopre 
nel  tutto?  Non  frignare,  imbecille!  Avanti,  vi- 
gliacco !  Quel  e'  ha  a  esser,  convien  sia.  Nello 
sfracellamento  di  questa  tarmata  società,  domani 
o  dopo  domani,  se  Dio  vuole,  faremo  il  gran 
salto.  Hop  là,  popoli  civiH. 

Per  ora  sarà  bene  che  badi  a  non  saltar  troppo 
io  in  questo  discorso.  Epopea  dunque  no,  né  sto- 
rica né  altra.  Lo  riconobbe  lo  stesso  Scarfoglio, 
quando,  tornato  su  V  argomento  nel  Capitan  Fra- 
cassa del  13  maggio,  accennò  come  il  Carducci 
non  facesse  questo  o  quest'altro  "  perché  non 
voleva  fare  epopea  „,  come  il  Carducci  scegliesse 
una  forma  metrica  pili  tòsto  che  un'  altra  "  perché 
non  aveva  nessuna  premeditazione  epica  „;  dove 
conchiuse  "  non  si  tratta  dunque  propriamente 
d'  epopea:  questi  sonetti  sono  forse  1'  ultimo  stadio 
della  lirica  carducciana  „. 

Ma  —  soggiungeva  —  il  fatto  sta  che  il  Carducci  è  uscito 
dalla  cerchia  magica  della  lirica,  che  egli,  senza  avvedersene 
quasi,  è  entrato  in  un  momento  nel  campo  sereno  della  poesia 


400  (;a  ira. 

oggettiva,  che  la  verità  storica  si  è  subitamente  impossessata 
del  suo  spirito;  e  i  sonetti  sono  scaturiti,  l'uno  dopo  l'altro, 
investendo  e  vestendo  di  una  viva  luce  i  fantasmi  che  si  levano 
più  alti  da  quel  grande  scompiglio.  Questa  certo  non  è  ancora 
epopea;  ma  è  già  il  racconto  o  la  rappresentazione  epica. 

Accetto  il  termine  "  rappresentazione  epica  „, 
interpretandolo  per  un  oflferire  alla  fantasia  e  al 
sentimento  altrui  in  brevi  tratti  come  attuale  e 
senza  mistura  di  elementi  personali  un  avveni- 
mento o  una  leggenda  storica;  a  quella  guisa  che 
feci  altre  volte  con  i  Campi  di  Marengo  e  la 
Canzone  di  Legnano. 

Come  io  non  cerco  la  poesia,  ma  lascio  che 
la  poesia  venga  a  cercar  me,  cosi  avvenne  che 
nel  passato  inverno,  leggendo  la  Rivoluzione 
francese  del  Carlyle,  a  un  certo  punto  da  una 
o  due  espressioni  mi  balzasse  in  mente  il  Qa.  ira. 
Ma  dal  Carlyle  ebbi  la  inspirazione,  nel  più  umile 
significato,  soltanto.  Oh  io  sono  un  troppo  perfi- 
dioso giacobino,  come  volontieri  mi  denominerebbe 
r  onorevole  M.  T.,  sono  troppo  demagogo,  come 
mi  denomina  il  signor  Cancogni,  e  ho  letto  e 
riletto  le  due  storie  della  Rivoluzione  di  Luigi 
Blanc  e  di  Giulio  Michelet;  le  quali,  scritte  dopo 
quella  del  Carlyle,  la  avanzano  di  molto  per  istu- 
dio  largo  e  minuto,  se  non  imparziale,  dei  fatti, 
aiutata  come  fu  la  prima  dalla  preziosa  raccolta 
di  memorie  d'  ogni  genere  della  Rivoluzione  che 
sono  nel  Museo  britannico  di  Londra,  giovata  la 
seconda   da    ricerche   negli   archivi   francesi.    Da 


9  A    IRA.  401 

questi  due  storici  dunque  riconosco  la  materia 
de*  sonetti;  e  non  dal  Carlyle^  il  quale,  secondo 
giudica  benissimo  Y  onorevole  M.  T.,  nell'  esposi- 
zione fantastica  della  rivoluzione  francese  andò 
più  avanti  di  tutti,  e  le  cui  visioni,  come  dice  esso 
signor  M.  T.,  o  le  cui  strofe  in  prosa,  come  di- 
ceva un  amico  mio,  sono  forse  meno  storiche 
de*  miei  versi.  Elessi,  per  la  forma  della  verseg- 
giatura, il  sonetto,  come  quello  che  più  mi  si 
prestava,  o  parevami,  agli  atteggiamenti  risoluti 
e  quasi  in  alto  rilievo  a  tratti  rapidi  risentiti  corti, 
come  quello  che  mi  avrebbe  impedito  di  allar- 
garmi nella  descrizione  o  stemperarmi  nel  lirismo, 
da  poi  che  è  proibito  di  far  bruttura  dinanzi  alle 
muraglie  di  bronzo  della  storia.  E  sentivo  quasi 
un  solletico  di  vanità  in  quella  prova  di  ravvivare, 
dopo  le  odi  barbare,  a  rappresentazione  intentata 
il  vecchio  sonetto. 


III. 


Ma  non  di  cotesto  è  questione.  È  questione 
che  io  faceva  "  lirica  partigiana,  complice  de'  cie- 
chi furori  della  plebe  e  de*  sofismi  dei  demagoghi, 
lirica  e  retorica  repubblicana  „  :  cosi  1*  onorevole 
M.  T.  È  questione  che  in  me  "  prevaleva  un 
sentimento  di  devozione  alla  demagogia,  tale  e 
tanto  da  farmi  tacere  verità  che  forse  mi  scotta- 
vano „:  cosi  il  signor  Cancogni.  È  questione  che 
i  miei  versi  "  augurano  col  canagliesco   e  atroce 

Carducci.  4.  26 


402  9-^  ^^^' 

ritornello  della  ribalda  canzone  non  lontani  trionfi 
al  giacobinismo  in  Italia  „  :  cosi  di  nuovo  1'  ono- 
revole M.  T.  E,  poi  che  "  si  può  dubitare  se 
spetti  al  poeta  il  gettarsi  nel  cuore  dei  contrasti 
sociali  ed  infiammargli,  ma  non  si  può  dubitare 
che,  una  volta  che  si  risolva  a  ciò,  tutto  ciò  che 
nella  sua  poesia  è  forma,  per  bella  che  sia,  questa 
scompare,  e  non  resta  davanti  agli  occhi  che  il 
soggetto  „,  r  onorevole  Bonghi  sorse  a  intimarmi 
di  render  ragione  del  dove  ^a  aboutira.  Se  non 
che,  prima,  per  tutte  queste  ragioni,  T  onorevole 
M.  T.  avrebbe  voluto  che  io  non  avessi  fatto 
nessun  (^  a  ira  —  e  questo  era  forse  il  meglio;  — 
il  signor  Cancogni  avrebbe  voluto  che  nel  ^a  ira 
avessi  compreso  tutta  la  rivoluzione  e  l' impero 
—  e  questo  era  certo  il  peggio;  —  T  onorevole 
Bonghi,  che  che  ne  dica,  avrebbe  voluto  che  io 
avessi  fatto  un  commentario  storico  su  la  rivolu- 
zione e  suoi  beni  e  i  mali  che  ne  derivarono;  — 
e  questo  era  per  avventura  impossibile. 

p?  ira  non  è  per  me,  come  ben  s*  appose 
in  un  impeto  di  benevola  concessione  V  onore-, 
vole  M.  T.,  che  il  motto  storico  d' un  momento 
storico.  Quello  che  il  popolo  francese  aveva 
promesso  a  sé  stesso  che  andrebbe,  andò  di 
fatti  nel  settembre  del  1792.  Ecco  la  ragione 
del  titolo,  e  nel  titolo  la  ragione  della  conte- 
nenza: i  dodici  sonetti  non  potevano  né  dove- 
vano dare  né  più  né  meno  di  quello  promettesse 
il  titolo. 


gA   IRA.  403 

Non  è  di  questo  avviso  il  signor  Cancogni 
della  Libertà,  E  da  poi  che  uno  de'  sonetti  fa 
menzione  di  quelli  tra  i  volontari  e  i  sottoufficiali 
del  '92  che  ottennero  glorioso  luogo  nella  memoria 
degli  uomini,  egli  vorrebbe  nominato  tra  essi 
anche  Napoleone:  del  non  averlo  fatto,  io  sono 
demagogicamente  reo  dinanzi  alla  verità  storica. 
Ma  Napoleone  non  fu  de'  volontari  e  dei  sottouf- 
ficiali del  '92;  proveniente  dalle  scuole  militari  di 
Brienne  e  di  Parigi,  era  già  dal  febbraio  di  quel- 
r  anno  capitano,  né  in  queir  anno  prese  parte  alle 
campagne  contro  l' invasione  degli  austro-prus- 
siani; più  era  còrso:  non  poteva  dunque  essere 
annoverato  tra  gli  "  azzurri  cavalieri  bianchi  e 
vermigli  „  che  nell'estate  di  quell'anno  la  patria 
premea  fuori  dal  seno  plebeo.  Spazi  il  suo  nome 
in  tanti  altri  versi  più  gloriosi  de' miei:  i  miei, 
per  tener  fede  alla  verità  storica,  dovevano  con- 
tentarsi del  Murat  che  fu  pur  re. 

Altri  curiosi  desiderii  ha  il  signor  Cancogni,  o, 
meglio,  troppe  altre  accuse  egli  mi  fa  d' interes- 
sate omissioni;  quanto  più  sempre  esigente  verso 
me,  tanto  men  fortunato  sempre  nel  suo  amore 
per  la  verità  storica.  Ma  come?  perché  io  ricordo 
la  primavera  d'eroi  del  '92,  che  dovere  ho  di 
anche  ricordare  ne'  miei  versi  il  supplizio  di 
Luigi  XVI  e  quello  della  regina,  quello  del  Robe- 
spierre e  compagni?  Il  signor  Cancogni  ragiona 
press'  a  poco  fitto  e  denso  cosi:  —  Se  Hoche  è 
sublime,  è  e  può  dirsi  sublime  soltanto  dopo  aver 


404  (;a  ira. 

ridotto  la  Vandea  all'  obbedienza,  è  alla  fine  del 
'93  in  cui  riprende  agli  alleati  le  lìnee  di  Weis- 
semburg  e  Landau,  cioè  dopo  che  Luigi  xvi  sali 
su  '1  palco.  Marceau  muore  ad  Alten-Kirchen  ner95, 
quando  cioè  Robespierre  e  consorti  han  già  pagato 
co  '1  supplizio  la  loro  tirannia.  Dunque  il  poeta 
dovea  trovar  modo  di  "  spregiare  „  (sic)  il  21  gen- 
naio 1793:  dunque  dovea  trovare  almeno  una  riga 
per  il  28  luglio  1794:  non  lo  fece,  perché,  pre- 
valendo in  lui  un  intendimento  di  "  devozione  „ 
{sic)  alla  demagogia,  come  la  morte  di  Luigi  xvi 
rappresenta  il  delitto  più  pazzo  che  la  dema- 
gogia del  '93  commettesse,  come  il  supplizio  di 
Robespierre  e  consorti  mostra  con  qual  moneta 
paghi  il  demagogo  tutti  quanti,  sieno  eglino  Gia- 
cobini, della  Montagna  o  Girondini,  egli  volle 
tacere  verità  che  forse  gli  scottavano. 

Cosi  scrive  e  ragiona  il  signor  Domenico  Can- 
cogni:  scrive  come  sogliono  scrivere  i  toscani, 
cioè  male  (gli  ho  un  po' rammendato  la  lingua  e 
la  sintassi),  e  ragiona,  ragiona,  o,  meglio,  addi- 
pana ragioni  come  un  arcolaio.  Prima  di  tutto: 
ma  chi  ha  detto  al  signor  Cancogni  che  io  abbia 
méssi  in  versi  per  ordine  di  tempo  i  fasti  e  le 
vicende  dei  generali  venuti  su  dal  '92?  Io  non 
gli  ho  che  annunziati  o  prenunziati  per  quello 
che  saranno  e  faranno:  "  Fantasimi  che  cercano  la 
guerra  „.  Ha  letto  Virgilio  il  signor  Cancogni?  ri- 
corda o  sa  come  Anchise  negli  Elisi  prenunziando 
accenni  ad  Enea  le  anime   che   saranno   cittadini 


9A   IRA.  405 

e  capitani  gloriosi  di  Roma?  E  poi,  in  una  poe- 
tica rappresentazione  del  settembre  1792,  ordinata 
in  dodici  sonetti;  che  idea,  che  pretensione,  che 
gusto  volerci  introdotti  due  fatti  disparatissimi 
tra  loro,  avvenuti  quattro  mesi  o  due  anni  dopo? 
che  giudizio  è  tenere  la  non  introduzione  per 
una  prova  di  "  devozione  „  alla  demagogia?  Cosi, 
avendo  io  nominato  il  Murat  che  fu  poi  fucilato 
nel  1815,  altri  potrebbe  pretendere  che  avessi 
fatto  anche  un  sonetto  su  la  seconda  entrata  degli 
alleati  in  Parigi  e  su  la  carta  di  Luigi  xviii;  e 
passo  passo  su  V  assassinio  del  duca  di  Berry,  su 
la  rivoluzione  del  '30,  e,  di  conseguenza  in  conse- 
guenza, fino  alla  malattia  in  suolo  straniero  del 
conte  di  Chambord,  ultimo  della  linea  diretta  di 
Enrico  iv,  mentre  un  avvocato  regge  lo  stato  che 
una  volta  era  una  cosa  sola  con  Luigi  xvi.  Ma 
cosi  uno  speziale  distende  e  allunga  con  la  spa- 
tola sur  un  pezzo  di  tela  i  vari  ingredienti  per  fare 
il  cerotto  alle  piaghe  del  suo  prossimo;  cosi  un 
giornalista  allunga  di  data  in  data  un  articolo  per 
provvedere  d'  alcuno  specifico  la  politica  amma- 
lata; ma  esso  signore  speziale,  esso  signor  giorna- 
lista, non  possono  pretendere  che  cosi  abbia  a 
fare  un  poeta  i  suoi  versi. 

Veramente  mi  dispiace  di  dover  lasciare  cosi 
a  bocca  asciutta  il  signor  Domenico  Cancogni: 
egli  è  un  troppo  brav'  uomo,  e  per  le  fatiche  che 
si  piglia  alla  caccia,  senza  cane,  della  demagogia 
per  mezzo  le  boscaglie  de'  versi  altrui,  merita  un 


4o6  gA   IRA. 

contentino.  Èccoglielo.  Egli  dunque  avrebbe  voluto 
che  io  spregiassi,  se  piangere  non  voleva,  il  21 
gennaio  1793?  Oh  senta. 

Io  ammiro  Carlo  i:  cosi  finisce  un  re  vero,  un 
re  del  buon  tempo  antico.  Ma  un  uomo  il  quale 
contraffa  ai  giuramenti  più  volte  solennemente 
dati,  alle  dichiarazioni  e  alle  manifestazioni  pili 
volte  vistosamente  scambiate;  un  uomo  il  quale 
accetta  i  ministeri  per  avvilupparli  minarli  infir- 
marli e  ridurli  cosi  nell'  impotenza  e  poi  accagio- 
narli; un  uomo  il  quale  impedisce  la  difesa  dello 
stato,  r  ordinamento  V  approvigionamento  e  la 
distribuzione  delle  forze  militari,  e  corrompe  e 
guasta  1'  esercito,  e  chiama  gli  stranieri  contro  la 
sua  patria  eh'  è  pure  il  suo  regno,  e  manda  agli 
stranieri  e  ne  riceve  disegni  notizie  avvertimenti 
istruzioni,  tutti  in  somma  gì'  instrumenti  e  gli  or- 
digni del  tradimento;  e  di  tutti  questi  delitti  non 
sa  difendersi  se  non  dissimulando,  negando  e 
mentendo;  quell'  uomo,  vigente  la  pena  di  morte, 
è  ben  sentenziato  alla  morte.  Se  non  che  la  con- 
stituzione,  che  egli  non  osservò  e  conspirò  a  di- 
struggere, la  constituzione  lo  sanciva  inviolabile: 
va  bene.  Di  più:  1'  educazione  gesuitica  lo  aveva 
ammaestrato,  e  la  religione  gesuitica  lo  consigliava 
ammoniva  e  scaltriva,  a  usar  la  menzogna  come 
un  doveroso  istrumento  al  servizio  di  Dio  e  a 
difesa  de'  preti  e  di  sé:  attenuante.  Di  più  ancora: 
la  tradizione  del  dispotismo  gli  avea  fazionato 
ingegno,  anima,  le  facoltà  tutte,  a  tenere  per  fermo 


^A    IRA.  407 

che  in  lui  era  ogni  diritto,  che  egli  era  padrone 
di  tutti  e  di  tutto  e  specialmente  della  sua  con- 
scienza; e  che,  per  salvare  gli  attributi  della  mo- 
narchia e  i  privilegi  de'  suoi  fedeli  momentanea- 
mente minacciati  ed  invasi,  egli  potea  far  tutto, 
senza  mai  mal  fare  :  altra  attenuante.  E  dopo  .'* 
dopo  ciò,  io  lamento  che  Luigi  xvi  non  fosse  in 
fatti,  come  la  natura  1'  avea  creato,  un  buono  e 
forte  lavoratore  e  padre-famiglia  plebeo:  ma  per 
il  re  temo  di  sentir  qualche  cosa  che  si  assomiglia 
da  vero  al  disprezzo.  E  Maria  Antonietta  ?  Maria 
Antonietta  fu  donna  leggera,  di  cattivo  cuore,  e 
cagione  e  ragione  principalissima  della  rovina  di 
suo  marito  e  forse  del  regno. 


IV. 


Tutte  le  mattine  io  mi  sveglio  con  una  male- 
detta voglia  di  fare  ai  pugni:  il  mio  primo  saluto 
al  sole  è  uno  sbadiglio  che  par  quello  del  Gon- 
nella quando  diventava  lupo,  quaerens  quem  de- 
voret:  il  primo  sentimento  onde  mi  si  annunzi  la 
vita  sana  è  il  bisogno  della  lotta  per  l'esistenza: 

Quindi  serpe  in  noi  miseri  un  natfo 
Delirar  di  battaglie.... 

Lettori  miei  maligni,  per  mortificare  questa 
parte  ferina  della  mia  natura,  che  dal  fondo  delle 
viscere  ulula  e  bramisce  verso  T  alto  contro  gli 
uccelletti  e  le  farfalle  svolazzanti  tra  i  merli  della 
torre  dell'intelletto,  io /accio,   come    i   contadini, 


4o8  ^A   IRA. 

r  impossibile:  tutte  le  mattine  butto  addosso  al 
corpo  quanta  più  posso  acqua  fredda,  all'  anima 
un'  ora  o  una  mezz'ora  di  lettura  di  testi  di  lingua^ 
massime  ascetici.  Cosi  mi  son  ripassato  i  Dialo- 
ghi  e  i  Morali  di  san  Gregorio  magno,  le  Me- 
ditazioni e  l'Albero  della  croce  di  san  Bo- 
naventura, la  Esposizione  del  Pater  noster 
di  Zucchero  Bencivenni  e  le  Prediche  del  beato 
Giordano  da  Rivalto:  carissimo  frate  questo,  e 
scrittore  molto  più  dilettevole  e  garbato  e  acuto 
ed  arguto  che  non  i  direttori  dell'  Opinione  e  della 
Nazione.  Nel  medio  evo  di  tanti  e  si  pazienti 
sforzi  per  domare  la  parte  ribelle  e  inferiore  avrei 
potuto  raccogliere  di  gran  bei  premii.  Mi  sarei 
fatto  monaco:  chi  sa  non  mi  avessero  fatto  papa? 
E  allora,  giù  colli  d' imperatori  !  Super  aspidem  et 
basiliscum.  Oggi  non  e'  è  che  da  esserne  commen- 
datori; e  tutti  i  fastidievoli  smorfiosi  e  i  mariuoli 
procaccianti,  i  quali  credono  al  peso  specifico 
delle  loro  personcine  e  delle  loro  ciarle  su  '1  globo 
e  che  i  galantuomini  non  abbiano  altra  faccenda 
se  non  di  badare  alle  loro  civetterie  e  d'  aiutare 
le  loro  birberie,  possono  impunemente  scrivermi 
delle  lettere  che  comincino  cosi:  Ella  -  o,  per 
farmi  più  ira,  manzonianamente,  Lei  -  che  è  tanto 
buono  e  tanto  gentile...  -  Ma  chi  ve  1'  ha  detto? 
No,  io  non  sono  buono:  non  sono  un  corrotto. 
No,  io  non  sono  gentile:  non  mento. 

L'  altra  mattina  dunque,  su   1'  atto   di  pigliare 
il  mio  bagno  freddo  spirituale,  mi  trovai  alle  mani. 


9A   IRA.  409 

non  so  come,  in  vece  dei  soliti  testi,  il  volume 
secondo  delle  lettere  del  marchese  Gino  Capponi. 
E  mi  abbandonai  alla  lettura,  obliando  insieme  e 
ricordando.  Rivedevo  il  mio  dolce  paese  di  To- 
scana, là  dove  è  più  bello,  più  sereno,  più  con- 
solato e  consolante,  in  Valdarno.  Vedevo  la  verde 
pianura  ad  aiuole  quasi  di  giardino,  tutte  alberate, 
che  a  mano  a  mano  si  libera  come  ridendo  dalle 
strette  dei  colli  digradanti,  e  di  quando  in  quando 
è  rinserrata  come  con  una  ripresa  d' ultimo  e 
appassionato  abbracciamento  dai  colli  che  risal- 
gono e  le  si  stringono  sopra.  Corre  diritta  per  il 
mezzo  la  bianca  strada  maestra:  scendono  per 
una  traccia  di  salici  e  canne  i  fiumicelli  da' soavi 
nomi,  e  con  gli  stessi  mormorii  che  tante  cose  mi 
dissero  nella  mia  gioventù,  corrono  via  sotto  i 
ponticelli  leggiadri  giù  all'  Arno.  Una  processione 
lunga  lunga  di  pioppi,  le  cui  cime  ondoleggianti 
perdono  figura  e  mobilità  nella  caHgine  biancastra 
del  vespero  autunnale,  segna  e  seguita  la  corrente 
del  fiume.  E  la  pianura  e  i  coUi  sono  popolati  di 
case  rustiche,  bianche  o  dipinte,  con  le  due  scale 
esterne  su  '1  dinanzi  salienti  a  congiungersi  nel 
verone  impergolato,  su  '1  quale  è  un'  insegna  gen- 
tilizia o  una  madonna  che  potrebbe  parere  anche 
robbiana.  Al  pian  terreno  è  la  tinaia,  il  fii-antoio  e 
le  stalle;  1'  aia  in  faccia,  e  a  sinistra  due  o  tre 
pagliai  non  anche  manimessi,  con  un  pentolino  su 
lo  stóllo.  A  pie  de' pagliai  cucciano  i  cani:  e  in 
una  delle  cucce  è  un  bambino,  mezzo   nudo,  che 


4IO  (;a  ira. 

fa  alle  braccia  co  '1  cane.  Il  cane  gli  ringhia  ca- 
rezzevole su  '1  mostaccino  tondo  e  imbrodolato,  e 
gli  tiene  le  zampe  amorosamente  leggero  su  le 
spalle,  e  il  bambino  si  dà  pur  da  fare  per  atterrarlo: 
il  piccolo  uomo  vuol  vincere,  e  casca  battendo  il 
naso,  e  piange;  e  il  povero  cane  mugola  scodinzo- 
lando e  abbaia  verso  la  casa.  E  le  stalle  mug- 
ghiano. Mi  paiono  proprio  gh  stessi  mugghi  che 
io  sentiva  e  capiva  cosi  bene  negli  anni  migliori. 
Forse  sono  gli  stessi  bovi,  e  io  ho  finora  sognato: 
mi  richiamano:  li  intendo  ancora.  —  Vieni,  amico. 
Che  fai  di  là  dagli  Apennini?  Non  hai  anche  tu 
lavorato  a  bastanza  per  la  tua  sementa  di  làppole  e 
pugnitopi?  Vieni  :  la  panzanella  con  le  cipolline  e  il 
basilico  è  cosi  buona  la  sera!  —  Grazie,  cari  bovi: 
voi  parlate  toscano  molto  meglio  dei  contadini  del 
padre  Giuliani,  e  avete  gusti  molto  più  semplici  e 
sani  de*paolotti  del  Circolo  filologico  di  Firenze; 
e  se  in  Toscana  non  ci  fossero  che  delle  bestie 
grandi  e  grosse  e  oneste  come  voi,  oh  come  ci  tor- 
nerei volontieri  !  —  Veggo  la  fattoria,  là  a  mezzo  la 
collina,  di  costa  tra  gli  oleandri  rosacei  e  i  melo- 
grani dal  verde  metallico,  con  gli  olivi  sopra  e 
d'  intorno;  la  grossa  fattorìa  con  le  persiane  verdi 
€  le  bózze  agli  angoli  della  facciata,  co  '1  terraz- 
zino e  la  balaustrata  di  pilastrini  tondi  e  panciuti 
da  tutte  le  parti  come,  sai'  mi  sia,  Jorick,  con  le 
ferriate  medicee  inginocchiate  e  tronfie  come  la 
prosa  di  Augusto  Conti.  Esce  la  fattoressa,  e  dà 
beccare    ai    pavoni:    la    fattoressa  parla,   in   fede 


9 A   IRA.  411 

mia,  come  le  donne  del  Boccaccio:  i  pavoni  si 
mirano  le  penne  e  paupulano,  come  fossero  tanti 
romanzieri  della  collezione  Sommaruga.  Al  dia- 
volo pavoni  e  romanzieri.  —  Veggo  e  saluto  su 
la  cima  del  colle  tra  boschetti  di  lauri,  la  villa  con 
le  belle  logge  cinquecentistiche,  che  sorge  splen- 
dente nel  rosso  tramonto.  Dietro  ha  il  monte  ri- 
pido; e  su  '1  monte  una  fila  di  cipressi  gracili  e 
austeri  dentellano  del  loro  verde  cupo  1'  orizzonte 
settentrionale  tinto  in  colore  di  perla.  Anche  più 
in  dietro  è  una  torre  o  un  castello.  Non  me  ne 
importa.  Voglio  vedere  il  sole  calante  che  dà  nelle 
vetrate  al  pian  superiore  della  villa,  e  quelle  pa- 
iono incendiarsi  come  al  riflesso  d'  uno  scudo  in- 
cantato. Voglio  vedere  il  sole  che  passa  per  le 
finestre  del  primo  piano  e  si  sfoga  nella  gran  sala 
per  le  finestre  del  fondo.  Tutto  il  sole  e  tutto  il  cielo, 
co  *1  nuvolo  di  pulviscoli  d'oro  che  lo  splendor  del 
tramonto  raccoglie  dalla  terra,  inebriata  di  luce, 
circola  con  voluttuosa  letizia  per  la  villa  serena. 
O  madonna  Laldomine,  fatevi  al  verone  tutta  ve- 
stita d'  argento  a  udire  1'  ultima  ballata  d'  amore 
della  poesia  itahana  che  fu.  Uscite,  uscite,  ma- 
donna, prima  che  V  umida  sera  cali  e  ci  avvolga. 
Ma...  leggevo  le  lettere  di  Gino  Capponi.  Ah 
si!  Come  va  dunque,  sanculotti  miei  manzoniani, 
che  il  marchese  Gino  scrivendo  non  sproposita, 
non  sgrammatica,  non  mescola  riboboli  e  france- 
sismi, non  passeggia  in  maniche  di  camicia,  non 
affetta  lo  scimunito,  la  donnàccola,  il  bamberottolo 


412  (;a  ira. 

e  il  ciano?  Forse  perché  è  toscano  da  vero  e  di 
razza;  di  quella  gran  razza,  che  dava  i  priori  i 
commissari  gli  ambasciatori  e  gli  scrittori  del  tre- 
cento e  del  cinquecento.  Nel  suo  stile  e  nella  di- 
zione, nei  sentimenti  e  nei  concetti,  intendo  spe- 
cialmente delle  lettere,  si  sente  1'  uomo  che  ha 
parlato  fin  da  bambino  coi  veri  contadini  di  Val- 
darno  e  ha  studiato  i  prosatori  greci  coli' abate 
Zannoni,  che  intende  benissimo  e  gusta  fino  a  un 
certo  segno  i  béceri  ma  ha  letto  e  gusta  forse  di 
pili  r  epistole  famigliari  di  Cicerone,  che  scrive 
francese  al  Lamartine  e  vaglia  le  varianti  della  Di- 
vina Commedia,  che  legge  ed  ammira  gli  scrittori 
inglesi,  un  po'  meno  i  tedeschi,  sempre  quanto  è 
giusto,  ma  lungi,  oh  ben  lungi,  dalla  vigliaccheria 
dei  professorucoli  e  degli  articolisti  prosternantisi 
a  ogni  malcreato  che  ci  ruzzoli  giù  dall'  Alpi  per 
rubargli  il  moccichino  e  inalberarlo  su  la  cattedra 
e  sventolarlo  dalla  gazzetta,  gridando  —  Questo 
è  il  vessillo  della  scienza  e  dell'  avvenire. 

Nella  prosa  del  marchese  Gino  ciò  che  più 
attrae  è  la  proporzione,  la  compostezza,  la  di- 
screzione :  virtù  o  qualità  superiori  dello  scrivere,. 
nelle  quaH  l' animo  del  lettore  si  riposa  e  con- 
tenta, come  r  occhio  dello  spettatore  nelle  linee 
degli  edifizi  fiorentini.  Si  sente  eh'  egli  è  nato 
bene,  che  ha  respirato  nella  tradizione  e  nell'  edu- 
cazione d' una  famiglia,  la  quale  dai  lontani  avi 
visse  abitò  e  parlò  civilmente,  quella  urbanità 
schietta,  quel  nativo    decoro,   quella   virile   bontà. 


9A   IRA.  413 

onde  la  eleganza  esce  "  umile  e  piana  „  come  le 
donne  dei  canzonieri  di  Dante  e  di  Gino,  e  la  fa- 
migliarità acquista  abito  e  forma  signorile.  Il  mar- 
chese Gino  come  scrittore  è  di  quelli  che  non  han 
bisogno  di  mettersi  i  guanti  per  parer  gentiluomini. 
Ma  a  voi;  commendatori  e  conti  novelli;  a  voi 
scrittori  d*  una  aristocrazia  di  borghesucci  aspi- 
ranti alle  altezze  del  demi-monde,  non  e'  è  guanti 
che  bastino  a  mascherare  e  rifare  le  mani;  le 
sporche  mani,  le  grosse  e  nocchiute  mani;  le  mani 
storte  ed  unghiutC;  le  mani  ricamate  od  incise  di 
porri  di  verruche  di  schianzC;  che  accusano  ben 
altri  mestieri  che  il  nobile  esercizio  del  fabbro  o 
del  contadino. 

Già;  e  questo  marchese  Gino  in  una  lettera 
del  15  gennaio  1842  a  Cesare  Cantù  scriveva  : 
"  Ognun  ha  i  suoi  gusti:  iO;  quando  piglio  la  penna 
in  manO;  ho  sempre  la  voglia  di  farmi  bastonare  „. 

Gin  marchese  gentil,  quanto  mi  piacque! 

Lo  stessO;  io. 

Bastonatemi  un  po';  se  potete;  lettori  maligni. 

Io  séguito. 

V. 

Or  discendiamo  omai  a  maggior  pietà, 

discendiamo  ai  macelli.  E  ora  anche  apritevi;  o 
cateratte  dei  cieli;  e  versatemi  in  capo  tutti  i  tuoni 
della  indignazione  ;  apritevi;  o  fogne  della  terra, 
e  sputatemi  in  faccia  tutte  le  tanfate  del  disgusto 


414  9^  IRA. 

e  dello  schifo,  che  la  sensìbile;  la  solenne,  la  ve- 
reconda, la  coturnata  e  impennacchiata  critica 
italiana  ha  messo  da  parte  per  me. 

Comincia  1'  onorevole  M.  T.  "  Nel  vi  e  nel  vii 
—  egli  scrive  —  fra  il  tappeto  ed  il  bossolo  di 
belle  frasi  e  d' imagini  potenti  si  fanno  sparire  le 
orrende  stragi  di  settembre,  di  cui,  come  tutti 
sanno,  il  principal  merito  appartiene  al  "  pallido 
enorme  (bell'aggettivo  victorughiano)  Danton  „, 
Di  passaggio:  se  i  due  aggettivi  dati  al  nome  di 
Danton  non  hanno  altro  difetto  che  di  essere 
victorughiani,  non  vorranno  darsi  a'  cani  per  ciò. 
Gli  epiteti  nella  elocuzione  poetica  sono  di  due 
maniere:  epici  e  lirici:  insigni  nelle  odi  di  Orazio 
i  secondi,  i  primi  in  Virgilio  e  in  Omero.  Eschilo 
tra  gli  antichi,  lo  Shelley  e  1'  Hugo  tra  i  moderni 
hanno  epiteti  di  potente  invenzione,  epici  e  lirici 
insieme,  statuari,  mobili,  coloriti.  E  anch'io  qual- 
che volta  secondo  le  forze  mie  cerco  di  farne  cosi. 
Quanto  al  mio  giocar  di  bussolotti  per  fare  sparire 
le  orrende  stragi,  se  all'  onorevole  M.  T.  1'  "  or- 
ribile corteo  „  del  sonetto  nono  e  la  "  perdi- 
zione „  e  il 

tribunale  orrendo 
Che  d'ombra  immane  il  secol  novo  impronta 

del  settimo,  oltre  il  concetto  fondamentale  di 
tutti  insieme  i  tre  sonetti  micidiali,  paiono  pol- 
vere di  pimpirimpi,  non  so  che  farci;  ma  non 
per  questo  vorrò  imparare  a  gonfiar  la  piva 
dai  predicatori   legittimisti.    Di    poeti   predicatori 


9A   IRA.  415 

l'Italia  ne  ha  a  sufficienza:  l'onorevole  M.  T. 
certo  non  ne  desidera  altri,  e  sarebbe  un  far  torto 
al  suo  buon  giudizio  il  supporre  eh'  ei  vagheg- 
giasse una  varietà  nuova,  la  poesia-eloquenza  a 
uso  pubblico-ministero.  "  Non  è  dimenticato  —  se- 
gue r  onorevole  M.  T.  —  nemmeno  Marat  colla 
sua  continua  morbosa  visione  di  sangue:  ma  si  può 
dire  in  coscienza  e  buon  senso  che  in  qualunque 
modo  giovasse  alla  difesa  della  patria  questo  mo- 
stro, non  mai  sazio  di  spinger  vittime  al  patibolo?  ,, 
Ma  né  io  dissi  cotesto,  né  dissi  nulla  che  a  co- 
testo somigli.  Io  dissi  in  versi  quello  che  fu  in 
fatti  il  settembre  del  '92.  I  fatti  si  riducono  a  due  : 
la  difesa  della  patria,  ispirata  dalle  nobili  tradi- 
zioni e  dallo  spirito  eroico  della  nazione  francese: 
le  stragi,  consigliate  dalla  paura  e  consumate  con 
quel  delirio  di  fanatismo,  di  torva  leggerezza,  di 
avv-entatezza  feroce  che  è  nel  sangue  celtico,  e 
che  si  rinnova  a  fatali  periodi  in  tutte  le  rivolu- 
zioni per  le  quali  passò  e  passa  quel  popolo,  fosse 
pagano  o  sia  cristiano,  si  nei  tumulti  popolari  si 
nelle  conspirazioni  monarchiche,  cosi  al  mezzo- 
giorno come  al  settentrione,  e  tra  le  corti  d' amore 
e  nel  rinascimento  e  dopo  1'  enciclopedia.  Anche 
il  Monti  vide,  con  intuizione  più  che  di  poeta. 

De' Druidi  i  fantasmi  insanguinati 
Che  fieramente  dalla  sete  antiqua 
Di  vittime  nefande  stimolati 

A  sbramarsi  veni'an  la  vista  obliqua 
Del  maggior  de' misfatti... 


4l6  9A   IRA. 

Onde  uno  studente  tecnico  di  ventidue  anni,  in- 
terrogato air  esame  finale  qual  fosse  1'  argomento 
della  Bassvilliana;  rispondeva,  la  decapitazione 
di  Ugo  Basseville  eseguita  da' druidi:  il  che  può 
anche  dimostrare  la  saviezza  e  la  opportunità  del- 
l' aver  dato  quella  classicissima  cantica  per  libro  di 
testo  agli  instituti  tecnici.  Del  resto,  ne' miei  so- 
netti nulla  di  più,  nulla  di  meno  di  quello  che 
avvenne:  Danton,  come  ispiratore  e  valido  soste- 
nitore della  difesa  nazionale:  Marat,  come  insuf- 
ilatore  delle  stragi:  e  le  stragi  non  difese,  non 
scusate,  ma  spiegate  come  triste  atavistica  eredità 
di  sanguinosa  ferocia  e  di  espiatorie  vendette 
nella  pur  troppo  non  lieta  istoria  dei  gallo-romani- 
francesi. 

Il  signor  Domenico  Cancogni  a  questa  volta  è 
più  benigno  con  me  e  co'  miei  eroi  :  "  quei  tanti 
pazzi  „  egli  dice  "  che  passano  sotto  gli  occhi 
del  terribile  Danton,  del  feroce  Marat,  cogli  erti 
pugnali  „.  Ma  chi?  ma  dove?  Io  ho  scritto, 

Marat  vede  ne  l'aria  oscure  torme 
D'uomini  con  pugnali  erti  passando, 
E  piove  sangue  donde  son  passati. 

Se  il  signor  Cancogni  crede  che  in  quel  ne- 
fasto 2  settembre  le  leggi  di  natura  fossero  cosi 
pervertite  e  rotte  che  gli  uomini  camminassero 
per  aria,  io  non  ho  che  dire;  ci  pensi  lui.  Ma  il 
fatto  è  che  in  quei  versi  io  accennava,  come  in- 
tese r  onorevole  M.  T.,  alla  "  continua    morbosa 


9 A   IRA.  417 

visione  di  sangue  „  deW Amico  del  popolo,  il  quale^ 
non  molto  innanzi  il  2  settembre,  aveva  scritto 
gli  basterebbero  non  ricordo  quante  diecine  di 
napolitani  con  un  bravo  pugnale  in  mano  e  le 
maniche  della  camicia  rimboccate  per  purgare  e 
salvare  la  Francia.  Vegga  dunque  il  signor  Can- 
cogni  che  io  nell'  espressione  fui  fedele  alla  verità 
storica  un  poco  più  che  a  lui  non  paia;  e  prov- 
veda un'altra  volta  a  legger  bene:  è  il  meno  che 
si  possa  pretendere  da  un  critico  di  poesia.  E  av- 
verta per  intanto  che  a  lui  si  risponde,  solo  perché 
scrisse  nella  Libertà)  e  si  risponde  non  per  indurre 
la  Libertà  a  mutare  1'  appendicista  letterario,  ma 
per  indurla  o  persuaderla,  potendo,  lei  e  i  giornali 
simili  a  lei,  a  non  voler  mai  mai  discorrere  né  di 
poesia  né  di  critica  né  di  lettere  né  d'  arte.  Un 
giornale  cosi  profondamente  politico  che  ha  da  far 
di  tutte  queste....  ariosterie?  Eh  via,  in  carattere 
onorevole  LibertàX  Io  compiango,  non  vorrei  dir 
peggio,  i  giovani  che  si  umiliano  ai  diarii  politici 
per  averne  la  consecrazione  di  artisti. 

Terzo  nella  giostra  il  professor  Licurgo  Cap- 
pelletti mi  affronta  con  un  colpo  cortese: 

L'egregio  autore  chiama  il  settembre  1792  «  il  momento  più 
epico  della  storia  moderna  ».  Ed  io  pure  mi  sottoscrivo  a  questa 
definizione,  ma  in  parte.  Se  il  Carducci  vuol  fare  apparire 
come  un'epopea  le  stragi  tremende  ed  inutili  dei  prigionieri 
dell'Abbadia,  della  Conciergerie,  dello  Chatelet,  del  Lussem- 
burgo, ecc.,  mi  guarderò  bene  dal  dividere  la  sua  opinione.  Gli 
uomini  che  sgozzano  per  l'unico  scopo  di  bearsi  nel  sangue, 
che  non  la  risparmiano  né  a  vecchi  né  a  donne  né  a  fanciulli, 
Carducci.  4.  27 


4l8  9A    IRA. 

che  assassinano  senza  nemmeno  sapere  il   perché,   sono    forse 
degni  di  essere  tramandati  alla  posterità  per  mezzo  dell'epopea? 

Ringrazio  (pigliando  il  frasario  dell'occasione) 
con  r  animo  profondamente  commosso  Y  egregio 
professore  della  impartitami  lezione  d' umanità  ; 
e  gli  uomini  savi  che  vogliono  andare  a  letto 
senza  il  pericolo  di  svegliarsi  la  dimane  con  la 
testa  tagliata  tra  le  gambe  della  moglie  non  po- 
tranno mai  lodarlo  a  bastanza  di  questa  franca, 
nobile,  coraggiosa  secessione  eh'  egli  fa  dalle  opi- 
nioni d' un  poeta  settembrizzatore,  e  della  sen- 
tenza con  la  quale  oltrepassa  su  l' eccidio  verseg- 
giato della  principessa  di  Lamballe:  "  Secondo 
noi  —  scrive  1'  egregio  professore  —  qui  1'  epopea 
sparisce;  e  non  rimane  che  il  nudo  racconto  dei 
massacri  e  degli  assassinii  perpetrati  da  una  mol- 
titudine ubriaca  ed  avida  di  sangue  „.  Risento  in 
queste  parole  gli  echi  di  quella  nobile  scuola 
toscana,  tutta  dignità,  tutta  umanità,  tutta  tempe- 
ranza, dibattente  le  ali  di  struzzo  per  un  nuvolate 
bambagino  di  frasi.  O  dolcissima  scuola  che  fissava 
e  fissa  le  norme  all'epopea  e  al  dramma  dall'au- 
tocrazia de'  suoi  sensi  e  de'  suoi  gusti,  educati 
alla  pappa  co  '1  pomidoro,  o  coli'  aglio  vermifugo 
del  regime  mediceo  lorenese!  Peccato  che  Omero  e 
Dante  e  Shakespeare  mangino  le  bistecche  crude. 

Ah  dunque  l' epopea  non  vuole  atrocità?  O 
Achille  che  trascina  nella  polvere  dietro  al  suo 
cocchio  intorno  alle  mura  di  Troia  e  al  feretro 
di    Patroclo    il    cadavere    di  Ettore  attaccato  con 


9A   IRA.  419 

le  briglie  traverso  le  piante  de*  piedi  forati? 
Achille  che  intorno  al  rogo  di  Patroclo  scanna 
i  dodici  giovinetti  troiani?  O  i  Nibelunghi  non 
son  tutti  una  tela  di  tradimenti  e  uccisioni,  fino 
air  enorme  combattimento  dei  Burgundi  e  degli 
Unni  nella  sala  del  banchetto  e  all'  incendio  che 
Krimilde  mette  alla  sala  contentando  nella  strage 
di  due  popoli  la  sua  vendetta?  E  qui  mi  scusi 
r  onorevole  M.  T.,  a  cui  vengo  con  trapasso  un 
po'  rapido  :  ma  delle  due  caratteristiche  che  egli 
vuol  riconoscere  nella  epopea  — ■  la  genuina  ed  alta 
umanità  e  la  espressione  dei  destini  della  specie  — 
sol  la  seconda  pare  a  me  esistere.  Achille  e  Sig- 
frido non  sono  ciò  che  intendono  i  più  per  umano^ 
o  sono  umani  nel  vero  senso  della  parola,  cioè 
un  po' anche  bestiali;  ma  forti  e  belH  sono  splen- 
didamente, ed  esprimono  e  prenunziano  proprio 
i  destini  della  gente:  Achille  è  già  Alessandro. 

Che  se,  tornando  al  professor  Cappelletti,  le  uc- 
cisioni e  le  stragi  non  sono  epopea,  tanto  meno 
dovrebbero  essere  dramma,  che  è  poesia  messa 
in  azione  e  posta  sotto  gli  occhi  di  tutti.  O  il 
Macbet,  o  l'Amleto,  o  il  Riccardo  ni,  o  tutti 
gli  Enrichi  di  Shakespeare?  O  gli  orrori  delle 
tragedie  greche?  Ma  che?  O  le  più  belle  opere  di 
pittura  delle  quali  si  glorii  1'  arte  cristiana,  mas- 
sime in  Itaha  e  in  Spagna,  non  figurano  stragi 
abominose  di  vecchi  cadenti,  di  madri  co'  bam- 
bini, di  vergini  e  spose  con  di  molta  carne  nuda, 
con   tutte    le    carni    nude?    E  dopo    ciò,  voi  non 


420  9^  IRA. 

vorreste  che  io  mettessi  in  versi,  che  in  fine  non 
han  colori,  V  ammazzamento  d*una  donna  sola!  Eh 
via,  non  spaventate  la  gente  per  cosi  poco.  An- 
date, andate,  onesti  esercenti,  e  voi  degni  proprie- 
tari, e  voi  lucidi  salsamentari,  andate  pure  al  ballo 
o  a  letto  sicuri.  Se  le  pitture  delle  sante  martiri  non 
fecero  in  tanti  anni  propaganda  di  macelleria,  non 
saranno  certo  quattordici  versi  che  persuaderanno 
in  pochi  giorni  i  demagoghi  incuriosi  di  poesia 
a  scannarvi  le  vostre  spose  e  le  amanti  e  gettarle 
nude  su  '1  lastrico. 

VI. 

Ma  i  due  più  illustri  miei  critici  sono  tutt*  al- 
tro che  persuasi  della  innocenza  in  sé  di  cotesta 
mia  rappresentazione  poetica. 

Il  colmo  dell' abberrazione  —  scrive  1' onoi'evole  M.  T.  — 
è  il  sonetto  vni,  che  non  esito  a  dichiarare  (benché  mate- 
rialmente ottimo)  un  delitto  contro  tutte  le  muse:  e  dicendo 
muse,  non  intendo  le  mitiche  figlie  della  Memoria,  ma  quanto 
vi  ha  di  più  nobile  e  di  più  gentile  nell'anima  umana.  Né  mi 
si  dica  che  l'orribile  strazio  della  principessa  di  Lamballe 
innocente,  o  non  rea  che  di  leggerezza,  fu  severa  ed  ancora 
scarsa  espiazione  della  lunga  orgia  che  illustri  donne  e  com- 
piti signori,  a  cominciare  dal  «  primo  gentiluomo  di  Francia  », 
avevano  fatto  di  quel  vile  secolo  decimottavo:  no:  quando  la 
poesia  raccoglie  ed  esprime  la  religiosa  commozione  di  queste 
tremende  espiazioni,  non  prende  gaiamente  il  linguaggio  della 
nefanda  feccia  che  ne  è  stata  strumento. 

Ah  proprio  vero,  onorevole  M.  T.  ?  Sas  tii  e'  at 
è  fori?  Ma  io  son  duro  di  pelle  e  forse  anche  di 
cuore,  e  dalla  ardenza  della  indignazione  senato- 


gA  iraj  421 

ria  passo  al  freddo  sarcasmo  della  camera  infe- 
riore. Un  vero  bagno  russo. 

"  Il  poeta  vuole  adunque  —  scrive  V  ono- 
revole Bonghi  —  che  noi  guardiamo  i  fatti  co- 
gli occhi  suoi  „.  —  Io  veramente  non  volevo  dare 
a'  miei  lettori  e  specie  a'  critici  questo  incomodo, 
tanto  più  che  non  posso,  ma  e  lettori  e  critici,  se 
vogliono,  si  servano  pure:  guarderanno  i  fatti  con 
gli  occhi  di  un  poeta  (mi  lascio  andare  a  dir  cosi 
per  amore  della  brevità)  che  ha  da  ridurre  in 
versi  un  avvenimento  storico.  Se  non  che  V  ono- 
revole Bonghi  non  la  vede  tanto  liscia,  e,  per  un 
resto  di  bene  che  mi  vuole,  si  affretta  a  ripren- 
dere —  "  Ma  fuori  del  sonetto  non  li  guarda 
neanche  egli,  spero,  allo  stesso  modo.  Si  fa,  dubito, 
una  natura  posticcia  per  poetare  a  quel  modo  „  — . 
Questo  potrebbe  darsi  pur  troppo.  Ecco:  io  vorrei 
riguardare  i  fatti  storici  con  gli  occhi  con  che  li 
riguardavano  Dante,  Shakespeare,  e  anche,  veda 
un  po'  r  onorevole  Bonghi,  Raffaello,  per  poi  poe- 
tarli e  rappresentarli  a  modo  di  essi.  E,  come 
dinanzi  a  quelle  ricche  e  grandiose  nature  di  ar- 
tisti io  sono  un  pover  uomo,  può  darsi  benissimo, 
ripeto,  che  mi  meriti  il  rimprovero,  in  questo  spe- 
cialissimo caso,  di  natura  posticcia. 

"  Oh  davvero  —  incalza  V  onorevole  Bonghi  — 
la  signora  di  Lamballe  che 

...  giacque,  tra  i  capelli  aurei  fluenti, 
Ignudo  corpo  in  mezzo  de  la  via; 
E  un  parrucchier  le  membra  anco  tepenti 
Con  sanguinose  mani  allarga  e  spia, 


422  ^A    IRA. 

non  isveglia  nel  cuore  e  nella  mente  del  poeta 
italiano,  oggi,  altro  pensiero  se  non  uno  quasi  di 
scherno  ? 

Comf*  tenera  e  bianca  e  come  fina! 
Un  giglio  il  collo  e  tra  mughetti  pare 
Garofano  la  bocca  piccolina. 

Su,  co'begli  occhi  del  color  del  mare, 
Su,  ricciutella,  al  Tempio!  A  la  regina 
Il  buon  di'  de  la  morte  andiamo  a  dare. 

Per  vero  dire,  preferisco  il  parrucchiere,  quan- 
tunque mi  sarebbe  piaciuto  in  sua  vece  un  altro 
artista  „.  Mi  dispiace  di  non  poter  lasciare  all'ono- 
revole Bonghi  libertà  di  scelta:  bisogna  che  si 
contenti  del  parrucchiere:  parrucchiere  fu.  La  sto- 
ria non  ha  preferenze  estetiche.  —  "  Almeno  — 
riattacca  V  onorevole  Bonghi,  scarnandomi  fiera- 
mente con  lo  scalpello  della  sua  psicologica  inqui- 
sizione —  "  almeno  nella  sua  ferocia  v'ha  un  sen- 
timento gagliardo;  l'agita  un  odio  profondo.  Ma 
davanti  a  una  uccisione  cosi  crudele,  di  cosi  leg- 
giadra forma  di  donna  intrisa  nel  sangue,  vi  basta 
r  animo  a  guardarne  senz'  altro  il  collo  bianco,  la 
bocca  rosea  e  gli  occhi  cerulei!  Vero?  E  poiché 
è  poco  lontana  e  ricorre  al  pensiero  un'altra  donna, 
che  aspetta  la  stessa  fine,  il  cadavere  di  quell'  uc- 
cisa non  serve,  per  ciò  solo  che  l'altra  è  regina, 
se  non  a  farvi  sollecitare  il  passo  per  annunciare  à 
quella  "  il  buon  di  de  la  morte  „  ?  C  è  pensiero  qui 
o  manca  in  tutto?  E  il  verso  suona  soltanto  o  crea 
anche?  „  —  Rappresenta,  onorevole  Bonghi.  Non 


9A    IRA.  423 

si  crea  più.  —  Ma  V  onorevole  Bonghi  tira  pur 
via  a  schiacciarmi  con  una  contrapposizione.  "  Un 
altro  poeta  —  scrive  —  un  francese  che  aveva 
desiderata  la  rivoluzione  e  ci  si  era  gettato  dentro^ 
ma  che,  come  presente  eh'  egli  era,  non  si  lasciava 
rubare  dalla  fantasia  e  dalla  frase  il  sentimento 
del  vero,  scrisse  di  quella  signora  non  ancora 
uccisa,  ma  prigioniera,  ben  altri  versi.  L' immagi- 
nava, anzi,  dice,  la  sentiva  nella  carcere  a  lamen- 
tare la  sua  vita  troncata  nel  fiore, 

L' illusion  feconde  habite  dans  mon  sein,  ecc.; 

e  vada  nello  Chénier,  chi  vuole,  a  leggere  il  resto  „• 
Ci  vada  pure,  e  cerchi  a  pagine  460-462  lvii 
delle  Poésies  de  André  Chénier,  seconda 
edizione  critica  del  signor  Becq  de  Fouquières, 
Paris,  Charpentier,  1872,  e  al  tomo  in  pag.  263 
delle  Oeuvres  poétiques  de  André  Ché- 
nier pubblicate  di  su  gli  autografi  dal  nipote  di 
lui  Gabriel  de  Chénier,  Paris,  Lemerre,  1874.  Vada 
e  vedrà  che  i  versi  intitolati  La  Jeune  captive,  ai 
quali  si  riferisce  l'onorevole  Bonghi,  furono  com- 
posti nelle  carceri  di  San  Lazzaro,  dove  lo  Ché- 
nier era  chiuso  il  17  ventoso  anno  due,  cioè  7 
marzo  1794,  ^  ^^  ^ra  tratto  il  7  termidoro  (25 
luglio)  per  il  patibolo.  Non  poterono  dunque  es- 
sere stati  composti  che  nella  primavera  o  nell'e- 
state del  '94,  cioè  un  anno  e  mezzo  o  quasi  due 
anni  dopo  la  morte  della  signora  di  Lamballe.  Di 
fatto  erano    inspirati    da    madamigella    Amata   di 


424  ?A   IRA. 

Coigny  allora  diciottenne,  che  poi  fu  duchessa  di 
Fleury  e  mori  nel  1820.  Ma  diavolo  !  Come  avrebbe 
il  poeta  potuto  far  dire  di  sé  stessa 

Mon  beau  voyage  encore  est  si  loin  de  sa  fin! 
Je  pars,  et  des  ormeaux  qui  bordent  le  chemin 
J'  ai  passe  les  premiers  à  peine    .    .    . 

alla  signora  di  Lamballe,  che,  se  bene  conservasse 
un  che  d' infantile  e  fosse  bene  in  carne  e  fresca 
quando  fu  trucidata,  aveva  passato  la  quarantina 
più  che  non  le  si  avvicinasse? 

E  ora  lasciamo  pur  dire  all' onorevole  Bonghi: 
"  A  me  lasciano  questi  versi  una  infinita  malin- 
conia neir  animo;  e  la  chiusa  del  sonetto  del  Car- 
ducci -  devo  dirlo  -  un  infinito  disgusto.  Ma  forse 
ho  il  cuore  mal  fatto;  e  mi  devo  purgare  di  un 
resto  di  sentimentalità,  che  non  è  cosa  moderna 
e  molto  meno  dell'  avvenire  „.  —  Io  concedo  vo- 
lentieri a'  miei  nobili  avversari  anche  l' ironia  : 
ma  non  importa  eh'  io  ricordi  loro  come  l' ironia, 
per  essere  forma  efficace  di  argomentazione,  bi- 
sogna posi  su  '1  vero.  Ora,  e  1'  onorevole  Bonghi 
e  r  onorevole  M.  T.  e  gli  altri  più  dilettevoli  cri- 
tici sono  eglino  nel  vero  quando  m' imputano  di 
immorale  atrocità  e  di  cinismo  perverso  o  di  aber- 
razione mentale  per  il  sonetto  su  la  principessa 
di  Lamballe? 

Questi  animi  turbati  e  queste  gravi 
Sedizioni  e  tanto  orribil  moto 
Potrai  tosto  quetar  se  getti  un  pugno 
Di  polve  in  aria  verso  quelle  schiere. 


9A    IRA.  425 

E  la  polvere  sarà  non  altro  che  poche  parole 
d'  un  gesuita,  ma  d'  un  gesuita  innocuo  —  forse 
perché  non  più  gesuita  —  in  un*  opera  innocen- 
tissima  e  discorrendo  d'  uno  de'  più  gentili  e  più 
nobili  spiriti  che  abbiano  onorato  la  gente  italiana. 
Il  gesuita  è  il  dotto  e  giudizioso  abate  Lanzi; 
l'opera,  la  storia  della  pittura;  e  l'artista  di  cui 
è  discorso,  il  soavissimo  Raffaello. 

Se  non  che  prima  della  pagina  del  Lanzi  e 
della  dolce  faccia  di  Raffaello  sarà  bene  mettere 
sotto  gli  occhi  de'  lettori  due  pagine  della  storia 
della  rivoluzione  francese  scritta  da  Giulio  Michelet 
e  le  orribili  facce  dei  settembrizzatori. 

Il  Michelet  nel  lib.  viii  cap.  vi  racconta  cosi 
lo  strazio  della  principessa  di  Lamballe: 

Un  de'più  arrabbiati,  un  parrucchiere  piccoletto,  tamburo 
nei  volontari,  di  nome  Charlat,  le  va  contro,  e  con  la  picca  le 
strappa  via  la  cuffia:  i  suoi  be' capelli  disciolti  cadono  per 
tutt' i  versi.  La  mano  mal  pratica  o  ebra  dell'oltraggiatore 
tremava,  e  la  picca  avea  sfiorato  alla  principessa  la  fronte; 
ella  faceva  sangue.  La  vista  del  sangue  produsse  l' effetto 
che  suole:  molti  le  furono  sopra:  uno  venne  per  di  dietro  e 
le  gittò  un  grosso  ceppo:  ella  cadde,  e  subito  fu  trafitta  di 
più  colpi. 

Spirava  a  pena  ;  e  la  gente  d' intorno,  per  una  curio- 
sità indegna,  cagione  forse  principale  della  sua  morte,  le  si 
gettò  a  dosso  per  vederla.  I  curiosi  osceni  si  mescolavano 
agli  assassini,  credendo  di  scoprire  nella  persona  qualche 
mistero  vergognoso  che  confermasse  le  voci  corse.  Strap- 
parono tutto,  veste,  camicia;  e  nuda  come  Dio  l'avea  fatta 
fu  distesa  a  canto  un  pilastro,  su  l' entrata  della  via  san- 
t' Antonio. 


426  (^A    IRA. 

Il  povero  corpo,  bene  in  essere  per  l'età,  che  non  era  più 
del  primo  fiore,  testimoniava  anzi  per  lei:  la  testina  sua  di 
bambina,  che  cosi  morta  era  una  pietà  a  vedere,  troppo  diceva 
la  sua  innocenza  o  che  almeno  ella  non  avea  potuto  mancare 
se  non  per  obbedienza  o  per  debolezza  di  amica. 

Restò,  lamentevole  oggetto,  dalle  otto  a  mezzogiorno  su  'l 
pavimento  inondato  di  sangue.  Quel. sangue  che  colava  a  fon- 
tanelle dalle  molte  ferite,  a  momenti  la  ricopriva,  quasi  la  ve- 
lava. Un  uomo  si  mise  li  a  canto,  per  istagnare  quello  sgorgo: 
mostrava  il  corpo  alla  folla:  Guardate  com'era  bianca!  guar- 
date che  bella  pelle!  Quest'ultimo,  considerato  come  segnO' 
d'aristocrazia,  anzi  che  la  pietà  commovea  l'odio... 

Intanto,  o  per  accrescimento  di  vergogna  e  d'  oltraggio  o- 
per  paura  che  la  gente  alla  lunga  s'intenerisse,  i  micidiali  si 
misero  a  sfigurare  il  corpo.  Un  di  nome  Grison  le  tagliò  la 
testa:  un  altro  fece  la  indegnità  di  mutilarla  nella  parte  che 
tutti  devono  rispettare,  perché  tutti  ne  usciamo.  Di  cotesti  due 
manigoldi  l'uno  più  tardi  fu  ghigliottinato,  come  capo  d'una 
banda  di  ladri;  l'altro,  Charlat,  fu  fatto  in  pezzi  all'eser- 
cito da'  camerati,  che  non  vollero  soffrire  tra  loro  un  simile 
infame. 

Il  Michelet  seguita  poi  descrivendo  V  orribile  corteo 
che  recò  ai  Tempio  le  inferie  di  morte: 

Vederli  partire  dalla  Forza,  portando  in  cima  alle  picche 
per  quella  larga  e  trionfale  via  Sant'Antonio,  gli  orribili  trofei,. 
fu  uno  spavento.  Una  folla  immensa  seguiva,  muta  dì  stupore. 
Da  pochi  ragazzi  e  briachi  in  fuori  che  gridavano,  tutti  erano 
percossi  d'orrore.  Una  donna,  per  fuggire  a  quella  vista,  si 
precipita  nella  bottega  d'un  parrucchiere:  ed  ecco  la  testa 
tagliata  che  arriva  alla  bottega,  che  entra.  La  donna,  fulmi- 
nata di  paura,  cade  rovescia...  Gli  assassini  gittano  la  testa 
su  '1  banco,  dicono  al  parrucchiere  che  bisogna  fafle  i  ricci:  la 
menavano  a  vedere  la  sua  padrona  al  Tempio:  non  era  decenza 
si  presentasse  cosi. 


9A   IRA.  427 

Ed  ora  ecco  ciò  che  V  abate  Lanzi  nel  libro 
terzo  della  Storia  pittorica  delT  Italia 
scrive  di  Raffaello  da  Urbino: 

La  natura  l'avea  dotato  di  una  immaginativa,  che,  tra- 
sportando l'anima  a  un  avvenimento  o  favoloso  o  lontano» 
quasi  fosse  vero  o  presente,  gli  facea  conoscere  e  sentire  quelle 
perturbazioni  medesime  che  dovettero  avere  i  personaggi 
di  quella  storia;  e  assistevalo  costantemente  finché  le  avesse 
ritratte  con  quella  evidenza  con  cui  le  avea  o  vedute  negli 
altrui  vólti  o  formate  nella  sua  idea. 

O  dunque  quello  che  fu  gloria  a  Raffaello  di- 
pingendo sarà  infamia  a  me  verseggiando?  O 
dunque,  perché,  non  volendo  o  non  dovendo  io 
ridescrivere  tutti  gli  orrori  già  descritti  dal  Mi- 
chelet, anche  per  la  ragione  che  la  storia  cosi 
viva  non  pur  nei  libri  ma  nelle  memorie  schiaccia 
al  confronto  ogni  poetica  descrizione,  tolsi  invece 
a  ripensare  e  rifare,  come  voleva  la  forma  di 
poesia  da  me  eletta,  le  perturbazioni  di  quella 
gente  che  commise  quelli  orrori,  dunque,  per 
questo  che  è  il  mio  dovere,  e^  se  fossi  riuscito  a 
bene,  sarebbe  la  mia  lode  d'  artista  in  versi,  io 
ho  da  essere  giudicato  peggior  uomo  del  parruc- 
chiere che  mutilò  bestialmente  e  nefandamente  il 
corpo  della  principessa  di  Lamballe?  Capisco  la 
scolastica  ingenuità  del  professor  Cappelletti  a  do- 
lersi che  io  narri  "  il  massacro  della  principessa 
di  Lamballe  come  fosse  la  cosa  più  naturale  di 
questo  mondo  „:  giacché  quel  "  massacro  „  (ri- 
piglio per  fedeltà  il  francesismo   non   mio)    è   un 


428  9 A  IRA. 

fatto  di  quel  settembre  1792  che  io  m'  ero  propo- 
sto a  rappresentare,  e  un  di  que'  fatti  che  meglio 
danno  l' icastica  di  quel  fatai  movimento,  o  sta  a 
vedere  che  per  paura  di  non  parere  io  alle  con- 
scienze pusille  di  certi  lettori  V  autore  o  il  com- 
plice o  il  panigerista  dell'  eccidio,  lo  dovevo  rac- 
contare o  rappresentare  innaturalmente,  cioè  falsa- 
mente? Capisco  la  rettorica  onestà  del  signor  Do- 
menico Cancogni,  il  quale,  perché  nel  sonetto  do- 
dicesimo titolai  di  vili  li  esigli  degli  emigrati  di  Co- 
blentz,  vorrebbe  un  simil  trattamento  anche  per  il 
parrucchierino  del  sonetto  ottavo;  "  ma  —  osserva 
argutamente  l'onesto  signor  Cancogni  —  la  signora 
di  Lamballe  è  una  principessa  :  ella  è  1'  amica  di 
Maria  Antonietta:  non  può  essere  quindi  un  vile 
quel  sanculotto  „.  —  Capisco,  capisco,  onesto  si- 
gnor Cancogni,  capisco  :  i  grandi  poeti  drammatici 
dunque,  per  un  qualsiasi  sgravio  della  loro  con- 
scienza, dovrebbero,  come  i  pittori  primitivi,  porre 
una  scritta  in  bocca  o,  poniamo,  su' cappelli  de' loro 
personaggi  delittuosi.  Cosi  Jago  o  1'  uccisore  dei 
figli  di  Eduardo  iv  verrebbero  su  la  scena  con 
due  cartelli  inscritti  — .  Questi  è  un  vile  istigatore 
—  Questi  è  un  vile  assassino  — .  E  io,  se  all'  eccidio 
da  me  verseggiato  della  principessa  di  Lamballe 
avessi  aggiunto  un  sonettino  pieno  de'  soliti  im- 
properii  cari  alle  scuole  e  ai  giornalisti  dell'  ordine, 
e  che  fosse  finito,  per  esempio,  con  questo  verso, 
"  Oh  vile,  vile,  vile,  vile,  vile  „,  io  avrei  fatto  un 
sonetto  imbecille,  ma  il  critico    della   Liberia  sa^ 


(^A    IRA.  429 

rebbe  rimasto  contento  come  una  pasqua.  Tutto 
cotesto  lo  capisco:  ma  che  un  uomo  della  coltura 
dell'  onorevole  Bonghi,  un  traduttore  di  Platone 
e  interprete,  secondo  la  mia  istruzione,  cosi  dotto 
e  agevole  della  filosofia  greca,  uno  che  pur  di  re- 
cente si  giuste  parole  scrisse  intorno  agli  offici 
della  critica  in  Italia,  venga  a  fare  di  queste  scene 
a  me,  venga  a  confondere  il  soggetto  mio  con 
r  oggetto  che  io  rappresento,  venga  a  dire  che  io 
faccio  che  io  penso  che  io  dico  quello  che  fanno 
pensano  dicono  gli  attori  dell'  orribili  opere  da 
me  veduti  e  sorpresi  nella  storia,  che  l'onorevole 
Bonghi  discenda  nello  stesso  errore  del  buono 
signor  Cancogni,  il  quale  vede  me,  sempre  me,, 
solo  me  nei  dodici  sonetti  dove  non  'entra  mai  il 
pronome  io  e  la  persona  prima  ;  che  1'  onorevole 
Bonghi  faccia  dica  e  scriva  di  coteste  —  come 
s' ha  a  dire?  —  diciamo  ingenuità  come  del  pro« 
fessor  Cappelletti  e  onestà  come  del  signor  Can- 
cogni —  io  non  me  ne  so  capacitare,  non  me  ne 
so  render  conto,  non  me  ne  so  fare  una  ragione, 
se  non  con  la  preoccupazione  politica  che  ottunde 
e  smussa  anche  gì'  intelletti  naturalmente  pili 
acuti  e  più  levigati  dall'  uso  de'  buoni  studi. 


VII. 


Auf,  respiriamo.  È  afa  nel  cielo  come  nel- 
r  anima  mia,  afa  di  nuvole  e  di  parole.  Affaccia- 
moci alla  finestra. 


43°  9A    IRA. 

Il  Benaco,  dallo  sfondo  di  Riva,  tra  due  pareti 
di  monti  che  han  su  le  cime  lampi  di  fuoco  e 
nebbie  in  forme  di  giganti  e  a  mano  a  mano  di- 
gradano quasi  a  sollazzo  in  collicelli  a  viti  e  ulivi 
con  boschetti  d'  allori  e  serre  di  cedri  per  ghir- 
lande, qui^  nel  suo  prospetto  più  largo,  viene  a 
morire  a'  miei  piedi.  Su  la  distesa  delle  acque  è 
una  tristezza  intensa  cinerea:  qua  e  là  tonfi  di 
ranocchi  che  si  tuffano,  e  continua  ripercuote  dalla 
sponda  del  paese  con  lo  strofinio,  co  'l  diguazza- 
mento e  gli  sbattimenti,  1'  opera  delle  lavandaie. 
Le  montagne  a  settentrione  e  ponente  entro  un 
velo  di  caligine  azzurrognola  biancastra  pèrdono 
la  determinatezza  risoluta  e  superba  delle  linee 
titaniche.  Montebaldo  non  è  più  baldo,  e  pare 
stanco  di  tutti  i  secoli  e  di  tutta  la  geologia  che 
sopporta.  Monte  Gu  non  apparisce  oggi  quel- 
la enorme  gigante  caduto  supino  in  battaglia,  nel 
cui  profilo  delineato  entro  al  cielo  profondo  il 
popolo  ravvisa  la  faccia  di  Napoleone  morente: 
egli  è  annoiato,  e  dice  agli  anni —  Smettiamola! 
Quanto  ha  ella  anche  a  durare  questa  rappresen- 
tazione del  mondo?  Io  sono  stufo  di  fare  il  clown 
a  cotesta  platea  di  formiche  umane  irrequiete  — . 
Manerba  spicca  a  sinistra  nella  ferrugigna  rigidità 
d*  una  barbuta  longobarda,  che  faccia  la  scólta 
r  ultimo  giorno  dell'anno  mille;  e  Garda  alla  de- 
stra cala  le  nere  ale  d' una  sua  gran  cuffia  mona- 
cale su  cotanta  mestizia,  brontolando  tra  rasse- 
gnata e  dispettosa  De  profundis. 


9A   IRA.  431 

Ecco,  e  ad  un  tratto  un  raggio  sbiadito  di  sole 
fende  la  nuvolaglia  che  a  grandi  cércini  bianchi 
incappella  la  montagna  e  distendesi  a  bioccoli 
lunghi  come  una  benda  giù  per  il  cielo.  Ed  ecco 
Sirmione,  non  a  pena  uno  strale  di  Febo  guizza 
serenante  per  V  aria,  ecco  la  pagana  Sirmio  sente 
il  suo  dio,  e  lampeggia  d'  un  sorriso  tra  il  verde 
glauco  degli  oliveti  e  il  bianco  delle  case  di  pe- 
scatori, su  cui  adergesi  trecentisticamente  leggia- 
dra la  torre  scaligera.  Sirmio  sorride  ;  e  sùbito 
una  grande  insurrezione  di  linee  rosee  ed  auree, 
violacee,  paonazze,  vinacce,  rompe,  taglia,  intra- 
versa la  funerea  monotonia  di  cotesto  dormen- 
torio di  acque. 

Ma  voi,  lavandaie  di  Desenzano,  non  badate 
a  queste  usualità,  che  a  noi  fantastici  oziosi  pa- 
iono di  gran  belle  cose.  Per  voi  il  Benaco,  la- 
vandaie, è  un  gran  catino,  e  il  cielo  uno  sciuga- 
toio.  Se  fosse  qui  un  poeta  giovincello  de'  soliti 
andrebbe  smammolandosi  su  le  curve,  e  lavore- 
rebbe per  il  bordello,  mentre  voi  lavorate,  o  buone, 
per  la  famiglia.  Io  vi  guardo,  serie,  silenziose, 
solenni  lavoratrici;  e  penso.  Le  camice  della  sposa 
e  le  lenzuola  tra  le  quali  mori  un  etico  ieri,  la 
tovàglia  dell'  osteria  e  il  mantile  della  mensa  di 
Cristo,  i  calzoncini  del  bambino  e  la  giacca  in- 
sanguinata del  micidiale,  voi  tutto  lavate,  o  la- 
vandaie; e  tutto  esce  bianco  o  almen  netto  dalle 
acque  schiumanti  sotto  i  vostri  attorcimenti. 
Anch'  io  risciacquo,  lavandaie,  idee  vecchie  e  idee 


432  gA   IRA. 

nuove;  e  le  nuove  non  sono  belle,  e  le  vecchie 
non  sono  buone;  e  queste  son  ragnate,  e  quelle 
non  reggono;  e  mi  riescono  dalle  mani  a  ogni 
insaponatura  più  torbe  e  chiazzate  di  prima.  II 
vostro  sciabordio  turba  a  pena  il  primo  primo 
svariar  delle  acque  su  '1  margine:  poi  viene  e 
batte  una  onda  più  forte;  e  tutto  è  turchino  come 
avanti;  e  la  minuta  arena  verdastra  e  i  ciottoli 
granitici  traspaiono  rossicci  dal  fondo,  e  i  pescio- 
lini grigi  guizzano  vispi  per  quella  nitidità  fresca 
d'  acciaio.  E  se  vi  prende  voglia  di  pur  alzar  gli 
occhi  dal  bello  specchio  del  vostro  lavoro,  voi  vi 
vedete  innanzi  il  sorriso  della  riviera  e  vi  saluta 
un  profumo  di  cedri  che  vien  da  Salò.  Io  lavoro 
sur  un  filo  d'  acqua  che  forse  è  condotto  più  che 
rigagnolo,  e  certo  mi  divien  tra  le  mani  pozzan- 
ghera: ho  per  orizzonte  una  facciata  livida  di 
giornale,  e  un  acre  odore  d' inchiostro  di  stampe- 
ria mi  s'avventa  alle  nari  dall'umidità  sporca  dei 
fogli.  Voi  verso  mezzogiorno  ve  ne  tornate  con 
fatica  di  molta  e  soldi  pochi:  ma  non  so  perché 
la  fiamma,  che  divampa  sotto  i  paioli  nei  pian- 
terreni aff'umicati  delle  casucce  che  non  hanno 
segreti,  a  me  paia  lieta.  Io  metto  assieme  di 
gran  malinconia  e  di  gran  dispetto  per  le  sere, 
quando  non  e'  è  più  il  sole  né  il  lavoro,  e  più 
assiduo  e  insistente  mi  circonda  il  bisbiglio  dei 
morti.  Quanto  a  soldi,  domandatene  il  signor 
Angelo  Sommaruga.  Certo,  sono  più  de'  vostri. 
Ma  pure... 


9A  IRA.  433 

To';  che  è  quel!' uccellacelo  che  passa?  Lo  ri- 
conosco, ma  non  ricordo  il  nome  che  me  ne  han 
detto  i  barcaiuoli  del  lago.  È  un  uccellacelo  gra- 
vacciuolo,  pigrO;  stridulo  in  vita,  duro,  stopposo, 
insipido  da  morto.  Oh  uccellacelo  fratello,  cigno 
gentily  pigliati  T  anima  mia  di  scrittore  italiano,  e 
lasciami  esser  te.  Ch'  io  non  vegga  e  non  oda  più 
nulla  di  politica  e  d'  arte,  e  mi  divaghi  sotto  il 
sole,  e  voli  alla  meglio,  o  anche  alla  peggio, 
come  te. 

Tutto  inutile:  Angelino  si  farebbe  cacciatore 
per  tirarmi  anche  da  uccello,  e  poi  mi  chiede- 
rebbe la  storia  della  metamorfosi.  Oh  Angelino, 
cacciatore  lungo  e  feroce!  da  quanto  la  ballata 
di  Bùrger  commentata  dal  Berchet. 


Vili. 

E  ora  ad  altre  opposizioni  di  storia  o  di  mora- 
lità storiche  risponderò  per  le  corte:  risponderò 
non  per  vanità  di  parer  saputo  o  per  ismania  di 
voler  sempre  ragione,  ma  per  dimostrare  al  signor 
Cancogni  e  all'  onorevole  M.  T.  che  la  devozione 
e  la  retorica  repubblicana  non  sopraffecero  in  me 
la  fede  alla  verità  storica,  come  la  devozione  al- 
l' ordine  e  la  critica  dottrinaria  o  moderata  non 
salvò  loro  dalle  avventatezze  e  dagli  errori:  ri- 
sponderò per  togliere  all'onorevole  Bonghi  ogni 
dubbio  non  io  per  avventura  mi  lasciassi  nel  com- 

Carducci.  4.  28 


434  ^A  IRA. 

porre  quei  sonetti  pigliar  la  mano  alla  fretta.  Oh, 
la  fretta; 

Che  r  onestate  ad  ogni  atto  dismaga. 

io  non  r  ho  avuta  mai  se  non  forse  nel  mover 
dei  passi.  Quanto  al  movere  dei  pensieri,  la  Musa 
della  procrastinazione  ha  salvato  l'Italia  da  molte 
opere  mie  di  verso  e  di  prosa.  E  come  nello  scri- 
vere non  mi  lascio  andar  mai  né  pur  mandando 
tre  righe  a  un  giornale,  cosi  di  quello  che  scrivo 
io  sento  e  voglio  aver  V  obbligo  di  rispondere, 
quando  sia  il  caso,  non  pur  dinanzi  alla  legge, 
ma  e  dinanzi  al  giudizio  degli  uomini  autorevoli 
e  degli  onesti,  anche  se,  anzi  specialmente  se, 
avversari.  E  per  ciò  rispondo  agli  onorevoli  M.  T. 
e  Bonghi,  e  mi  servo  del  signor  Cancogni,  come 
di  distrazione,  perché  egli  è  onesto  fin  troppo. 

A  noi  dunque. 

Nel  sonetto  terzo  la  vecchia  che  fila  non  è,  come 
parve  all'onorevole  M.  T.,  la  Parca;  ma  si  un 
fantasma  che  nella  imaginazione  del  popolo  di 
Parigi  e  secondo  una  vecchia  leggenda  mostra- 
vasi  in  qualche  parte  del  palazzo  delle  Tuileries 
quando  sventura  o  morte   incombesse. 

Del  sonetto  primo  V  onorevole  M.  T.  affermò 
che  non  è  punto  storico:  i  villani  —  egli  dice — 
tormentati  ner  loro  campo  dagli  spiriti  eroici  non 
erano^  o  ben  radi,  tra  gli  azzurri;  correvano  al-, 
trove  a  formare  le  falangi  de' bianchi:  sono  già 
molti  anni  che  la  storia. ha  cancellato  le  leggende 


9A  IRA.  435 

deir  entusiastico  accorrere  dei  campagnoli  sotto 
il  vessillo  tricolore.  • —  Si  risponde:  Il  contadino; 
già  divenuto  o  su  '1  divenir  proprietario,  che  arava 
una  terra  sua  per  una  raccolta  sua,  non  indugiata 
o  frastornata  da  obbligo  di  servigi  rusticali;  non 
tempestata  dalle  cacce  del  signore,  non  ismunta 
dalle  decime  dell'  abate,  avea  tutto  il  vantaggio  a 
difendere  la  rivoluzione  specialmente  contro  la  in- 
vasione straniera,  con  la  quale  tornavano  gli  emi- 
grati, dei  quali  emigrati  aveva  abbruciato  o  avea 
veduto  non  senza  partecipazione  del  cuor  suo  ab- 
bruciare i  castelli,  dei  quali  castelli  aveva  occu- 
pato o  era  su  1'  occupare  ciò  che  restava  di  ser- 
vibile per  farne  qualche  cosa  di  nuovo  più  utile 
e  umano.  Il  contadino  dunque  neir  estate  del  '92 
odiò,  con  vecchio  cuore  di  francese  e  con  nuovo 
di  cittadino,  V  invasione,  e  la  combatté.  Vegga 
r  onorevole  M.  T.  il  Michelet  specialmente  al  libro 
sesto  capitolo  primo,  e  nel  libro  ottavo  a  ogni 
passo. 

Nel  sonetto  sesto,  all'onorevole  M.  T.  dispiace, 
senza  però  incolparne  me  che  non  l' inventai,  quel 
retoricissimo  Morir,  dove  ogni  attore  di  provin- 
cia non  può  non  rammentarsi  il  famoso  Qu  il 
mourùt  del  vecchio  Orazio.  Come  fare  —  domanda 
egli  —  poesia  epica  di  queste  reminiscenze  di 
teatro  e  di  scuola?  —  Si  risponde:  Prima  di  tutto,: 
adagio  un  po'  con  la  retorica.  Questo  vocabolo  e 
r  altro  di  posa,  due  francesismi,  al  solito,  di  con- 
cetto e  d' espressione,  da  un  pezzo  in  qua  noi  tutti 


436  ^A   IRA. 

ce  lì  sciaguattiamo  un  po'  troppo  per  le  bocche 
e  sotto  le  penne.  Quello  che  noi  non  sappiamo 
o  non  vogliamo  sapere^  quello  che  non  sapremmo 
fare  o  non  ci  sarebbe  utile  fare^  è  retorica-,  quello 
che  a  fare  e'  incomoderebbe  o  ci  guasterebbe  coi 
tali  e  tali  altri  o  che  la  coscienza  ci  rimprovera 
di  non  aver  fatto,  è  posa.  Della  coerenza  nelle 
proprie  idee  e  del  sacrificare  a  quelle  vantaggi  ed 
onori,  sentii  tempo  fa  dire  a  una  signora:  È  re- 
torica. Del  non  voler  dire  bugie  né  anche  poli- 
tiche e  letterarie;  sentii  dire  a  un  professore: 
E  una  posa.  C  è  da  temere  che  un  giorno  o  l'altro 
un  nostro  fratello  ladro  provi  con  saldo  ragio- 
namento alla  eccellentissima  corte  che  il  non  ru- 
bare,  potendo  senza  pericolo,  un  fornimento  di 
posate  d'  argento,  è  retorica,  che  il  non  sollevare 
dal  peso  dell'  orologio  d'  oro  un  cittadino  addor- 
mentato in  luogo  aperto  solitario  e  sicuro  t  posa) 
e  e'  è  anche  da  temere  che  il  pubblico  applauda. 
Quegli  applausi  non  sarebbero  in  fine  che  il  vol- 
garizzamento dell'  espressione  bel  colpo,  sinonima 
d'  un  furto  fatto  bene,  e  degli  elogi  plutarchiani 
che  i  giornali  danno  a  chiunque  renda  un  porta- 
fogho  cascato  a  qualcuno  di  tasca.  Del  resto,  come 
può  r  onorevole  M.  T.  accertare  sé  e  gli  altri 
che  quel  morire  suggerito,  anzi  strappato,  dal 
momento  solenne  a  tutti  insieme  a  un  punto  i 
cuori  e  le  bocche  di  più  cittadini,  fosse  una  re- 
miniscenza di  teatro  e  di  scuola?  E  fosse  pure: 
dispiace  che  un    uomo    come   l' onorevole    M.  T. 


gA  IRA.  437 

non  voglia,  per  sue  fissazioni  contro  la  rivolu- 
zione francese,  capire  quale  grandezza  a  ogni 
modo  acquista  cotesto  motto  preso  in  prèstito  a 
un  gran  poeta  della  patria  da  una  grande  assem- 
blea in  un  momento  come  quello.  Non  sente  egli 
r  ideale  che  si  fa  il  vero  e  il  vero  che  si  fa  ideale? 
Io  credo  che  il  nobile  spirito  del  poeta  normanno, 
se  giù  negli  Elisi  gli  giunse  notizia  del  plagio  o 
della  citazione  sublime,  ne  esultò  neir  animo  suo, 
più  che  quando  un  uditorio  di  marchesi  sotto  o 
contro  il  cenno  del  cardinale  di  Richelieu  fremè 
d'  entusiasmo  la  prima  volta  a  cotesta  romanità 
della  sua  musa  di  provincia.  —  L' onorevole  Bon- 
ghi non  ha  che  dire  su  '1  morir]  ma  non  gli  sa 
di  squisito  r  assemblea  seduta,  la  vorrebbe  almeno 
per  metà  levata  in  piedi.  Eh  guà!  a  lui,  che  in 
Montecitorio  sta  sempre  seduto  a  correggere  le 
bozze  del  Platone,  un  pò*  di  varietà  non  dee  di- 
spiacere. Ma  seduta  io  vidi  nella  mia  imaginazione 
la  Legislativa,  e  forse  fu  di  fatto,  per  un  segno 
della  superiorità  che  quella  assemblea  di  cittadini, 
sentendo  sé  essere  la  patria  e  la  legge,  asserivasi 
su  la  forza  militare.  La  Legislativa  comandava  la 
morte,  come  la  Convenzione  ordinò  la  vittoria;  e 
alle  sentenze  rispondevano  i  fatti.  Quei  cittadini, 
commissari  agli  eserciti,  disarmavano  i  generali 
in  mezzo  ai  loro  reggimenti  e  li  mandavano  pri- 
gionieri a  Parigi:  prendevano,  a  capo  dei  reggi- 
menti, un  fucile  e  marciavano  su  *1  nemico.  Quei 
cittadini  potevano  benissimo  non  moversi  di  posto^ 


438  gA   IRA. 

non  movere  collo  o  piegare  costa,  in  presenza  di 
soldati  che  non  avevano  fatto  tutto  il  loro  dovere 
e  venivano  a  schiamazzare  all'  assemblea.  Parla- 
menti i  quali  non  credano  fermamente  che  un 
generale,  che  ha  la  somma  fiducia,  i  sommi  onori, 
i  sommi  onorari,  in  certi  casi  ha  da  vincere  o  da 
morire,  e  se  no,  ha  da  pagar  della  testa;  parla- 
menti i  quali  in  vece  si  facciano  lusingatori,  piag- 
giatori, educatori  delle  gloriole,  delle  vanità,  delle 
intemperanze,  delle  prepotenze  e  delle  impotenze 
militari;  tali  parlamenti,  dico,  procurano  alle  loro 
patrie  le  ignominie  di  Lissa,  senza  vendetta  e 
senza  rivincita. 

Del  sonetto  quinto  il  signor  Cancogni  dice  che 
è  un'  uscita  violenta  d'  un  sentimento  di  vendetta 
dall'  animo  mio,  e  non  s'  accorge  che  il  sonetto 
rappresenta  il  sopravvenire  a  un  tratto  della  no- 
tizia in  una  piazza  o  in  un  club  di  Parigi  e  che 
è  il  popolo  o  gli  oratori  del  popolo  che  parlano 
—  "  Udite,  udite,  o  cittadini,...  —  ...gitta  ultima 
sfida  L'  anima  a  i  fati  a  T  avvenire  e  a  noi  — 
E  la  non  nata  ancor  gente  ci  grida  „  — .  Non 
bada  a  queste  piccolezze  il  signor  Cancogni,  e, 
sempre  per  quell'  idea  sua  che  ne'  dodici  sonetti 
su  '1  settembre  del  '92  io,  se  non  fossi  stato  so- 
vraneggiato dal  sentimento  demagogico,  avrei 
dovuto  inzeppare  tutta,  o  almeno  fino  al  '96,  la 
rivoluzione,  lamenta  che  la  vendetta  non  invocata 
per  i  carnefici  di  Maria  Antonietta  e  di  Elisabetta 
è  stata  solo  invocata  per 'Verdun,  perché  Verdun 


9A  IRA.  43^ 

ha  addosso  Tonta  d*  aver  fatto  (viltà!)  la  corte 
al  conte  d'  Artois,  al  futuro  Carlo  x,  al  fratello  di 
Luigi  XVI.  Si  risponde:  Verdun,  ecco,  fece  qual- 
cosellina  d'altro:  le  sue  fanciulle,  o  parecchie 
delle  sue  fanciulle,  presentarono  fiori  al  re  di 
Prussia  che  varcava  nemico  le  frontiere  della 
patria,  che  varcava  conquistatore  le  porte  della 
città  del  patto  carolingio:  le  sue  fanciulle,  o  pa- 
recchie delle  sue  fanciulle,  ballarono  con  gli  ufficiali 
prussiani.  Anche  1'  onorevole  M.  T.  lamenta  che 
quel  sonetto  "  raccolga  V  eco  dei  furori  giacobini 
contro  Verdun,  che  poi  dovevano  sfogarsi  atro-  . 
cernente  colla  ghigl^iottina  „:  ed  aggiunge  "  Né  <^ 
dica  il  poeta:  giustizia!  che  non  è  giustizia  quella 
che  può  destare  cosi  profonda  pietà,  imprimendo 
un  marchio  di  Caino  sulla  fronte  dei  giudici  e 
degli  esecutori  „.  Alla  pietà  dell'onorevole  M.  T. 
si  risponde:  Per  le  donne  che  abbracciano  e  sa- 
lutano i  nemici  della  patria  io  non  ho  tenerezze. 
A  coteste  puttanelle  di  Verdun  la  mannaia  credo 
anch'  io  che  fu  troppo,  ma  oh  che  santo  scoparle 
a  dorso  d'  asino  per  le  strade!  Cosi  pensai  fin  da 
ragazzo,  quando  vidi  le  "  sfacciate  donne  fioren- 
tine „  —  ed  erano  gran  dame  e  titolate  —  far  festa 
al  maresciallo  Radetzky. 

Nel  sonetto  settimo  1'  onorevole  Bonghi  scambiò 
la  bianca  ragazza  per  la  Francia  personificata,  e  non 
trovò  in  quel  tratto  limpida  la  locuzione.  E  avrebbe 
avuto  ragione,  se  non  avesse  sbagliato;  ma  non 
ebbe    torto    dello    sbaglio:    io    volli    comprender 


44°  9 A  iR-^- 

troppo  in  poche  parole,  e  fu  a  danno  della  chia- 
rezza. Ma  r  onorevole  M.  T.,  che  in  quelle  parole 
intese  il  paragone  tra  la  Francia  e  V  eroica  da- 
migella di  Sombreuil,  la  quale  costretta  dai  mani- 
goldi per  salvar  la  vita  al  padre  bevve  una  tazza 
di  sangue  umano,  non  so  poi  perché  qualificasse 
di  barocco  e  sofistico  il  paragone.  Sofistico,  nel 
modo  suo  di  pensare,  può  essere:  barocco,  biso- 
ryy^ì  gyierebbe  provarlo:  ma  questo  non  importa  più 
che  tanto. 

Nel  sonetto  nono  il  signor  Cancogni  domanda  : 

Perché  quest'  ultimo  Capete,  questo  Luigi  Capeto,  deve  egli 
chieder  perdóno  a  Dio  «  de  la  notte  di  san  Bartolomeo  »? 
Perché  deve  egli  pagare  le  colpe  di  Carlo  ix  di  Vulois,  della 
reine  mère,  de'  Guisa,  de'  fanatici  cattolici  del  1572  ?  Forse 
perché  torme  furibonde  di  popolo  trascinarono  quel  disgraziato 
e  debole  principe  da  "Versailles  a  Parigi  e  lo  obbligarono  ad 
agonizzare  fra  il  coltello  e  la  paura  nelle  disabitate,  nelle 
«  ree  Tuglieri  di  Caterina  »,  fino  al  di'  dell'assassinio? 

Più  acutamente  V  onorevole  M.  T.  : 

Né  più  giusto  concetto  del  corrispondere  la  pena  alla  colpa  ha 
il  poeta  nel  nono  sonetto,  dove  al  re  imprigionato  nel  Tempia 
e  circondato  dall'  onda  del  popolo  furente  fa  chiedere  a  Dio 
perdóno  della  notte  di  san  Bartolomeo.  L'  opera  dì  sangue  di 
quella  notte  fu  compiuta  in  pienissimo  accordo  col  popolo  di 
Parigi,  che  era  nel  secolo  decimosesto  cattolico  furioso  e  ve- 
ramente «//ra  /  quindi  sarebbe  assurdo  che  questo  buon  popolo 
ne  facesse  nei  suoi  discendenti  giustizia  sul!'  erede  del  fiacco 
e  crudele  re-poeta. 

Si  risponde:  Tutt' altro  anzi  che  assurdo.  È  la 
Nemesi  storica,  che  per  simiU  riazioni  vendica  il 


9A    IRA.  441 

pervertimento  provocato  dall'  alto  in  basso.  L' ono- 
revole M.  T.  non  ha  bisogno  che  io  glie  ne  in- 
segni :  ritorni  a  sua  scienza.  Del  resto  il  primo  a 
invocare  la  espiazione  dovuta  dalla  casa  di  Francia 
per  i  suoi  regii  delitti^  1'  augure  del  supplizio  di 
Luigi  XVI,  il  profeta  del  terrore,  fu  Dante  Ali- 
ghieri : 

Io  fui  radice  della  mala  pianta 

Che  la  terra  cristiana  tutta  aduggia, 

Si  che  buon  frutto  rado  se  ne  schianta,.. 

O  signor  mio,  quando  sarò  io  lieto 
A  veder  la  vendetta  che  nascosa 
Fa  dolce  1'  ira  tua  nel  tuo  segreto? 

Cotesta  espiazione  o  vendetta  il  poeta  del  media 
evo  fa  per  maggiore  strazio  che  la  chiegga  a  Dio 
il  capostipite  dei  Capeti,  quand'  era  ancor  recente 
la  santità  di  Luigi  ix  :  ora  da  Filippo  il  Bello  a 
quel  bastardo  Borbone  che  tirava  del  fucile  ai 
muratori  su  i  tetti  e  agli  spazzacamini  pe  '1  di- 
vertimento di  vederli  ruzzolare  di  cosi  alto,  i  de- 
litti dei  Capeti  tesoreggiarono  tant'  altra  ira  di  Dio 
e  di  popolo,  da  far  attuare  nelF  età  dei  filosofi 
sensibili  e  umanitari  la  tetra  visione  che  dopo  il 
supplizio  di  Corradino  e  dei  Templari  balena 
nella  fantasia  al  poeta  dell'  inferno  cattolico. 

Del  sonetto  undecimo  "  Chi  non  vede  —  grida 
il  signor  Cancogni  —  attraverso  le  ruote  del  mulino 
di  Valmy,  in  quel  sangue  cittadino  che  dà  a  que- 
ste il  movimento,  la  speranza  onde  il  Carducci 
incoraggia  il   bianco  mugnaio,  la   speranza,   dico. 


442  (;a  ira. 

di  un  avvenire  demagogico?  „  Si  risponde...  o 
meglio,  al  signor  Cancogni  che  vede  un  avvenire 
demagogico  nella  liberazione  del  territorio  della 
patria  dall'  invasione  straniera  e  nel  trionfo  della 
rivoluzione  francese,  cioè  dell'  uguaglianza  civile, 
della  libertà  del  pensiero,  del  progredimento  eco- 
nomico, alla  fine  non  si  risponde:  si  rimanda  alle 
decime  dell'  abate,  al  servizio  del  marchese,  si 
rimanda  al  sant'uffizio  e  al  bastone  austriaco,  o 
meglio  srraccomanda  a  un  metodo  igienico  e  die- 
tetico che  conferisca  allo  svolgimento  del  fosforo. 
E  ci  si  rivòlge  all'  onorevole  M.  T.,  il  quale 
scrive: 

Negli  ultimi  tre  sonetti  invece  non  manca  lo  spirito  epico,  ma 
guasto^  della  retorica  dei  clubs  e  delle  gazzette  e  degli  storici 
che  ne  raccolsero  e  tramandarono  la  tradizione.  Certo  la  difesa 
delle  Argonne  fu  un  lampo  di  genio  militare  che  fa  onore  a 
Dumouriez  e  a' suoi  cooperatori,  ma  il  cannoneggiamento  di 
"Valmy  (la  canonnade  de  Vahny,  come  la  chiamano  gli  storici 
francesi)  fu  in  sé  stesso  ben  poca  cosa;  e  per  decidere  il  duca 
di  Brunswick,  dopo  le  spampanate  del  suo  manifesto,  a  ritirarsi, 
ci  volevano  altre  ragioni:  venissero  poi  dalla  frammassoneria, 
di  cui  lo  stesso  generalissimo  degli  alleati  si  trovava  essere 
gran  maestro,  ovvero,  come  molti  asserirono,  da  un  basso 
mercato,  di  cui  i  diamanti  della  Corona,  appunto  in  quei  giorni 
spariti,  sarebbero  stati  il  prezzo. 

Io  non  avevo  bisogno  di  questo  passo  per  sa- 
pere che  l'onorevole  M.  T.  conosce  della  storia 
anche  i  più  segreti  aneddoti  e  i  pettegolezzi.  Ma 
qui  non  era  il  caso.  Fu  la  frammassoneria,  furono 
\  diamanti  della  Corona    che    fecero    risolvere   il 


^A  IRA.  443 

duca  di  Braunschweig  alla  ritirata?  Io  non  ci 
credo:  ma  non  disputo.  La  battaglia  di  Valmy 
fu  una  canonnade  ?  E  fosse.  L'  esercito  del  re  di 
Prussia  da  una  parte,  V  esercito  dell'  imperatore 
dall'  altra,  dovevano  marciare  su  Parigi  per  rias- 
settare le  cose  di  Francia  come  innanzi  all'  '89: 
avean  chiamati  mallevadori  della  "  resistenza  che 
fosse  fatta  a  loro  o  d'  ogni  nuova  offesa  recata 
alla  famiglia  reale  tutti  i  francesi:  avevano  mi- 
nacciato di  radere  al  suolo  Parigi,  e  promettean 
forche  a  mezzo  mondo  :  la  famiglia  reale  gli  aspet- 
tava salvatori,  i  ci-devant  gli  invocavano  vendi- 
catori, i  principi  e  gli  emigrati  correvan  tra  loro 
vestiti  da  ballo  :  era  credenza  di  tutti  che  non  in- 
contrerebbero resistenza  e  che  gli  eserciti  rivo»- 
luzionari  dinanzi  a  loro  si  squaglierebbero:  tutti 
ridevano  di  quegli  eserciti  che  non  aveano  né 
disciplina  né  organamento  né  generali.  In  vece  la 
battaglia  di  Valmy  costrinse  i  Prussiani  a  una  ri- 
tirata ignominiosa;  la  battaglia  di  Jemmapes  die  i 
Paesi  Bassi  ai  Francesi.  Legga,  o,  per  dir  meglio, 
rilegga  1'  onorevole  M.  T.  questa  pagina  delle 
Memorie  di  Wolfango  Goethe  scritta  la  sera  del 
2  ottobre  1792: 

L'esercito  passò  il  ponte  (sul'Aisne):  tutti  i  visi  erano  scuri, 
chiusa  ogni  bocca,  una  sensazione  come  d'orrore.  A  mano  a 
mano  che  si  avvicinavano  i  reggimenti  nei  quali  sapevamo 
d'  avere  dei*  conoscenti  e  degli  amici,  correvamo  incontro;  e 
abbracciamenti  e  discorsi;  ma  che  questioni,  e  che  lamenti,  e 
che  vergogna,  non  senza  lacrime!...  Cosf  passò  tutto  quel  giorrto, 
e  io  mi  vidi  innanzi  la  ritirata,  non  pure  per  qualche  imagine 


444  9^  IRA. 

o  a  tratti,  ma  in  tutta  la  sua  realtà.  Una  scena  cosi  triste 
dovea  chiudersi  anche  più  tristemente.  Il  re  giunto  da  lontano 
a  cavallo  co'l  suo  stato  maggiore  si  fermò  al  ponte  un  pezzo 
in  silenzio,  quasi  volesse  anche  una  volta  abbracciar  con  la 
vista  e  riandar  co'l  pensiero  la  campagna;  ma  al  fine  prese  la 
via  di  tutto  il  suo  esercito.  Nello  stesso  momento  \l  duca  di 
Braunschweig  comparve  su  1'  altro  ponte,  s' indugiò  un  poco 
e  poi  die  di  sprone. 

Dunque?  Dunque,  (^a  ira  —  ciò  anderà  — 
cantava  da  due  anni  il  popolo  francese:  (^a  alla 
—  ciò  andò  —  nel  settembre  del  1792.  Questa 
non  può  essere  epopea,  perché  non  v'  entra  leg- 
genda: non  sarà  lirica,  per  difetto  d'  uguaglianza 
da  parte  mia  :  ma  storia  è,  storia,  storia  !  Se  il  si- 
gnor Cancogni  ci  vede  il  trionfo  della  demagogia, 
non  so  che  farci,  o,  meglio,  ho  proposto  il  rimedio  : 
che  r  onorevole  M.  T.  ci  veda  il  trionfo  della 
frammassoneria,  via,  non  è  da  lui:  né  meno  il 
padre  Bresciani! 

E  con  ciò  vien  risposto  anche  all'  onorevole 
Bonghi,  il  quale  non  vuol  prendere  per  il  suo  verso 
V Avanti  del  contadino  francese  nel  primo  sonetto 
e  la  novella  storia  del  Goethe  nell'ultimo  e  ci  vede 
sotto  chi  sa  che  misteri.  "  A  quel  motto  —  egli 
scrive  —  e  a  quella  parola  e  permesso  chiedere 
che  se  ne  surroghino  altri,  più  pieni  di  senso;  è 
permesso  pretendere  dal  poeta,  che  egli  dica  che 
cosa  la  novella  storia  è  stata,  e  che  mai  Vavanti^ 
a  parer  suo,  possa  ancora  essere  nell'  avvenire  „► 
Ma  perché  1'  onorevole  Bonghi  mi  vuol  costringere 
a  spiegargli  che  V Avanti  del  contadino  è  contro  i 


9A  IRA.  445 

Prussiani  e  gli  Austriaci  invasori,  e  che  il  motto 
del  Goethe  significa  semplicemente  questo  che 
vengo  a  dire?  —  Da  poi  che  un  gruppo  di  fan- 
taccini e  di  cannonieri  male  in  arnese  e  raccoz- 
zati in  fretta  e  in  furia  tra  la  marmaglia  di  Pa- 
rigi e  delle  altre  città  rivoluzionarie  ha  non  solo 
fronteggiato,  ma  respinto,  i  soldati  di  Federico  ii, 
il  genio  dei  tempi  è  mutato,  e  ne  vogliamo  ve- 
dere di  belle:  per  esempio,  che  un  capitanuccio 
còrso  con  un  nome  stravagante,  il  quale  allora 
tramava  oscure  cose  in  Sardegna  e  in  Corsica, 
di  li  a  quindici  o  sedici  anni  assistendo  in  Ber- 
lino o  in  Vienna  alla  commedia  francese  avrebbe 
voluto  vedersi  sotto  e  intorno  una  platea  di  so*- 
vrani  delle  vecchie  razze. 


IX. 


Ma  pur  troppo  sotto  la  deprimente  preoccu- 
pazione politica  r  onorevole  Bonghi  aombra,  come 
fosse  un  delegato  di  polizia  circondato  dalla  spet- 
tral  visione  dell'  on.  Depretis.  Egli  domanda  :  "  Che 
e'  è  egli  nelle  condizioni  presenti  d' Italia  0  di 
Europa  che  ricordi  i  tempi  alla  cui  ammirazione 
ci  richiamano,  il  cui  ricordo  risvegliano  cotesti 
dodici  bei  sonetti  ?....  Che  azione  può  essere 
quella  del  poeta  nell'  evocare  immagini  siffatte 
avanti  agli  occhi  de'  suoi  concittadini  ?  „  E  né 
anche  gli  passa  per  la  mente  che  gli  si  possa 
rispondere  con  altre  si  fatte  dimande:  Che  c^era 


44^  9^  i^A- 

egli  del  1799  nelle  condizioni  del  granducato  di 
Weimar  e  dell'  Impero,  che  ricordasse  allo  Schiller 
la  prigionia  e  il  supplizio  di  Maria  Stuarda?  E 
che  azione  più  di  recente,  nel  1867,  volle  eserci- 
tare su  la  monarchia  austro-ungarica  Roberto. 
Hamerling  componendo  i)tì:;^/o;z  e  Robespierre^ 
una  tragedia  d' orribili  evocazioni,  la  quale  pur 
non  gì'  impedi  d'  essere  o  di  seguitare  a  essere 
il  poeta  favorito  delle  dame  di  Vienna  e  dell'  im-. 
peratrice  Elisabetta?  Ma  le  dimande  dell'onorevole 
Bonghi,  irragionevoli  rispetto  all'  estetica  e  alla 
critica  letteraria,  hanno  il  motivo  del  sospetto  poli- 
tico che  è  r  anima  della  sua  requisitoria  "  Adun-. 
que,  (;a  ira  ?  —  Non  se  ne  dubita,  poeta  illustre, 
ma  ella  è  felice,  se  non  è  punto  in  pensiero  di 
dove  ga  aboutira  „  :  hanno  la  ragion  d'  essere  in 
queste  massime  e  da  questi  giudizi,  non  tutti 
per  avventura  storicamente  giusti,  dell'  onorevole 
M.  T.: 

Quando  1'  anima  umana  è  offesa  nel  suo  sacro  diritto  al  vero. 
e  al  giusto  in  ogni  cosa,  non  può  per  lei  svolgersi  il  fiore  del- 
l'alta  poesia. -E  di  necessità  l'aduggia  quel  giacobinismo,  che 
già  da  molti  anni  in  Francia  accusato  e  condannato  da  liberali 
de'più  noti,  ed  ora  sottoposto  a  terribile  processo  da  un  duce 
dei  positivisti,  fra  noi,  gentil  sangue  latino,  avvezzi  a  pascere 
con  orgoglio  e  delizia  degli  altrui  rifiuti  e  sempre  inclinati 
alla  servile  imitazione,  rifiorisce  di  novelle  fronde  e  si  prepara 
per  non  lontani  trionfi.  I  quali  sembra  che  gli  si  augurino  con 
questo  titolo  che  dal  passato  facilmente  si  trasporta  al  presente. 

Io  mi  confesso  temperatissimo,  anzi  scarso  am- 
miratore del  signor  Taine  e  del  procedimento  si- 


9A  IRA  447 

stematico  ond'  egli;  apparecchiatore  troppo  colo- 
rito e  incalorito  per  positivista^  dà  per  mezza 
alla  storia  cosi  delle  lettere  inglesi  come  dei  ri- 
volgimenti francesi.  Ma  con  ciò  che  scrissi  del 
giacobinismo  or  è  a  pena  un  anno,  se  met- 
tesse conto  citare  me  stesso^  potrei  appellarmi 
dalle  sentenze  dell'  on.  M.  T.,  dove  mi  registra 
tra  i  pusillanimi  sempre  inclinati  alla  servile  imi- 
tazione, che  usan  pascersi  con  orgoglio  e  delizia 
degli  altrui  rifiuti.  Ma  io  non  ho  tempo  a  difen- 
dermi dall'  onorevole  M.  T.;  debbo  attendere  al- 
l' onorevole  Bonghi,  che  senza  requie  m' incalza 
chiedendomi  fin  con  l' ironia  il  mio  programma 
politicò.  "  Ma  forse  il  Carducci  vede  chiaro  ciò 
che  a    tanti  è  scuro  „. 

Cotesto  forse  no  ;  ma  l' onorevole  Bonghi  è 
uomo  dotto,  e  non  può  avere  intorno  a  quelli  che 
professan  poesia  i  pregiudizi  della  stupida  arcadia 
dei  politicanti.  Io  dunque,  giacché  l' onorevole 
Bonghi  par  che  lo  desideri  con  tanta  impazienza, 
gli  farò  il  mio  programma  politico  :  non  mi  costa 
nulla,  perché  io  non  aspiro  a  nulla.  Non  aspiro 
a  esser  ministro  né  della  monarchia  né  della  re- 
pubblica, fion  volli  e  non  voglio  essere  deputato, 
non  sono  né  voglio  essere  capo  o  interprete  di 
verun  gruppo  di  veruna  associazione  di  verun 
partito,  perché  non  voglio  essere  il  servo  de'  miei 
capeggiati  e  l' instrumento  degli  interpretati.  Vor- 
rei (e  questo  con  implacabile  e  implacata  ambizione); 
essère  il  signor  tal  de'  tali  asciutto  asciutto,  senza. 


448  <;:a  ira. 

epiteti  né  aggettivi  e  co  '1  men  possibile  di  relativi. 
Non  potendo  concedermi  tanto,  mi  contento  a 
esser  professore  di  lettere  italiane  al  servizio  dello 
Stato,  fin  che  piaccia  alla  maggioranza  di  tolle- 
rarmi: quando  non  più,  V  onorevole  Bonghi  e  i  su'oi 
amici  sanno  che  io  non  fo  richiami  né  querele, 
né  gagnolo  né  abbaio,  né  lecco  le  mani  né  mordo 
le  zampe  per  di  dietro;  mi  tiro  in  disparte  dietro 
un  pagliaio  e  abbaio  alla  celeste  paolotta. 

A  proposito  di  cani.  E'  m' interviene,  e  parmi 
assai  lieto  caso,  come  a  queir  uomo  da  bene,  il 
quale  più  per  diletto  suo  che  per  mestiere  usava 
impagliare  le  spoglie  di  cotesti  nobili  animali,  e 
tanto  piacere  pigliava  dell'  opera  e  tanto  si  acca- 
lorava a  vedersi  crescere  e  arrotondare  e  affigu- 
rar  tra  le  mani  quelle  care  forme,  che  seguitava 
a  pur  insaccare  nelle  pelli  e  paglia  e  stoppa  e 
altri  ingredienti,  e  inzéppa  che  t'inzeppo,  gli  ve- 
nian  poi  fatti  de'  cani  lunghi,  lunghi,  lunghi.  — 
Cosi  a  me  i  discorsi. 

Su,  discorsi-cani,  ai  polpacci  dei  lettori  ma- 
ligni. 


X. 


Ecco  ora  il  mio  programma. 

Io,  non  che  augurare  o  invocare  all'  Italia  ri- 
volgimenti come  quelli  di  Francia  nel  '89  nel  '92 
nel  '93,  credo  tali  rivolgimenti  in  Italia  impossi- 
bili,   non   pure    per   le  troppe  diverse  condizioni 


^A   IRA.  449 

di  popoli  di  governi  di  tempi  che  tutti  veggono 
e  sentono,  ma  perché  in  politica  V  imitazione  non 
riesce  che  a  fantocciate,  la  cui  ridicolaggine,  di- 
vertente fino  a  un  certo  segno,  non  vale  il  costo. 
Non  so  se  in  Italia  ci  sia  dei  dilettanti  di  lanterne 
o  di  ghigliottine:  certi  accademici  comunardi  che 
beveano  petrolio  come  gli  arcadi  le  pure  linfe 
di  Ippocrene,  e  che  volevano  impiccare  gli  altri 
e  alla  disperata  sé  stessi,  come  tanti  personaggi 
di  una  commedia  pastorale  dove  i  montoni  fos- 
sero affetti  d' idrofobia,  cotesti  accademici  si  ap- 
pagarono a  passare  scrittori  nei  giornali  mini- 
steriali, e  professori,  credo,  di  lettere  nelle  scuole 
del  regno;  nelle  quali  voglio  sperare  non  fac- 
ciano soverchio  strazio  dei  membri  del  periodo 
e  non  impicchino  il  senso  comune  alle  forche 
dei  gerundi. 

Io  dunque  delle  paure  espansive  e  attaccaticce 
d'  un  presente  male  appreso  non  mi  sento  quel 
tanto  che  basti  per  raggrupparle  in  nuvole  di  odii 
e  farle  ricadere  in  pioggia  di  epiteti  abbominosi 
su  la  storia  del  passato.  Il  "  (^a  ira  di  canagliesca 
ed  atroce  memoria,  il  truce  e  sguaiato  ritornello 
della  ribalda  canzone  giacobina  „,  perdóni  1*  ono- 
revole M.  T.,  è  un  po'  troppo.  "  Canagliesca  me- 
moria „  sia  pure.  Mi  saprebbe  dire  Y  onorevole 
M.  T.,  che  sa  tanto  di  storia,  quali  e  quanti  mu- 
tamenti sociali  senza  opera  della  canaglia  ci  narra 
la  storia?  E  quanti  e  quali  rivolgimenti  politici, 
cui  la    canaglia  non  desse  il  muscolo  del  braccio 

Carducci.  4.  29 


450  QA    IRA. 

e  la  rabbia  affamata,  riuscirono?  Les  aristocra- 
tes  on  les  pendra:  male,  male,  senza  dubbio.  Ma 
r  onorevole  M.  T.  voglia  un  po'  contare  le  rivolu- 
zioni sociali,  politiche,  religiose,  che  passarono 
senza  vittime.  Ahimè,  tutta  la  storia  umana  è 
un'  orribile  marea  di  sangue  ;  e  la  corrente  che  vi 
passa  in  mezzo  più  rapida  più  profonda  più  nera 
è  di  quello  versato  dai  re  dai  nobili  dai  preti  pur 
fuori  della  guerra  guerreggiata.  I  due  versi  che 
suonan  lanterne  e  impiccagioni  furono,  ben  ri- 
corda r  onorevole  Bonghi,  solo  più  tardi  aggiunti 
alla  canzone,  che  in  principio  cantava 

Celili  qui  s'  élève  on  1'  abaissera 

Et  qui  s'abaisse  on  l' eleverà,  ^/  ^ 

ove  r  onorevole  Bonghi  ha  il  torto  di  non  vedere 
e  riconoscere  altro  che  "  il  veleno  della  gelosia 
tra  le  classi;  il  veleno  di  non  volere  chi  è  giù 
tollerare  niente  che  gli  stia  di  sopra,  e  di  non 
e'  essere  altra  méta  alle  società  umane,  che  il  non 
lasciarci  nulla  che  si  elevi  „.  Oh  no,  questi  due 
versi  sono  il  verbo  della  missione  di  Gesù:  Chiun- 
que s' innalza  sarà  abbassato,  e  chi  si  abbassa 
sarà  innalzato  (Luca,  xiv,  ii).  Che  se  vogliamo  di- 
scutere della  civiltà  di  quella  missione,  discutiamo 
pure,  ma  altrove;  per  ora  stia  fermo  che  la  rivo- 
luzione francese  fu  un  moto  storico  altamente 
cristiano,  che  la  canaglia  sanculotta  strillando  il 
fa  ira  cantava  le  massime  del  Nazareno,  il  quale 
anche  affermava  essere  venuto  in  questo    mondo 


^A   IRA.  451 

à  portare  non  la  pace  ma  la  spada.  Per  ciò  veda 
r  onorevole  M.  T.,  che;  se  la  ribalda  canzone  gia- 
cobina ha  degli  accenti  pur  troppo  feroci,  —  qual 
è  angolo  della  storia  donde  non  si  odano  urli  di 
iene  più  spesso  che  ruggiti  di  leoni?  —  ne  ha 
pure  di  quelli  che  risuonano  con  evangelica  sem- 
plicità il  sociale  rinnovamento  predicato  da  Gesù. 
E  altri  ve  ne  ha  che  riecheggiano  memorie  e 
speranze  sublimi  ai  cuori  umani:  questo  verso, 
per  esempio, 

La  Hberté  triomphera. 

Quando  io  penso,  onorevole  M.  T.  e  onorevole 
Bonghi,  che  al  canto  di  cotesto  verso  furono  ab- 
bruciati gli  infami  titoli  della  conquista,  della  usur- 
pazione, della  sacrilega  frode,  io  che  ho  tra' miei' 
vecchi  chi  combatté  i  repubblicani  francesi  nelle 
guerriglie  di  Carrara  di  Montignoso  e  di  Cama- 
iore,  io  il  cui  avo  perde  quel  poco  che  aveva  per 
danni  giacobinici,  io,  onorevole  Bonghi  e  onore- 
vole M.  T.,  cosi  digiuno  come  sono,  mi  sorprendo 
a  cantare  di  tutta  lena 

Ah  ga  ira,  ga  ira,  ga  ira; 

e  mi  viene  una  matta  voglia,  in  su  questo  mez- 
zogiorno di  luglio,  in  mezzo  a  questi  libri  di 
crusca  che  mi  guardano  stupidi  con  tanto  d'  occhi 
rossi  e  neri,  e  gialli  spalancati  come  quelli  dei 
granch?  dalle  costole  delle  legature,  di  ballare  la 
carmagnola,  e  di  abbracciare    almeno    in    ispirito 


452  (;a  ira. 

anche  voi,  onorevoli  Bonghi    e  M.  T.,    e    tirarvi 
per  forza  a  tondo  a  cantare  anche  voi. 

Ah  ^a  ira,  ga  ira,  ca  ira! 
La  liberté  triomphera. 

E  guai  per  noi,  se  non  avesse  trionfato.  Né  voi, 
onorevole  M.  T.,  sareste  oggi  senatore  d' Italia, 
né  voi,  onorevole  Bonghi,  sareste  stato  ieri  o  sa- 
rete per  avventura  dimani  ministro  del  re  d' Italia. 
E  non  venitemi  fuori  con  le  invenie  del  Botta 
e  del  Balbo,  che  la  rivoluzione  francese  calò  tra 
noi  a  turbare  con  orribile  danno  delle  cose  nostre 
il  placido  svolgimento  a  cui  i  reggimenti  politici 
e  la  economia  paesana  avviavansi  mercé  le  ri- 
forme iniziate  e  promosse  dai  principi.  Altro  che 
cataplasmi  di  riforme  ci  voleva  a  rifare  il  sangue 
di  quel  vecchio  popolo  italiano,  di  frati,  briganti, 
ciceroni  e  cicisbei.  E  non  venitemi  fuori  con  i 
tradimenti  le  violenze  le  rapine  i  sacrilègi  e 

degli  itali  ingegni 
Tratte  l'opre  divine  a  miseranda 
Schiavitude  oltre  1'  alpi,  ecc. 

Ma  che  altro  fecero  i  Romani  nostri  padri  e  i 
Veneziani  nostri  fratelli  in  Grecia?  I  famosi  ca- 
valli, se  opera  di  Lisippo,  i  Romani  non  gli  ave- 
vano portati  via  da  Corinto  o  d' altrove?  e  i 
Veneziani  alla  lor  volta  non  gli  avevano  portati 
via  di  certo  da  Costantinopoli?  Eh  via. 

Che  slum  tutti  d'un  pelo  e  d'una  lana. 


9A  IRA.  453 

Potevamo  ben  pagare  con  qualche  Madonna  spo- 
gliata delle  bacheche  d' oro  e  di  cattivo  gusto 
male  affacentisi  alla  dolente  imagine  della  povera 
madre  dell'  internazionalista  giustiziato;  potevamo 
ben  pagare  con  del  bronzo,  con  del  marmo,  con 
dei  quadri,  con  de'  libri,  che  al  fin  fine  ci  furono 
restituiti,  potevamo  ben  pagare,  dico,  la  conscienza 
di  noi  stessi  che  i  Francesi  con  la  repubblica  e 
con  l'impero  ci  resero.  Essi  ci  spazzolarono,  po- 
niamo con  la  granata,  dalla  polvere  delle  antica- 
mere e  dalle  macchie  e  dal  tanfo  di  sagrestia: 
essi  ci  armarono,  ci  disciplinarono,  e  con  molte 
pedate  di  dietro,  se  volete,  e  sorgozzoni  davanti, 
ci  spinsero  a  guardare  in  faccia  ed  a  battere  i 
nostri  antichi  padroni,  i  tedeschi  e  li  spagnoli: 
fecero  un  eroe  —  incredibile  a  imaginare  —  di 
quel  poltrone  di  Giovannin  Bongé,  il  servitore  di 
quello  stupido  codardo  bastardo  spagnolo  eh'  era 
il  Gioviti  signore.  Essi  ci  avran  rubato  tutto  quello 
che  volete  —  i  principi  nostrani  ed  austriaci  di 
prima  e  di  poi  ci  regalarono  forse?  —  ma  ci  la- 
sciarono esempio  di  amministrazione  sapiente,  e 
di  strade  e  di  ponti  e  di  edifici  pubblici  solcarono 
agevolarono  adornarono  il  bel  paese  che  prima 
del  '89  faceva  a  pena  14  milioni,  e  tra  questi, 
ottantaquattro  mila  frati,  stando  al  computo  più 
modesto,  e  senza  contare  le  monache. 

Che  Dante  odiasse  i  Francesi,  o  meglio  i  reali 
di  Francia,  lo  capisco:  un  nepote  di  san  Luigi  lo 
avea  turbato  dal  suo  nido,  ed  egli  poi  era  ostinato 


454  i?A*  IRA. 

a  dire  e  fare  tutto  il  contrario  di  ciò  che  dicesse 
o  facesse  il  suo  comune.  Che  li  disprezzasse  e 
gì'  invidiasse,  non  senza  odio,  Nicolò  Machiavelli, 
lo  capisco:  erano  stati  troppo  facili  vincitori  di 
quei  principi  itaHani  tanto  a  loro  superiori  nel- 
r  arte  del  dissimulare,  delF  avvelenare,  del  cor- 
rompere e  del  tradire:  più,  avean  ingannato  i 
Fiorentini  su  le  cose  di  Pisa;  e  Nicolò,  con  tutta 
l'unità  d'Italia  che  si  rimpastasse  in  pensiero, 
era  molto  tenero  della  sua  piccola  e  gloriosa  re- 
pubblica. Che  gli  odiasse  Vittorio  Alfieri,  lo  ca- 
pisco anche  meglio  :  a  lui,  nobile  piemontese, 
puzzavano  quegli  avvocatucci  di  Parigi  che  gli 
aveano  sequestrato,  più  ancora  delle  rendite  e  dei 
libri,  la  sua  repubblica  classica.  Vincenzo  Gioberti 
credo  odiasse  la  Francia  per  fidecommesso.  Ma 
che  noi,  dopo  il  1859  raccolti  a  stato  uno  che  si 
prèdica  forte,  dobbiamo  avere  il  misogallismo  per 
instituzione  nazionale,  perché  i  Francesi  si  reg- 
gono con  altro  modo  di  governo  che  noi,  perché 
a  un  tratto  occuparono  quello  che  a  noi  fu  oiferto 
più  volte  e  non  lo  volemmo;  questo  non  lo  in- 
tendo, non  ne  sento  il  bisogno,  mi  farebbe  schifo, 
se  non  mi  facesse  ridere,  ma  ridere  verde.  Abbiam 
ragione  di  sospettare  della  buona  vicinanza  fran- 
cese? Armiamo  forte  e  facciam  buona  guardia. 
Ma  che  si  abbia  a  celebrare  con  solennità  di  com- 
memorazione nazionale  i  Vespri  siciliani,  un  ma- 
cello barbarico:  ma  che  s'abbia  a  ristampare, 
non  nel  caso  di  una  raccolta  compiuta  delle  opere 


9A  IRA.  455 

dell'  autore,  ma  da  sé,  quasi  protesta  o  come  ecci- 
tamento, il  Misogallo  dell'Alfieri,  un  libro,  salvo 
due  o  tre  sonetti  e  qualche  epigramma,  di  con- 
torte declamazioni  che  fan  torto  a  chi  le  scrisse 
e  non  dan  gusto  a  chi  le  legge:  ma  che  in  uh 
giornale  storico  della  letteratura  italiana,  diretto 
e  scritto  da  professori  giovani  e  giovanissimi, 
i  quali  per  T  arte  per  l' umanità  per  la  coltura  è 
per  la  patria  non  hanno  ancora  avuto  occasione 
di 'fare  oltre  degli  studi  immaturi  e  indigesti,  si 
affermi  che  il  Voltaire  era  "  molto  ignorante  e 
moralmente  poco  meno  che  abietto  „  :  tutto  questo 
potrebbe  dar  la  misura  di  qual  resto  di  ferocia 
e  di  bassezza,  di  pedanteria  e  d' ignoranza  incaro- 
gnisca per  anche  nei  bassi  sedimenti  dell'  anima 
italiana,  se  non  fosse  del  nostro  consueto  colèra 
sporadico  che  si  sfoga  in  evacuazioni  verbose. 

Dopo  ciò  posso  dir  francamente  che  né  auguro 
né  invoco  alla  patria  una  repubblica  come  la  fran- 
cese del  '92  o  dell'  oggi  :  non  come  quella  del  '92, 
perché  gli  uragani  non  s' imitano  né  si  rifanno  ; 
non  come  quella  dell'  oggi,  perché  essa,  per  di- 
fetto d' idee  e  di  forza,  per  abondanza  di  cupi- 
digie e  d'imbrogli,  è  anche  da  meno  del  governo 
parlamentare  nostro,  è  un  che  fra  la  trapezitarchia 
e  la  pornocrazia;  e  perché  in  fine  sórse  dalla  di- 
sfatta nazionale,  e  sarebbe  un  traditore  della  pa- 
tria chi  volesse  la  Marianna  con  tale  una  culla. 
Dico  di  più  :  ora  come  ora,  io  non  vorrei  in  Italia 
la  repubblica   per    solo    amore    della   repubblica: 


45^  ?A   IRA. 

perché  un  tale  mutamento  nelle  condizioni  del- 
l' assetto  del  paese  e  de'  suoi  bisogni  e  con  le 
forze  rispettive  dei  diversi  partiti  non  potrebbe 
non  produrre  un  indebolimento  almeno  tempora- 
neo al  di  dentro  e  1'  isolamento  al  di  fuori;  e 
■questo  isolamento  e  questo  indebolimento  ci  da- 
rebbero in  soggezione  della  Francia;  e  io,  tutt' al- 
tro che  nemico  ai  Francesi,  non  però  vorrei  per 
nessuna  guisa  nessuna  nuova  repubblica  cisalpina. 
Dico  anche  di  più  :  dubito  forte  che  ora  come  "ora 
la  repubbhca  possa  riuscire  o  attecchire  in  Italia. 
Il  partito  repubblicano  storico,  quello  che  fu  un 
grande  onore  e  una  gran  forza  della  patria,  ha 
perduto  dopo  il  1870  molto  di  quella  sua  forza  e 
dell'  intensità  e  dell'  unione,  per  parecchie  ragioni 
che  qui  non  debbo  né  voglio  discorrere,  ma  spe- 
cialmente per  una.  Venuta  meno  con  1'  acquisto  di 
Roma  r  aspettazione  delle  eroiche  avventure  per 
una  compiuta  rivendicazione  nazionale,  che  poteva 
anche  essere  una  rivoluzione,  non  avverandosi 
d'  altra  parte  mai  l' avvenimento  delle  barricate  a 
scadenza  fissa,  l' idealismo  dell'  azione  mancante 
fermentò  in  certe  teste  fino  a  volere  una  inocu- 
lazione italica  del  comunismo  parigino.  Passata 
r  ebrietà  tempestosa,  spiccò  per  altro  in  secco  un 
partito  socialista  misto,  con  parecchie  idee  buone 
e  giuste  che  han  da  passare  prima  o  poi  nella 
legislazione,  ma  con  teoriche  non  accettabiH  in 
solido  mai  da  nessun  governo  o  partito  politico 
^nel  senso  greco    della  parola),  con  intendimenti 


9A  IRA.  457 

e  procedimenti  per  lo  meno  molto  arruffati,  quando 
non  urtanti  per  istolide  e  cattive  declamazioni. 
Cotesto  nuovo  partito  venuto  su  dagli  elementi 
più  irrequieti  e  forse  anche  dalle  forze  più  gio- 
vani del  repubblicanismo,  cacciato  e  accaneggiato 
da  prima,  ora  è  cercato  ad  alleanze  che  non 
promettono  di  essere  né  fide  né  durevoli  né  frut- 
tuose. Ai  repubblicani  almeno  sono  cagione  di 
maggior  debolezza,  quando  fan  loro  perder  più 
sempre  terreno  nella  maggioranza  legale  del  paese, 
che  è,  secondo  il  genio  italiano,  conservatrice  e 
tira  (non  s' illuda  nessuno)  più  a  dare  indietro  che 
a  spingersi  innanzi,  senza  eh*  e'  ne  acquistin  però 
nelle  turbe,  le  quali,  se  mosse  o  mo ventisi,  cre- 
dono di  accontarsi  meglio  coi  socialisti.  E  i  so- 
cialisti intanto  affrontano  il  partito  repubblicano 
storico,  lo  punzecchiano,  lo  assillano,  lo  urtano, 
lo  sospingono,  lo  minacciano.  E  al  caso  vorranno 
molto  più  di  quello  che  ora  mostrin  di  chiedere, 
vorranno  tutto,  vorranno  almeno  quello  che  i  re- 
pubblicani politici  non  potranno  mai  dare.  Di  che, 
o  la  repubblica  si  farà  sùbito  dittatura  o  si  verrà 
alla  guerra  civile,  e  di  conseguente  anche  alla 
dittatura  di  qualunque  sia  la  parte  che  vinca, 
perché  V  anarchia  non  esclude  la  dittatura,  anzi. 
A  me  la  dittatura  non  par  mica  abbominevole, 
come  le  porte  d*  inferno  :  ma  la  vorrei  dei  giusti 
e  dei  forti,  e  di  tali  non  ne  vien  su  dal  detrito 
delle  rivoluzioni  sociali,  dopo  che  V  odio  ha  forni- 
cato con  la  cupidigia  nel  pattume  della  Hcenza. 


45^  9 A   IRÀ. 

Per  tutte  queste  cagioni  io  né  auguro  alla  patria 
una  repubblica  alla  francese  né  V  affretto  dalla  ri- 
voluzione; e  gli  onorevoli  M.  T.  e  Bonghi  hanno 
torto  non  d'  aver  paura,  si  d'  averne  de'  miei  so- 
netti. Hai  paura  de  mosconi y  Che  ti  pungano  i  cal- 
zoni; Hai  paura  delle  zanzare,  Che  ti  pinzino  il 
grembiale  cantava  la  donna  di  servizio  a  certa 
bambina  che  è  un  tirannello  co  '1  guscio  in  capo,  e 
pure  a  solo  un  motto  di  mosconi  allibisce,  e  vuole 
andare  in  braccio  a  nascondersi  nel  seno  della 
mamma.  Ma,  se  questa  può  essere  una  prova  del- 
l' azione  che  la  poesia  esercita  ancora  su  gli  animi 
degli  italiani,  e  se  possono  i  miei  endecasillabi 
somigliarsi  a  zanzare  e  i  sonetti  a  mosconi,  gli 
onorevoli  M.  T.  e  Bonghi  non  sono  da  vero  bam- 
bini; e  giudicheranno  a  mente  fredda  qual  colpa 
abbia  io  del  fatto,  che  i  partiti  da  oltre  un  ven- 
tennio governanti  non  seppero  risvegliare  nella 
nazione  il  sentimento  fondamentale  d' una  esi- 
stenza vigorosa  e  tranquilla. 

A  questa  nazione,  giovine  di  ieri  e  vecchia  di 
trenta  secoli,  manca  del  tutto  l' idealità  ;  la  reli- 
gione cioè  delle  tradizioni  patrie  e  la  serena  e 
non  timida  conscienza  della  missione  propria  nella 
storia  e  nella  civiltà,  religione  e  conscienza  che 
sole  affidano  un  popolo  d'  avvenire.  Ma  idealità 
non  può  essere  dove  uomini  e  partiti  non  hanno 
idee,  o  per  idee  si  spacciano  affbcamenti  di  pic- 
cole passioni,  urti  di  piccoli  interessi,  barbagli  di 
piccoli  vantaggi  :  dove  si  baratta  per  genio  1'  abi- 


9 A  IRA.  459 

lità,  e  per  abilità  qualche  cosa  per  avventura  di 
peggio;  dove  tromba  di  legalità  e  alfiere  dell' au- 
torità è  la  vergogna  sgattaiolante  a  faccia  fresca 
tra  articolo  e  articolo  del  codice  penale.  E  pure 
le  virtù  e  gli  ingegni  non  mai  furono  esaltati  in 
Italia  come  a  questi  ultimi  anni  ;  e  se  i  vicoli  non 
che  le  piazze  delle  cento  città  paiono  oramai 
scarsi  ed  angusti  ai  monumenti  della  nostra  gloria 
defunta,  io  dubito  forte  non  le  cave  di  Carrara  e 
di  Serravezza  abbian  marmo  che  basti  a  monu- 
mentare le  grandezze  viventi.  Ogni  mattina  il 
sole  ha  da  rallegrarsi  su  la  faccia  d' un  nuovo 
grand*  uomo,  che  sorge  a  uso  e  consumo  di  questo 
o  quel  partito,  di  questo  o  quel  crocchio;  e  i  fat- 
tori e  i  compari,  abburattatoselo  tra  loro,  lo  danno 
a  palleggiare  all'  ammirazione  del  pubblico.  A  ogni 
ombra  che  vediamo  passar  lunga  presso  il  Cam- 
pidoglio o  nelle  piazze  della  Signoria  e  di  San 
Marco  o  sotto  i  Portoni  di  Milano  o  per  ogni 
viuzza  di  qualunque  villaggio,  noi  ci  gridiamo  — 
Vedete  omaccioni  che  fanno  ancora  in  casa  no- 
stra —  ;  e  non  ricordiamo  che  quando  i  pigmei 
proiettano  lunghe  le  ombre  è  1'  ora  del  tramonto, 
infelici!  Ubriacarsi  con  1' acqua  io  credevo  fosse 
una  fantasia  o  una  scusa  degli  ubriachi  di  vino: 
ora  veggo  che  è  la  verità  del  popolo  italiano.  Oh 
se  una  volta  scotessimo  via  1'  abitudine  delle 
sbornie  acquatiche,  e,  da  poi  che  non  può  esser 
grande  ognun  che  voglia  e  al  primo  momento,  ci 


460  ^A   IRA. 

contentassimo  a  essere  schietti,  coraggiosi  e  one- 
stamente gagliardi! 

Allora  i  ministri  dell'  estero,  o  dilettanti  ex- 
mazziniani che  si  spassassero  il  giorno  a  legger 
romanzi,  o  avvocati  musicanti  che  si  spassin  la 
sera  a  strimpellar  la  Sonnambula,  non  avran  più 
due  facce:  al  di  qua  dall'Alpi,  di  padri  e  salvatori 
della  patria;  al  di  là  di  pitocchi  che  fan  tuttavia 
la  coda  ai  gabinetti  d'  Europa,  come  usa,  o  usava 
una  volta,  in  tempo  di  carestia,  alle  botteghe  dei 
fornai,  per  avere  quella  libbra  di  pane  che  basti 
quel  giorno  all'  Italia  per  non  morire  di  fame  :  e, 
ove  ne  sia  offerto  loro  di  più,  non  faranno  come 
certi  cani  magri  spelati  che  se  la  danno  a  gambe 
da  chi  mostri  di  gittar  loro  un  tòzzo.  Allora  nella 
politica  interna,  a  riparare  il  difetto  di  quella 
idealità  che  dicevo,  non  si  vedrà  questo  usuale 
spreco  del  fatto  e  del  nome  della  dinastia,  onde 
la  corona,  scudo  ne'  duelli  e  paralume  ne'  giuochi 
dei  partiti,  è  da  chi  men  dovrebbe  esposta  di 
continuo  agli  ammacchi  di  dentro  e  agli  smacchi 
di  fuori. 

L' idealità  di  una  nazione  non  sta  in  questo, 
che  ogni  allegra  brigata,  volete  di  profumieri 
volete  di  salumai,  raccolta  a  far  baldoria,  non 
creda  di  finir  bene  la  festa  se  non  batte  il  tele- 
grafo con  un  dispaccio  al  sovrano,  che  in  quel- 
r  ora  e  in  quel  caso  viene  a  dir  cosi  —  Sire, 
abbiamo  cenato  bene  e  ora  pigliamo  il  cognac: 
buona  notte.  —  L' idealità    d'  una  nazione,  la  re- 


9A   IRA.  461 

ligione  cioè  della  patria,  ha  per  fondamento,  per 
focolare  alimentatore,  una  o  più  realità:  ciò  sono 
una  graduale  trasformazione  e  ascensione  delle 
classi  inferiori  verso  il  meglio;  un  ordinato  e  sano 
svolgimento  delle  forze  economiche  nelle  classi 
mezzane;  un'  aristocrazia  almeno  del  pensiero, 
della  scienza,  dell'  arte,  in  una  coltura  superiore 
di  genio  altamente  nazionale.  Ora  che  fecero  di 
questo  e  per  questo  i  governanti  italiani?  La 
plebe,  dove  non  indifferente  o  brutalmente  incon- 
sapevole, è  malcontenta  e  nemica:  aristocrazia 
non  ce  n'  è  di  veruna  guisa:  la  coltura  e  la  lettera- 
tura rendono  imagine  della  borghesia  che  le  im- 
partisce e  le  subisce,  e  nella  copia  delle  scuole 
farraginose  e  della  produzione  efimera  danno  ar- 
gomento di  paura,  non  pure  per  il  difetto  e  la 
nullità  del  pensiero,  ma  per  la  negazione  assoluta 
d'ogni  pensiero:  gente,  direste,  che  sente  e  fun- 
ziona, non  pensa. 

E  alla  letteratura  e  alla  scuola  senza  pensieri, 
al  governo  e  alla  politica  senza  idee,  risponde  la 
vita  senza  convinzioni.  La  borghesia,  che  molto, 
a  dir  vero,  pagò  e  di  persona  e  di  borsa  per  la 
riconstituzione  della  patria,  dati  giù  i  bollori,  è 
ricascata  nella  morbidezza  stracca  dell'  apatia,  e 
non  se  ne  leva  che  per  isvaghi  e  chiassate,  pro- 
curati eccessi  di  morbosa  vitalità  che  la  frollano 
sempre  più.  La  salutata  Niobe  delle  nazioni,  di- 
scesa dal  Sipilo  doloroso,  è  tornata  la  schiava  e 
la  cortigiana  dei  tempi  imperiali   e   papali,   vuole 


462  9  A   IRA. 

circences  e  carnasciali)  per  rifarsi  del  tempo  della 
espiazione  gira  in  volta  con  i  martiri  figliuoli  e 
coi  pedagoghi  menando  un  gran  ballo  masche- 
rato da  capo  d' anno  a  San  Silvestro.  Si  scio- 
pera per  i  centenari  e  per  gli  anniversari,  per 
i  vivi  e  per  i  morti,  per  i  santi  e  per  i  dannati, 
per  le  nascite,  per  le  nozze,  pe'  funerali.  Ogni 
occasione  è  buona  —  tutti  d'  accordo  in  questo, 
monarchici  e  republicani,  anarchici  e  conserva- 
tori —  per  non  lavorare  e  per  far  baldoria. 
Vostro  eroe,  o  cittadini,  non  è  Vittorio  Ema- 
nuele o  Garibaldi;  è  Michelaccio.  Per  i  centenari 
si  vanno  a  dissotterrare  de' morti  che  furono  vivi 
cosi  cosi;  e  degli  sfolgoranti,  come  il  sole,  a  tutto 
il  mondo,  si  sbaglia  il  giorno  che  nacquero.  Ma 
intanto  ci  divertiamo  a  dire  e  udire  stupidaggini 
gloriosissime  in  versi  sciolti  e  in  periodi  mal  le- 
gati; e  si  mangia  e  si  beve  e  si  balla,  e  della 
gloria  antica  il  paese  avvantaggia  le  risorse  mo- 
derne; cioè  gli  osti  trionfano  a  spese  dei  comuni. 
Le  commemorazioni  dei  grandi  uomini  e  dei 
grandi  fatti  della  patria  si  mutano  in  pugillati 
di  accademie  politiche  invereconde,  o  diventano 
agone  agli  sfringuellamenti  di  baccanti  pusilli, 
che  un  popolo  serio  dovrebbe  seppellire  a  furia 
di  scapaccioni  nella  vanità  loro  irrequieta.  Su  le 
bare  si  battono  le  mani  agli  oratori  fioriti.  E  quando 
lan  galantuomo  è  allettato  e  comincia  a  peggio- 
rare, ecco  sùbito  gli  amici  suoi  politici  e  letterari 
a  darsi.attomo  per   il  trasporto  della  salma   e  a 


9A   IRA.  463 

comporre  il  discorso  da  improvvisare  impallidendo 
e  piangendo  dinanzi  alla  sepoltura:  se  risana, 
servirà  per  un'altra  volta.  E  come  se  i  funerali 
dei  nostri  amici  e  i  banchetti  delle  commemora- 
zioni patriottiche  e  le  colazioni  dei  congressi  scien- 
tifici non  bastassero  alla  nostra  affettuosità  e  alla 
nostra  eloquenza,  cioè  alla  innata  nostra  istrionia 
e  alla  ciarla  ereditaria,  quando  capita  una  buona 
alluvione  o  un  bel  terremoto,  non  ci  lasciamo  di 
certo  scappar  l' occasione.  Allora  tutte  le  mani 
scioperate  si  fanno  una  mano  sola,  e  dall'  Alpi  a 
Capo  Passare  chiede  limosina  di  prose  di  rime 
di  autografi;  e  tutte  le  penne  e  le  matite  sciope- 
rate divengono  una  penna  o  una  matita  sola  per 
fare  ah  oh  ih  iiìi  in  prologhi,  in  musiche,  in  boz- 
zetti, in  macchiette.  Le  mani  in  vece  e  le  gambe 
delle  signore  e  delle  signorine  si  moltiplicano 
vorticosamente  a  percuotere  pianoforti  e  pianciti 
suonando  e  ballando  per  il  dolore  e  per  la  pietà. 
E  come  se,  oltre  centenari  e  congressi  e  terre- 
moti, non  bastassero  alla  espansività  nostra  nel- 
r  ozio  e  al  nostro  appetito  le  esposizioni  le  inau- 
gurazioni i  carnevaloni,  hanno  anche  inventato 
il  Pellegrinaggio  Nazionale  con  la  riduzione  del 
settantacinque  per  cento.  E  quando  i  pellegrini 
avranno  adorato  la  tomba  e  sciolto  il  vóto,  perché 
non  si  potrà  organizzare  una  gitarella  a  Napoli 
magari  al  nulla  per  cento  per  mandarli  allo  scoglio 
di  Frisio  a  confortare  i  singhiozzi  coi  maccheroni  e 
a  mescere  alle  lacrime  patrie  il  Lacrima  Christi? 


464  ?A    IRA. 

E  cosi,  mentre  una  gente  superficiale  e  sen- 
suale anfaneggia  a  vuoto  tutto  1'  anno  in  un  falso 
patriottismo,  in  un  falso  idealismo,  in  una  falsa 
coltura,  in  una  falsa  felicità  (falsa  e  crudele  e 
infame  da  vero,  però  che  le  grandi  migliaia  dei 
lavoratori  emigrano  per  fame,  lasciandosi  dietro 
la  maledizione  e  la  vendetta  fatale  su  questa  na- 
zione d'arcadi  buffi  e  spietati),  la  gente  seria  e 
laboriosa  cura  i  suoi  campi,  i  suoi  interessi,  i  suoi 
studi  privati,  e  non  cura  gli  affari  pubblici,  in- 
differente del  governo,  diffidente,  con  gran  di- 
sprezzo, della  politica  e  di  chi  la  fa.  E  cosi,  a 
poco  per  volta,  mancati  o  sazi  di  nausea  gli 
uomini  integri  che  avanzano  dei  varii  partiti,  la 
cosa  pubblica  cadrà  tutta  alle  mani  dei  procac- 
cianti, pronti  già  a  farsi  della  politica  mestiero  e 
rendita. 

Dopo  di  che,  non  ho  più  voglia  di  dire  tutto 
il  male  che  pensavo  del  parlamento.  Certo  che,  a 
giudicarlo  dal  valor  suo  concettuale,  da  ciò  che 
ammira  come  eloquenza,  da  ciò  che  gusta  come 
spirito,  da  ciò  che  crede  politica  fina,  e  più  dalle 
prede  di  vóti  che  il  ministero  esercita  su  quel 
suo  cabotaggio  di  piccolo  corso,  ci  sarebbe  da 
disperare:  ma  in  fondo  è  un  collegio  di  buoni 
ragazzi,  che  vogliono,  come  i  loro  mandanti,  più 
figurare  e  divertirsi  che  lavorare:  onde  venti 
giorni  di  discorsi  ed  emendamenti,  e  ordini  del 
giorno  a  tonnellate,  e  dieci  leggi  votate  in  dieci 
minuti:    folla    agli    scandali,    deserto    ai    bilanci: 


9 A   IRA.  465 

ianno  forca,  burlando  il  maestro.  Oh  fate  forca, 
fate  forca  allegramente^  onorevoli  :  già  di  cotanta 
eloquenza  non  una  parola  echeggerà  nell'  av- 
venire. 

Il  peggio  è  che  parrebbe  non  avessero  amore 
di  patria.  Battagliano  con  de'  nomi  e  per  dei 
nomi,  e  dietro  le  loro  baruffe  fa  capolino  un 
mostro  che  sale  sale  da  Monte  Citorio,  su  per 
la  cupola  di  San  Pietro,  in  vetta  al  Gran  Sasso 
d'Italia:  ivi  s'impianta,  e  sur  un  violino  bislungo 
e  sbilenco,  con  un  arco  che  ha  la  corda  di  pelo 
di  lupo  e  di  pelo  d'  asino,  suona,  suona,  suona, 
alternando  furiosamente,  tra  orribili  scrosci  di 
risa,  le  calate;  e  ora  l' una  cocca  tócca  il  Tir- 
reno e  poi  r  altra  l' Adriatico.  È  il  diavolo  o  il 
regionalismo?  Certo,  quello  che  suona  è  l'antì- 
fona del  diavolo  :  De  malo  in  peius,  venite,  udo- 
re mus. 

E  gli  onorevoli  Bonghi  e  M.  T.  hanno  paura 
di  dodici  sonetti. 

Io  ho  paura  d'altro:  ho  paura  che,  se  con  si 
fatta  gente  non  si  fondano  le  repubbliche,  né 
meno  si  afforzino  le  monarchie:  ho  paura  che 
intanto  abbiamo  quel  che  ci  meritiamo.  Machia- 
velli Depretis  e  Tacito  Chauvet:  ho  paura  che 
avremo  nell'  avvenire  anche  di  peggio. 

Luglio-novembre  18S3. 


Carducci.  4.  30 


AGLI  ELETTORI 

DEL 

COLLEGIO  DI  PISA 

LETTERA    E    DISCORSO 


La  lettera 

dal    Resto    del    Carlino,    Bologna,  9  maggio  1 886. 

Il  discorso 

dal    Corriere    dell'Arno,   Pisa,  20  maggio  1S86; 

in  fascicolo  intitolato 

G.   C.   AGLI   ELETTORI   DEL   COLLEGIO   DI   PISA, 

Pisa,  Vannucchi,  1886, 


Al  Comitato  democratico  elettorale 
del  Collegio  di  Pisa. 

Cari  signorI; 


o  non  mi  sono  sentito  mai  né  oggi 
mi  sento  necessario  alla  patria;  e 
per  ciò  non  mi  proposi  io  mai  a  rap- 
presentante della  nazione,  e  le  offer- 
temi candidature  rinunziai  più  d'  una  volta^  con- 
tento a  servire  la  patria,  com*  è  mio  dovere  e 
piacere,  in  altri  modi  e  officii.  Oggi  che  la  can- 
didatura mi  è  proposta  da  molta  parte  di  un  po- 
polo che  io  amo,  non  che  per  le  virtù  sue,  per 
le  sue  gloriose  memorie  e  per  le  memorie  mie 
care;  e  da  poi  che  un  nobile  amico  e  un  gran 
cittadino.  Agostino  Bertani,  con  V  ultima  lettera 
che  egli  scrivesse  poche  ore  innanzi  la  morte, 
mi  sollecitò  che  accettassi;  io  obbedisco  alla 
voce  che  mi   viene   d' oltre   la   tomba,   obbedisca 


47°  AGLI   ELETTORI 

alla  voce  che  mi  suona  di  riva  al  mio  mare. 
E  obbedisco  alla  voce,  che  mi  comanda  dentro, 
del  dovere.  Però  che  io  credo  che  questa  non  più 
amministrazione  giustamente  costituzionale  ma 
governo  ostinatamente  personale  danneggi  e  per- 
verta r  Italia  :  si  che,  se  il  mio  nome  può  dare 
pur  un  minimo  colpo  al  minimo  dei  puntelli  di 
cotesta  oppressione  barocca,  vada  pure  il  mio 
nome. 

Da  molto  tempo  e  in  troppi  scritti  ho  fatto  le 
esposizioni  de'  miei  sentimenti  italiani  e  de' miei 
pensieri  politici;  e  le  ho  fatte  sempre  molto  can- 
didamente, senza  preoccupazioni  del  vantaggio  e 
del  danno  che  me  ne  potesse  venire  nel  favore 
più  di  questo  che  di  quel  partito.  Io  sono,  se  vo- 
gliamo dirlo  con  denominazione  inglese,  un  radi- 
cale) ma  radicale  sono  proprio  nel  senso  inglese, 
cioè  non  un  dilettante  di  rivoluzioni  per  amore 
delle  rivoluzioni.  Io  voglio  lo  svolgimento  di  tutte 
le  riforme  democratiche  richieste  dalla  necessità 
storica  dei  tempi,  ma  con  tutte  le  guarentigie  del- 
l'ordine  politico  e  sociale  e  secondo  la  tradizione 
italiana. 

Se  con  queste  idee  e  per  i  vóti  di  quelli  che 
le  partecipano  sarò  eletto  rappresentante  della 
nazione  nel  Collegio  di  Pisa,  io  me  ne  terrò  molto 
onorato  e  farò  possibilmente  il  mio  dovere.  Se  no, 
io  rimarrò  grato  lo  stesso  ai  cittadini  che  mi  re- 
putarono aon  indegno  di  quell'  onore,  e  me  ne 
resterò  contento   lo   stesso   nella  solitudine,   non 


DEL    COLLEGIO    DI   PISA.  47I 

nel  riposO;  de'  miei  studi.  Contento  lo  stesso: 
perché  tanto,  questo  governo  ha  da  cadere.  Il 
popolo  italiano,  che  non  senza  scrolli  tollerò 
r  amministrazione  d' un  Camillo  Cavour,  il  quale 
lasciava  per  testamento  a'  suoi  successori,  di  rado 
eseguito,  il  regime  della  Hbertà  ;  il  popolo  italiano 
non  può  di  certo  sopportare  più  a  lungo  la  dit- 
tatura bizantina  che  ogni  giorno  più  lo  diminuisce 
di  forza,  di  consiglio,  di  dignità. 

Bologna,  8  maggio  1886. 

vostro  affezionato  e  riconoscente 

G.  C. 


DISCORSO  AL  POPOLO 

NEL    TEATRO    NUOVO    DI    PISA 
19  maggio  1886. 


E  la  mia  voce  suona  esitante  e  quasi 
tremante  di  commozione,  prima  è 
pe  '1  rispetto  che  la  maestà  del  po- 
polo impone  a  cui  non  vuole  né 
adularlo  né  ingannarlo,  poi  è  per  un  profondo 
sentimento  che  nella  presenza  di  questa  città  mi 
percuote,  misto  d'una  mestizia  e  dolcezza  di  me- 
morie e  d'  una  espansione  di  gratitudine  e  amore. 
Dopo  trent'  anni  che  io  mi  partii  da  voi,  dopo  il 
fluire  d' una  tanta  generazione,  dopo  il  rinnova- 
mento d'una  patria  e  il  mutamento  d'una  società, 
voi  vi  ricordate  ancora  di  me;  e  me  nato  di 
questa  provincia,  in  questa  provincia  cresciuto,  in 
questa  alma  città  informato  alla  vita  intellettuale, 
voi,  o  signori  ed  amici,  richiamate  d'oltre  Apen- 
nino,  proponendomi  al  più  solenne  officio  che  cit- 
tadini possano  commettere  a  un  cittadino.  Grazie, 
o  signori  !  Grande  è  l' onore,  più  grande  la  bontà 


474  A<^LI   ELETTORI 

vostra  :  farò  d'  essere  meno  indegno  dell'  uno  e 
dell'altra;  parlandovi  onesto  e  verace  [applausi]. 

In  cinquant'  anni  di  vita  ho  esperimentato  che 
la  miglior  furberia  è  sempre  1'  onestà,  che  la  ve- 
rità è  il  più  squisito  machiavellismo  [applausi 
replicati  J.  Puro  d'  ogni  speranza  ambiziosa  e 
d'ogni  codardo  infingimentO;  però  che,  se  la  po- 
litica può  fare  a  meno  di  me,  anch'  io  posso 
fare  a  meno  della  politica,  e  anche  fuor  di  Mon- 
tecitorio la  mia  parola  può  senza  spesa  della 
nazione  risuonare  alto  lo  stesso  e  per  tutto, 
io  credo  dovere  esser  creduto  quando  affermo 
che  ad  accettare  la  propostami  candidatura  mi 
mosse  un'  alta  idea  di  dovere,  il  dovere  di  com- 
battere come  dannoso  alla  patria  questo  sistema 
di  governo  che  ora  si  appella  al  giudizio  degli 
elettori  [bene,  bravo]. 

Che  la  questione  si  ponga  apparentemente 
intorno  a  un  nome,  non  è  peccato  di  piccolezza 
d'  animo  e  mancanza  d' idee  in  noi,  è  peccato  di 
mente  corrotta  e  di  trasmodanza  incivile  in  altri. 
Dopo  il  vóto  del  cinque  marzo  sciogliere  la  Camera 
con  tante  esitazioni  a  quel  modo,  può  forse  esser 
difeso  come  atto  costituzionale,  atto  politico  non 
fu  di  certo.  Con  la  relazione  che  chiedeva  il  de- 
creto di  scioglimento  il  presidente  del  Consiglio 
fece  peggio  che  promovere  un  plebiscito  intorno 
al  suo  nome:  egli,  senza  metter  fuori  principii  e 
criterii  nuovi  di  governo,  egli,  con  una  saldezza 
di  propositi  pili  singolare  che  ammirevole,   mani- 


DEL    COLLEGIO    DI    PISA.  475 

festò  al  popolo  italiano  la  sua  intenzione  di  con- 
servare quel  suo  sistema  irresponsale,  che  gli 
permette  di  governare  con  qualunque  indirizzo  e 
con  qualunque  maggioranza.  Voi,  o  signori,  con 
un  Comitato  da  prima  de'  miei  maremmani,  poi 
con  questo  vostro  general  Comitato  pisano,  mi 
annunziaste  che  volevate  pur  co  '1  mio  nome  com- 
battere quel  sistema.  Or  dunque,  eccomi.  Com- 
battiamo [applausi^. 

Dichiaro  anzitutto  che  io  nelF  onorevole  De- 
pretis  rispetto  la  onestà  della  vita  e  la  beneme- 
renza dei  lunghi  servigi  alla  patria;  ma  reputo 
mio  diritto  e  mio  dovere  discutere  in  tutto  e  per 
tutto,  con  franchezza  antica,  il  ministro.  Né  ripe- 
terò il  giudizio  di  Camillo  Cavour  che  in  lui  de- 
nunziava un  uomo  fatale  alla  monarchia:  troppo 
glie  ne  intronarono  le  orecchie  gli  antichi  accu- 
satori, che  ora  lo  salutano  e  acclamano  presidio 
e  scudo  delle  instituzioni.  Anche  raccontano  che 
ad  un  avversario  di  destra  il  quale  gli  rimprove- 
rava —  Tu  sei  nel  fango  fino  agli  occhi  —  egli 
con  tranquillità  cinicamente  eroica  rispondesse 
—  No,  soltanto  fin  qui  — ,  e  toccava  co  '1  dito  la 
sottosporgenza  del  labbro  inferiore  onde  gli  cola 
la  barba  veneranda  \  applausi  fragorosi].  Non  so 
se  vero  il  motto;  ma  certo  e  vero  e  profondo  è 
il  disprezzo  che  il  freddo  vecchio  ha  dell'  ele- 
mento su  cui  adopera  le  sue  arti.  Con  quale 
profitto  della  nazione  vediamo. 

Il  passaggio   dell'  agenda   delle   strade   ferrate 


47^  AGLI   ELETTORI 

air  esercizio  privato  potè  nel  concetto  di  molti 
esser  utile  e  buono,  ma  le  Convenzioni  cosi  dette 
ferroviarie  offesero  in  guisa  gì'  interessi  pubblici 
e  il  senso  morale,  che  per  farle  mandar  giù  si 
andava  sussurrando  occorrere  e  sùbito  i  milioni 
della  cessione  per  riparare  al  disavanzo  immi- 
nente. E  il  disavanzo  non  fu  riparato,  e  la  poli- 
tica finanziaria  dell'amministrazione  Depretis  tra- 
montò co  '1  dissesto  economico  nella  legge  del  ca- 
tenaccio. 

Legge  di  giustizia  e  di  prosperità  doveva 
essere  la  perequazione  dell'imposta  fondiaria; 
ma  il  modo  del  recarla  in  atto  ne  limitò  e  allon- 
tanò i  benefizi,  senza  un  riguardo  a  sollevare, 
quel  che  v'  è  di  peggio  in  Italia,  i  risentimenti 
regionali. 

La  riforma  delle  leggi  su  l' istruzione  superiore 
doveva  infondere  nella  coltura  italiana  un  aere  di 
vitalità  più  fresco  e  più  schietto,  collocando  l' in- 
segnamento in  regione  più  alta  e  con  più  libera 
circolazione  :  fu  trascinata  dalla  Camera  al  Senato, 
e  mandata  a  languire  in  un  limbo  d' ipotetica  di- 
scussione, dal  quale  né  si  seppe  né  si  volle  rilevarla 
mai  :  1'  onorevole  Depretis  lasciò  crescere,  a  con- 
solazione della  scienza  e  della  ricchezza  nazionale, 
la  spampanata  fioritura  degl'  Instituti  superiori  e 
delle  Università  di  prim'  ordine.  La  legge  che 
doveva  opportunamente  e  utilmente  ripartire  tra 
il  governo  e  le  province  la  spesa  per  le  scuole 
secondarie  e  rialzare  la   condizione  e   la   dignità 


DEL    COLLEGIO   DI    PISA.  477 

degl'  insegnanti  fu  rimandata  di  dilazione  in  di- 
lazióne alla  sepoltura  [applausi].  Dopo  tante  ciarle 
crudeli  su  l' istruzione  elementare,  si  fini  con  una 
elemosina  ai  maestri  martiri,  che  gettata  su  lo  scio- 
gliere della  Camera  ebbe  Tana  d'un  tentativo  di 
corruzione  elettorale  [applausi]. 

In  fine  i  provvedimenti  per  V  agricoltura,  vita 
dell'Italia,  riuscirono  a  un'accademia;  le  leggi 
sociali,  pacificazione  dell'  avvenire,  a  una  com- 
media; tutto  che  rimaneva  di  buono  e  di  bello 
del  programma  di  Stradella  divenne  Molto  chiasso 
per  niente,  se  pure  è  lecito  applicare  alla  nega- 
zione depretisina  il  titolo  d'  una  creazione  shake- 
speariana. Di  Agostino  Depretis  la  storia  d' Italia 
ripeterà  severamente  ciò  che  la  satira  cantò  di 
quel  cardinale:  cioè,  che 

Il  mal  lo  fece  bene 

E  il  ben  lo  fece  male.  [Risa:  acclam azioni]. 

Ahimè,  che  lo  scherzo  mi  si  aggela  su  le 
labbra,  ripensando  all'  alleanza  con  le  potenze 
centrali.  L' Italia  fii  costretta  a  sacrificare  parte 
delle  sue  libertà  interne,  a  far  getto  della  sua 
idealità  storica,  a  rinnegare  la  realtà  nazionale,  a 
mettere  la  sua  firma  democratica  sotto  concetti  e 
progetti  medievali  e  feudali,  senza  un  correspet- 
tivo  né  di  guarentigie  per  il  presente  né  di  pro- 
messe per  r  avvenire.  Al  nipote  di  Carlo  Alberto 
si  fece  indossare  la  divisa  di  Radetsky....  [Scop- 
piano applausi  e  grida  fragorose;  la   testa   di  un 


478  AGLI    ELETTORI 

ispettore  compare  dietro  l'oratore,  il  Carducci  si  volge 
e  protesta.  Tutto  il  teatro  è  pieno  di  grida j  di  proteste 
e  di  fischi.  Dopo  qualche  minuto  V  ordine  si  rista- 
bilisce, e  il  Carducci  ripiglia^  Al  nipote  di  Carlo 
Alberto  si  fece  indossare  la  divisa  di  Radetsky, 
perché  poi  gli  si  dicesse  che  non  gli  si  rendeva  la 
visita  perché  a  Roma  non  è  in  casa  sua.  E  i  dotti 
di  Berlino  dicono  che  Roma  è  dell'  Europa,  e  gli 
slavi  del  littorale  istriano  danno  la  caccia  agli 
italiani,  e  Vienna  ci  comanda  di  non  chiamare 
orde  i  suoi  bravi  che  sciabolavano  gì'  inermi  per 
le  vie  di  Padova  e  di  Milano.  Almeno  la  codardia 
ci  desse  il  guadagno  d' una  condizione  di  pace. 
No:  il  bilancio  della  guerra  in  questi  ultimi  anni 
crebbe  di  sessanta  milioni.  E  cresca  pur  ancora; 
e  cresca,  e  più,  quello  della  marina.  Ma  con 
altro  governo  che  sappia  valersene.  Con  questo, 
a  che  ?  [  Applausi  ] . 

Il  governo  di  Agostino  Depretis  non  è  un  go- 
verno d'avventure.  Chi  ve  l'ha  detto?  Quel  vec- 
chio ha  delle  audacie  spaventevoli.  Quando  le 
Convenzioni  minacciavano  d'  andare  a  picco,  egli 
lanciò  la  spedizione  di  Massaua.  [Bene].  Ahimè, 
sante  anime  dei  morti  per  la  patria  su  i  piani  lom- 
bardi, su  le  acque  dell'Adria,  su  le  vette  delle  Alpi 
ancora  non  nostre,  perdonate  voi  a  quella  mag- 
gioranza che  si  lasciò  illudere  da  una  frase,  da 
una  sconcia  frase  secentistica  —  Le  chiavi  del  Me- 
diterraneo sono  nel  Mar  Rosso.  —  [Gli  applausi 
interrompono  il  discorso  per  qualche  minuto].  Nel 


DEL    COLLEGIO    DI    PISA.  479 

Mar  RossO;  o  sciagurati,  e'  è  la  dispersione  dei 
milioni  italiani  che  potrebbero  fecondare  le  terre 
inseminate  della  penisola,  e'  è  la  tomba  delle  vite 
italiane  che  potrebbero  rischiarsi  in  bene  altre 
glorie  o  rivendicazioni,  e'  è  la  ragione  della  de- 
bolezza d'Italia.  —  Ogni  anno  ormai  conta  una 
nuova  strage  d' italiani  su  le  terre  africane  :  la 
ultima,  quella  di  Harrar,  è  una  provocazione  in 
tutte  le  regole  della  barbarie,  una  provocazione 
piena  di  ferocia  e  di  disprezzo.  E  l' onorevole 
Grimaldi  disse  a  Catanzaro  pur  V  altro  ieri,  una 
politica  d' energia  in  Africa  essere  una  follia. 
Vero  è  che  mesi  fa  l' onorevole  Robilant,  per 
rialzare  la  dignità  dell'  Italia  e  divergere  certe 
fissazioni,  minacciò  di  tutti  i  suoi  fulmini  le  re- 
pubbliche americane,  accennando  alla  Colombia. 
Ma  ben  presto  V  onorevole  Robilant  depose  i 
suoi  fulmini,  e  la  Colombia  ride  e  spartisce.  Per 
ammenda,  a  bloccare  la  Grecia  e'  è  anche  delle 
nostre  navi.  [Tutto  questo  passo  è  interrotto  quasi 
ad  ogni  parola  da  applausi^ 

Il  positivismo  dell'onorevole  Robilant  all'estero 
è  il  rispecchiamento  dello  scetticismo  dell'  onore- 
vole Depretis  all'  interno.  Gli  accordi  tra  partiti 
si  fanno  contro  un  nemico  comune,  la  reazione, 
o  nei  solenni  momenti  della  patria,  sotto  1'  idea 
del  sacrifizio  e  del  dovere,  non  co  '1  riguardo  del- 
l' interesse  e  dell'  utile.  Il  trasformismo  è  brutto 
vocabolo  di  più  brutta  cosa.  Da  che  1'  onorevole 
Depretis    tradì    (il    vocabolario    italiano    non    mi 


480  AGLI   ELETTORI 

suggerisce  parola  più  propria)  tradì  il  suo  partito 
e  introdusse  il  cavallo  di  Troia  nella  vecchia  Si- 
nistra; da  che  circondando  di  stolte  paure  la 
monarchia  e  d*  artifizi  aleatorii  la  Camera  infeudò 
a  sé  il  potere;  da  che  fece  della  sua  politica  un 
attaccapanni  (la  similitudine  è  dell'  onorevole 
Bonghi,  che  oggi  violento  difende  quello  che  ieri 
violento  assaliva,  ma  io  mi  permetto  di  com- 
pierla), un  attaccapanni  onde  ciascun  deputato 
credesse  poter  riprendere  il  soprabito  con  dentro 
almeno  un  portafoglio  [applausi,  ilarità]]  da  che 
continua  il  giuoco  del  pipistrello  (la  compara- 
zione è  volgare;  ma  che  cosa  vi  può  esser  più 
di  sublime  o  d'elegante  con  questo  governo?),'  e 
agli  uccelli  mostra  1'  ala  del  programma  di  Stra- 
della  e  ai  topi  V  orecchie  del  diciannove  maggio, 
e  rimanda  gli  onorevoli  Zanardelli  e  Baccarini  e 
volta  le  spalle  all'onorevole  Minghetti;  da  che 
questo  desultor  (lo  dico  in  latino,  perché  comincia 
a  pesarmi  dover  dire  tanto  male  d'  un  vecchio  ), 
da  che  questo  desultor  di  principii  e  di  uomini 
da  Acton  passa  a  Brin,  da  Ferrerò  a  Ricotti,  da 
Mancini  a  Robilant,  da  Baccelli  a  Coppìno,  da 
Baccarini  a  Cenala,  da  Zanardelli  a  Ciannuzzi 
Savelli  a  Ferracciu  a  Pessina  a  Taiani;  da  che 
tutto  questo  avviene,  l' Italia,  come  non  ha  più 
fermezza  all'  interno,  cosi  non  ha  più  forza  al- 
l'estero;  come  dentro  è  corrotta,  cosi  apparisce 
abietta  al  di  fuori  [applausi  replicati'].  In  tre  anni, 
tre  crisi;  solo  perché  l'onorevole  Depretis  si  man- 


DEL   COLLEGIO    DI    PISA.  481 

giasse  o  rimangiasse  undici  ministri  e  undici  se- 
gretari generali.  E  la  bandiera  italiana,  tutta  an- 
cora radiante  del  martirio  e  de' miracoli  i  de' nostri 
padri  e  fratelli,  è  fermata  là  sulle  soglie  del 
tempio  suo,  su  le  soglie  del  Pantheon;  e  un  que- 
sturino sequestra  la  ghirlanda  d' una  città  italiana 
su  la  tomba  del  primo  re  d'Italia  [applausi])  e 
un  generale  italiano  ritorna  da  una  impossibile 
ambasceria  presso  un  despota  barbaro,  perché 
piove  {applausi]. 

Ah  in  verità  che  par  di  sognare:  par  di  so- 
gnare un  qualche  brutto  capitolo  di  storia  bizan- 
tina o  di  vivere  sotto  il  governo  d' una  corte 
borbonica  in  decadenza. 


k 


Oh  non  per  questo  dal  fatai  di  Quarto 
Lido  il  naviglio  dei  Mille  salpò. 


Oh  giornate  di  sole,  di  libertà  e  di  gloria  del  1860  ! 
Oh  lotte  di  titani  tra  Garibaldi  e  Cavour  nel  1861  ! 
A  che  siam  divenuti  !  È  successa  all'  epopea  del- 
l' infinitamente  grande  la  farsa  dell'  infinitamente 
piccolo,  la  farsetta  affaccendatella  dei  pulcinelli 
gravacciuoli.  Quanto  ha  da  durare  ancora?  Quanto 
piacerà  al  popolo  italiano  [applausi].  Il  quale 
—  non  senza  dolore  e  vergogna  arrischio  questa 
comparazione  —  mi  assomiglia  un  po'  troppo  quel 
personaggio  di  Molière  che  ammonisce  la  moglie 
multivola.  —  Io  ti  dico  sempre  le  medesime  cose, 
perché  tu  fai  sempre  le  medesime  cose;  e  finché 
tu  farai  le  medesime  cose,  io  ti  dirò  le  medesime 

Carducci,  4.  31 


482  AGLI    ELETTORI 

cose.  —  Oh  ma  il  popolo  italiano  non  è  un  Pierrot, 
e  smetterà,  spero,  di  dire;  di  dire  e  di  tollerare. 
[Approvazioni  ed  ilarità}. 

E  ora  brevi  parole  di  me:  brevi,  come  sta 
bene  a  un  semplice  milite  qual  sono  io:  ma  fran- 
che, come  si  addice  ad  uomo  libero  che  parla  ad 
uomini  liberi.  Io  non  ho  bisogno  che  gente,  il  cui 
modo  di  scrivere  accusa  la  bassezza  dell'  animo  e 
la  turpitudine  della  vita,  insegni  a  me  la  fede  del 
giuramento  [Applausi,  grida  "  Abbasso  il  Fan- 
fulla  !  „  ]  :  io-  non  ho  esitato  e  non  esito  di  giu- 
rarmi obbediente  alla  monarchia  italiana,  anche 
per  la  semplicissima  ragione  che  cotesta  monar- 
chia la  ho  creata  un  po'  anch'  io,  co  '1  mio  vóto, 
nel  plebiscito  del  1860;  in  quel  glorioso  anno  in 
cui  Giuseppe  Mazzini  sollecitò  ad  accettarla  come 
segnacolo  e  suggello  dell'  unità,  in  cui  Giuseppe 
Garibaldi  le  conquistò  l' Italia  e  la  conquistò  al- 
l' Italia.  La  monarchia  è  oggi  in  Italia  la  legittima 
depositaria  della  rappresentanza  della  Sovranità 
popolare;  ma  la  Sovranità  popolare  sta  su  tutto 
e  su  tutti,  indiscutibile  principio  d'ogni  autorità 
e  d'ogni  funzione  politica;  la  Sovranità  popolare 
che  non  abdica  mai,  che  nessuna  forza  può  se- 
questrare, che  nessun  uomo  può  impersonare. 

Giuseppe  Mazzini  nei  mesi  ultimi  della  sua 
vita  profetò,  che,  da  poi  che  la  monarchia  s'  era 
trasportata  a  Roma,  la  ci  durerebbe  per  più  ge- 
nerazioni :  il  che  certo  non  arrideva  al  gran  trium- 
viro; ma  il  vero  vinceva  con  la  sua  forza  storica 


DEL   COLLEGIO   DI   PISA.  483 

il  banditore  e  V  assertore  supremo  dell'  idea  uni- 
taria. Io  dirò  di  più.  All'  Italia  resta  ancora  da 
vincere  il  papato.  Questa  è  suprema  questione 
dinanzi  alla  quale  non  giova  indebolirsi  e  sper- 
dersi in  questioni  minori  di  forma.  Un  re  d' Italia 
al  Quirinale  preme  già  con  la  mirabilità  del  fatto 
quindici  secoli  di  Roma  cosmopolita  e  di  nega- 
zione d' Italia,  e  avvezza  gli  occhi  dell'  Europa 
monarchica  e  cattolica  alla  irradiazione  della  terza 
Roma.  Ma  triste  quel  giorno  che  si  parlasse  di 
conciliazioni  ed  accordi!  che  una  fantasticheria 
medievale  intendesse  a  trasmutare  i  cittadini  in 
sudditi!  che  una  politica  dissennata  credesse  raf- 
forzare il  principio  monarchico  con  rassettamenti 
orleanesi!  La  base  della  monarchia  italiana  è  de- 
mocratica, il  plebiscito  :  il  vertice  è  l' idealità  della 
patria  una.  E  io  credo  di  rendere  al  re  d' Italia 
il  massimo  onore,  quando  io  lo  veggo  in  fantasia 
su  r  Alpi  giulie  a  cavallo,  capo  del  suo  popolo, 
segnare  con  la  spada  i  naturali  confini  della  più 
gran  nazione  latina  [Lunghi  ed  entusiastici  ap- 
plausi^. 

E  qui,  o  elettori,  o  cittadini  di  Pisa,  o  italiani, 
lasciate  che  nel  nome  santo  d' Italia  io  rechi  a 
questa  mia  prima  patria  toscana  il  saluto  della  mia 
seconda  patria,  la  forte,  la  buona,  la  generosa  Ro- 
magna [applausi].  Or  sono  dieci  anni  al  parlamento 
italiano  mandavami  la  Romagna;  oggi  intendono 
mandarmivi  molti  di  voi.  Dalle  rive  dell'Adriatico 
ove  mori  Dante   alle  rive   del   Mediterraneo   ove 


484  AGLI  ELETTORI  DEL  COLLEGIO  Di  PISA. 

nacque  Galileo  siamo  tutti  cittadini  d'  una  grande 
patria.  Viva  V  Italia  !  sempre  e  su  tutto  l' Italia  ! 
r  Italia  neir  irraggiamento  delle  due  grand'  idee 
ond'  ella  informò  la  civiltà  del  mondo,  giustizia  e 
libertà\  l'Italia  incoronata  con  segno  di  vittoria 
su  le  Alpi  !  r  Italia  sospingente  i  suoi  pacifici  o 
tonanti  navigli  sul  Mediterraneo  !  l' Italia  co  '1  suo 
popolo  di  agricoltori,  quali  die  il  Lazio  il  Sannio 
la  Sabina  e  1'  Etruria  !  l' Italia  co  '1  suo  popolo  d' in- 
dustriali quali  li  dierono  i  comuni  del  medio  evo  ! 
l' Italia  co  '1  suo  popolo  d'  artisti,  quali  gli  die  il 
Rinascimento.  Viva  l'Italia  una,  indivisibile,  eterna, 
come  Roma  sua  madre!  E  come  il  poeta  latino 
cantava  volgendosi  al  sole,  a  questo  nume  anti- 
chissimo di  nostra  gente  che  guidò  la  emigra- 
zione dei  nostri  maggiori  su  la  fatale  penisola  ove 
la  civiltà  del  mondo  fu  costituita,  cosi  oggi  io  su  '1 
nobile  fiume  d' Arno  che  risuona  ancora  le  ar- 
monie della  più  alta  poesia  umana,  in  conspetto 
del  Mediterraneo  che  fu  via  della  civiltà,  ripeto 
—  O  sole,  tu  non  possa  veder  mai  nulla  più 
grande  e  più  bello  d' Italia  e  di  Roma  !  [Seguono 
applausi  lunghissimi,  eckeggianii]. 


NOTE 


l)    al   DISCORSO    AGLI   ELETTORI   DI    LUCO, 

pagine  321-331. 

Gli  accenni  alle  approvazioni  e  interruzioni  furono  ripro- 
dotti con  fedeltà  storica  di  su  '1  giornale  //  lavoro. 


2)    al    9A    IRA. 

pag.  446  ultime  due  righe 
e  pag.  447  prime  quattro  righe. 

Vedi  in  questo  stesso  volume,  pag.  161,  162.  Scrissi  senza  cono- 
scere il  libro  del  sig.  Taine  su  la  rivoluzione. 

Alla  storia,  qualunque  siasi,  del  Ca  ira  può  servire  una 
lettera  che  l'autore  credè  dover  pubblicare  più  tardi  e  ad  altro 
proposito  nella  Cassetta  dell'  Emilia,   del  16  nov.  1889.  Eccola. 

Ill.ino  sig.  Direttore, 

Di  ciò  che  fu  pubblicato  questa  mattina  a  difesa  delle  mie 
Terze  odi  barbare  nella  Gazzetta  io  sono  gratissimo  allo  scrit- 
tore ed  a  Lei.  Ma  altra  e  antica  e  profonda  gratitudine  e  ve- 
nerazione, e  l'onestà,  mi  comandano,  non  di  rettificare,  ma 
di  pregarla  a  far  sapere  all'egregio  scrittore  cose  che  a  lui 
non  erano  note. 

Terenzio  Mamiani  m'incoraggiò  principiante,  mi  fece  quel 
che  sono,  mi  onorò  sempre,  fino  agli  ultimi   suoi   giorni,   della 


488  NOTE. 

sua  benevolenza  e  degli  amorevoli  consifrli  suoi.  L' M.  T.  che 
nella  Rassegtta  Nazionale  fece  appunti,  civili  sempre,  ma  se- 
condo il  pensiero  politico  suo,  al  ^a  ira,  non  fu  il  gran  patriota 
e  letterato  Mamiani;  e  né  anche,  come  io  sospettai  rispondendo, 
r  on.  senatore  Marjo  Tabarrini;  fu  un  conservatore  cattolico, 
che  io  non  ebbi  né  ho  l'onore  di  conoscere, 

L' on.  Bonghi  del  Qla  ira  scrisse  ciò  ch'egli  nel  rispetto 
politico  pensava;  ma  fu  largo  poi  di  tali  giudizi  su  le  Rime 
nuove  e  su  altre  cose  mie,  che  io  non  posso  non  andarne  con- 
tento pensando  alla  coltura  superiore  e  all'acuto  ingegno  del- 
l' illustre  uomo. 

Ciò  per  la  verità,  e  anche  per  il  debito  mio.  Gratissimo 
mi  confermo  di  nuovo  a  Lei  e  al  fervente  difensore,  che  mi 
dispiace  di  non  conoscere. 

Bologna,  16  novembre  1889' 

3)  al  DISCORSO  AL  POPOLO  NEL  TEATRO  NUOVO 
DI   PISA. 

Gli  accenni  alle  approvazioni  e  interruzioni  furono  ripro- 
dotti fedelmente,  e,  salvo  uno  non  esatto,  per  intiero,  dal  Capitan 
Fracassa  di  Roma,  20  maggio  1886. 


INDICE 


Ricordo  d'infanzia pag.  i 

Primo  passo „  5 

Le  risorse  di  San  Miniato  al  tedesco  „  13 

Prefazioni „  39 

Raccoglimenti „  49 

Juvenilia „  63 

Polemiche  sataniche „  85 

Levia  Gravia „  117 

Giambi  ed  Epodi .  „  145 

Critica  e  arte „  175 

Novissima  polemica „  289 

Per  la  poesia  e  per  la  libertà     ...  „  319 

Eterno  femminino  regale    .....  „  333 

Rapisardiana • .  „  359 

?A   IRA ,,385 

Agli  elettori  del  Collegio  di  Pisa  .  „  467 

Note »  4^5 


Finito  di  stampare  ' 

il  di  r  marzo  MDCCCXC 
nella  tipografia  delia  ditta  Nicola  Zanichelli 
in  Bologna. 


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